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Lauree in Albania, soldi scudati in Svizzera: quando “serve” la Lega diventa internazionale

Lauree in Albania, soldi scudati in Svizzera: se “serve”, la Lega è internazionale

Dice “prima gli italiani” ma la Lega ama l’estero, eccome se lo ama, e si riferisce a Paesi stranieri quando c’è da brigare affari di soldi e utilità. C’è la laurea di Renzo Bossi in Albania, all’Università albanese Kriistal di Tirana, che potrebbe essere la prima scena di questa brutta commedia all’italiana in cui gli odiati albanesi (quelli contro cui la Lega ha lanciato strali) sono gli stessi che poi incoronano il figlio dell’imperatore. Rimarrà negli annali anche la meravigliosa risposta del figlio del Senatur, che ai giornali disse di essersi laureato a sua insaputa.

Ma Umberto Bossi e i figli Riccardo e Renzo sono finiti anche in un processo che ci porta addirittura in Tanzania, dove l’ex tesoriere del partito Francesco Belsito ha investito parte dei rimborsi elettorali, acquistato partite di diamanti e poi distribuito soldi alla famiglia del segretario della Lega. Il tesoriere genovese Franco Belsito alla vigilia di Capodanno 2012 fa partire da Genova il bonifico da 4,5 milioni di euro, destinati a finire in Tanzania, svelando il giro di mega prelievi, operazioni offshore, movimenti di assegni, vorticosi giri tra Africa e Cipro, milioni di corone norvegesi e pacchi di dollari australiani. La seconda scena della commediola in salsa leghista potrebbe essere quella Audi A6 che parte da Genova a Milano con undici diamanti e dieci lingotti d’oro nel bagagliaio da consegnare direttamente in via Bellerio. Si tratta del famoso processo dei famosi 49 milioni di euro (di cui Salvini continua a parlare come “parte lesa” dimenticandosi di diritti lesi dei cittadini italiani) che si è chiuso con un’inedita trattativa per cui il partito di Salvini pagherà in 76 comode rate annuali da 600mila euro l’una. Data di estinzione del debito: 2094, alla faccia dei cittadini abituati alle rateizzazioni di Equitalia.

Poi c’è quell’incontro in Russia, con la visita a Mosca del leader leghista all’epoca ministro e vicepremier, in cui il suo ex portavoce Gianluca Savoini all’Hotel Metropoli il 18 ottobre del 2018 parla di alcuni fondi neri che dovrebbero arrivare al partito attraverso una fornitura di petrolio. L’inchiesta è ancora in corso ma la conversazione (al di là del fatto che Salvini sapesse o meno) l’abbiamo ascoltata tutti. Infine c’è il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, con il suo trust alle Bahamas con 5 milioni di euro, regolarizzati da uno scudo fiscale ma sulla cui origine nulla dice.

Prima gli italiani, dicono, ma questi leghisti hanno le mani in pasta sui conti correnti in giro per il mondo.

Leggi anche:

1. Esclusivo TPI: Ecco che fine hanno fatto i 49 milioni della Lega / 2. Fondi Lega, l’ex tesoriere Belsito: “Dovete chiedere a Maroni e Salvini come hanno usato quei soldi” / 3. Fondi Lega: tutto quello che c’è da sapere sulla truffa allo Stato e sui soldi del partito spariti nel nulla

4. Esclusivo TPI, ex tesoriere Lega: “I 49 milioni? Li abbiamo spesi scientemente. Salvini era d’accordo” / 5. Esclusivo TPI: L’ex segretaria di Bossi accusa anche Giorgetti: “I milioni della Lega usati per licenziare i dipendenti” / 6. Esclusiva TPI: “Salvini sapeva dei 49 milioni spariti, ma non fece nulla”. Le rivelazioni shock dell’ex dipendente della Lega che incastrano il Segretario

L’articolo proviene da TPI.it qui

Il suono delle ambulanze

Se mi chiedono cos’è stata Lodi nel pieno della pandemia c’è una cosa su tutte che mi fischia ancora nel cervello: il suono delle ambulanze. Un suono incessante, giorno e notte, senza sosta in nessun orario, una sirena che era diventata perforante nel silenzio della città e che si ripeteva con una costanza mortifera. Forse niente come il suono delle ambulanze rende la grammatura di una tragedia, è qualcosa che ti perfora i sentimenti come il lento gocciolare che rende pazzi o come una luce che ti picchia nell’occhio anche di notte.

Mi è venuto da pensare, in quei giorni lì, che non avrei mai dimenticato il sottofondo che il Covid aveva suonato per settimane intorno a me, intorno a tutte quelle case vuote anche se strapiene, intorno a quelle vie che sembravano tutte rotolare tra le fauci del pronto soccorso come se la città fosse stata ridisegnata per finire tutta, da qualsiasi lato la percorrevi, solo lì.

Il suono di quelle ambulanze era accarezzato dal dolore e dal silenzio. A Lodi il Covid non è mai stato una notizia, a Lodi il Covid sono i morti che ti capita di segnare perché sono famigliari tuoi o famigliari di persone vicine. Ci sono città d’Italia, chiedete dalle parti di Bergamo, in cui la malattia ha cambiato la geografia degli affetti di tutta la comunità.

Mi ero promesso, mentre in molti scrivevano che ne saremmo usciti migliori, che almeno avrei provato a uscirne con quella sensazione di pori drammaticamente aperti in cui entrava il vento, che davvero non avremmo potuto dimenticarci quanto ci siamo sentiti fragili, quanto in quelle settimane abbiamo avuto contezza, toccandola con mano, che le priorità, anche quelle del dibattito pubblico, erano drammaticamente stonate, confuse, sbagliate. Quel suono delle sirene era anche la colonna sonora degli occhi umidi di chi sapeva che non ce l’avrebbe fatta a ripartire, di chi ha dovuto allungare una mano per farsi fare una spesa, di chi ha avuto la vita capovolta per un colpo che non è riuscito a sostenere.

Mi ero augurato anche che quel suono delle ambulanze fosse una lezione per occuparci del dopo, per riuscire a dare una forma ai numeri, per leggere ad esempio che il 21 giugno è stato il giorno peggiore della pandemia mondiale con un +183.020 casi, che in Australia e Nuova Zelanda (che pensavano di avere sconfitto il virus) sono tornate le restrizioni, che in India siamo nel pieno del picco, che in Cina sembra in atto la seconda ondata, che in Calabria è stata istituita una zona rossa a Palmi e che il mondo, avremmo dovuto impararlo, è molto più piccolo e ci interessa molto più da vicino di quello che pensiamo. Mi ero augurato che anche la politica non fingesse di elaborare velocemente il lutto per disfarsene. E invece, guardando fuori, forse mi sbagliavo.

Sarebbe da insegnare a scuola quel suono delle ambulanze.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Breve storia della mafia australiana

Correva l’anno 1920. La prima grande guerra era finita da ormai due anni. In Europa entrò in vigore il Trattato di Versailles, mentre in America prese vita il proibizionismo. Molti Paesi del vecchio continente erano ancora alle prese con il primo dopoguerra e la ricostruzione postbellica. In un’Italia segnata da una «vittoria mutilata», molti decisero di andarsene e di scoprire nuovi mondi, all’epoca poco conosciuti. Proprio nel 1920 i primi battelli carichi di italiani pronti a costruirsi una nuova vita attraccarono nel porto di Melbourne, Australia. Tra di loro c’era chi, invece, era lì per continuare una dinastia, per esplorare nuovi mondi dove insediarsi: i pionieri della ‘ndrangheta australiana. Viene definita Honoured Society e da quasi 100 anni è stabilmente radicata nella terra dei canguri. Seguendo l’inchiesta de l’Espresso, qui ha fedelmente replicato metodi e business, potendo agire in tutta tranquillità in quello che, insieme al Canada, rappresenta un vero e proprio rifugio sicuro dalle leggi italiane.

Joseph “Pino” Acquaro

È il 15 marzo 2016 quando Joseph Acquaro, detto Pino, viene assassinato con un colpo di pistola mentre si dirige alla sua macchina. Un omicidio in sé può significare molte cose, in particolar modo quando l’assassinato è un avvocato di successo residente a Melbourne e noto per aver difeso numerosi mafiosi calabro-australiani. Acquaro è stato presidente della camera di commercio italiana a Melbourne e membro del Reggio Calabria Club, oltre che un avvocato stimato dalla comunità. Le indagini sul suo omicidio sono tutt’oggi in corso, tuttavia, secondo l’Espresso, alcune tracce portano direttamente in Italia, come alcuni viaggi sospetti da Melbourne alla Calabria nei giorni successivi all’omicidio.

Pasquale “Path” Barbaro

In ordine cronologico, Joseph Acquaro non è l’ultimo a essere stato ucciso. A fare i conti con la morte per ultimo è stato Pasquale Barbaro, detto Path, a soli 35 anni di età. Lo scorso novembre Barbaro è stato freddato, secondo i media locali, «mentre usciva dalla casa di un suo associato». Una vera e propria esecuzione. Il giornalista Keith Moor all’epoca dei fatti ipotizzò una teoria secondo cui Barbaro era diventato un informatore della polizia: «Il sospetto è che sia stato ucciso per aver violato il codice di omertà, come è successo con suo nonno nel 1990» disse il giornalista ai microfoni della radio nazionale Abc.
La capacità dei clan mafiosi presenti in Australia è quella di mutare i propri codici culturali a seconda del contesto in cui si trovano. È questo quanto spiegato da Anna Sergi, criminologa ed esperta di ‘ndrangheta internazionale. Questa trasformazione, secondo l’attuale professoressa dell’University of Essex, ha permesso ai boss di entrare in ambienti di spicco della comunità australiana, quali politici ed economici, e questo ha portato numerosi vantaggi ai clan mafiosi. Alcuni legami vennero a galla già negli anni ’80, quando Nicola Callipari si recò in Australia, uno dei primi detective a farlo, per indagare.

Cosimo “Tony” Vallelonga

Il problema principale nella caccia ai boss latitanti presenti nella terra dei canguri è riconducibile soprattutto al gap legislativo che sussiste tra l’Italia e l’Australia. In parole semplici, quello che per la legge italiana viene definito latitante, per la legge australiana non sempre lo è. Il caso che rappresenta alla perfezione questa situazione è quello legato a Tony Vallelonga. Nato in Calabria e trasferitosi in Australia nel 1963, Cosimo Vallelonga, meglio conosciuto come Tony, è un personaggio molto noto: eletto per quattro volte, dal 1997 al 2005, sindaco di Stirling, sobborgo di Perth, è anche una figura molto attiva nella comunità religiosa ed è diventato un punto di riferimento della collettività italiana. Nel 2011 i pm della procura antimafia di Reggio Calabria hanno emesso un mandato di arresto per associazione mafiosa. Vallelonga continua a essere un uomo libero in Australia, nonostante le intercettazioni lo inchiodino mentre discute in Calabria con Giuseppe Commisso, detto u Mastru, circa questioni organizzative dei clan.

Oltre a quello di Tony Vallelonga, un altro caso ha creato frizioni fra le autorità italiane e quelle australiane. La questione è relativa al narcos Nicola Ciconte, condannato a 25 anni per traffico internazionale di cocaina dal tribunale di Catanzaro. Ciconte non ha scontato neanche un giorno di carcere in quanto le autorità locali non hanno mai dato il permesso all’estradizione a causa di prove non utilizzabili dai tribunali australiani, nonostante l’accusa dei magistrati calabresi fosse quella di aver importato in Australia oltre 500 chili di cocaina. Nicola Ciconte è morto qualche anno fa a seguito di una malattia contratta in Cambogia, da uomo libero.

Così come in Canada, la ‘ndrangheta si è radicata in Australia, una terra tanto lontana quanto legislativamente diversa dall’Italia. Un Paese dove tutto, o quasi, gli è concesso, mentre dal Bel paese rimbalzano mandati di arresto che difficilmente avranno giustizia. Queste sono solo alcune storie di mafia australiana, storie di una mafia sempre più globale.

(Fonte: Marco Razzini per vocidicitta.it)

‘Ndrangheta in Australia: arresti per l’omicidio Barbaro

Nove uomini sono stati arrestati fra ieri e oggi a Sydney, in una serie di incursioni coordinate in vari quartieri della metropoli, per l’uccisione due settimane fa di un boss della locale ‘ndrangheta: Pasquale Barbaro, di 35 anni. Sono stati eseguiti 13 mandati di perquisizione e sono ora incriminati per omicidio nove uomini di età fra 18 e 29 anni, ha detto il vicecommissario di polizia Mark Jenkins. Sono state sequestrate numerose armi di diverso calibro, giubbotti antiproiettile e maschere, oltre a 11 auto, 40 telefoni cellulari, una cassaforte, droga e contante. Dopo una serie di otto omicidi in pochi mesi fra membri delle diverse bande, la polizia ha formato due settimane fa una speciale task force, ora entrata in azione. “Questa non è la fine”, ha detto Jenkins. “Continueremo a prendere di mira questi individui attraverso indagini metodiche e strategie di intervento. Gli arresti continueranno”. In un’ennesima esecuzione nella guerra fra bande per il controllo del mercato della droga, Pasquale Barbaro, che un anno fa era sopravvissuto a un simile agguato, è stato ucciso con numerosi colpi mentre usciva dalla casa di un suo associato. Portava lo stesso nome del nonno, ucciso in una simile esecuzione nel 1990. Suo zio, anche lui Pasquale Barbaro, sta scontando 30 anni di carcere per l’importazione nel 2009 della quantità record di 4,4 tonnellate di ecstasy: 15 milioni di pasticche nascoste i 3.000 barattoli di pomodori pelati provenienti dal porto di Napoli. E il cugino, anche Pasquale Barbaro, è stato assassinato a Melbourne nel 2003 insieme a un noto boss criminale.

La ‘ndrangheta che viaggia in Australia

Schermata 2015-06-29 alle 23.04.17Nel corso degli ultimi anni, la ‘ndrangheta calabrese sarebbe riuscita a prendere sempre più piede in Australia, arrivando a corrompere politici sia a livello federale sia nei singoli Stati grazie a “falle” nel sistema di raccolta fondi: lo ha rivelato un’inchiesta durata oltre un anno di Fairfax Media Abc.

Secondo il reporter Nick McKenzie, autore dell’inchiesta, che è anche andato in Calabria per cercare i parenti dei boss australiani e ha parlato con i magistrati italiani, gli affiliati alle ‘ndrine australiane ricorrerebbero agli stessi mezzi usati nel nostro paese: «Il gruppo opera ricorrendo alle minacce e alla violenza sia in attività economiche lecite, come il commercio di frutta e ortaggi, sia in quello illegale della droga».

L’inchiesta ha scoperto legami tra «riconosciuti e sospetti criminali» appartenenti alla ‘ndrangheta e politici di primo piano. Addirittura, un uomo «direttamente legato alla mafia (calabrese, ndr)» avrebbe incontrato l’allora primo ministro australiano, John Howard (1996-2007) e altri leader di partito a eventi di raccolta fondi per il Partito Liberale nei primi anni Duemila. Nulla, però, lascia credere che l’allora premier fosse a conoscenza della sua vera identità, ha sottolineato McKenzie.

Politici di entrambi i due importanti partiti australiani, Laburisti Liberali, sarebbero stati oggetto di “pressioni” da donatori legati alla ‘ndrangheta per favorire i loro affari, legali o illegali che fossero: secondo un rapporto della polizia del 2013, la mafia calabrese avrebbe usato un numero di finanziatori ben conosciuti di partiti politici «che hanno offerto la loro immagine pubblica e del tutto legale» per coprire le loro attività. Prestanome, insomma.

Gli inquirenti hanno scoperto che il figlio «di un sospetto boss mafioso», un religioso, fece un’esperienza di lavoro all’ambasciata australiana a Roma, quando capo della delegazione era l’ex esponente dei Liberal, Amanda Vanstone. Tutto questo nonostante che le autorità italiane avessero condiviso con l’ambasciata le informazioni che avevano sul boss.

La stessa Vanstone, quando era ministro dell’Immigrazione nel governo Howard fece «ottenere un visto per un boss più tardi arrestato per traffico di droga e implicato in un assassinio. L’uomo è il fratello di un uomo d’affari conosciuto di Melbourne, con una storia criminale nota in Italia, ma nel 2005 ottenne il visto per l’Australia per ragioni umanitarie».

(fonte)