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Il libro nero sul CPR di Torino: “Quanti drammi prima del suicidio di Balde”

«Una ferita aperta, praticamente uno squarcio nel nostro sistema di diritto»: non usa mezzi termini l’avvocato Lorenzo Trucco, presidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) durante il suo collegamento per la conferenza stampa di presentazione del Libro nero sul CPR, (Centro di permanenza per i rimpatri) di Torino, organizzata alla Camera dal deputato di Più Europa Riccardo Magi.

Trucco ancora una volta ha sottolineato come la mancanza di regole dei centri determini di fatto un buco nero in cui sprofondano le persone, «In una voragine di disumanità», racconta, «in isolamento, senza cellulare, senza nessun contatto con i familiari, privi di controlli indipendenti sulla loro idoneità all’essere rinchiusi». Quel CPR di Torino diventato tristemente famoso per il suicidio di Moussa Balde, il 23enne guineano che si è tolto la vita in una cella di isolamento dopo essere stato vittima di un pestaggio a sfondo razziale. E, come ricorda il presidente dell’ASGI, le stesse celle di isolamento non sono previste da nessuna norma, «ci si finisce in assenza di qualsiasi provvedimento sottoposto a controllo formale. Si tratta – spiega Trucco – di un’umiliazione della persona. Ed è per questo che si moltiplicano gli atti di autolesionismo ed è per questo che abbiamo fortemente voluto pubblicare il libro nero. Perché il decesso di Balde è stato preceduto da molti altri drammi». C’è poi un buco giuridico: il giudice di pace non ha nessun potere di disporre pene detentive (come di fatto è la detenzione in un CPR): «Avviene solo per i migranti ed è un paradosso che si deve rimuovere».

L’avvocato Maurizio Veglio (anch’egli componente di ASGI) ha sottolineato come il loro Libro nero sia di fatto un racconto rubato, nato dalle storie di persone intercettate «e sottratte a un sistema di controllo feroce». Si tratta di un «catalogo di pezzi di biografie di persone a cui viene negato tutto». C’è chi non riesce ad avere le stampelle di cui avrebbe bisogno, c’è chi afflitto da patologie ematologiche aspetta un mese e mezzo per avere accesso agli esami che gli spettano, persone che si dichiarano minorenni ma che vengono comunque trattenute. «Il CPR è un luogo di scomparsa – dice Veglio -sterilizzato. Non escono le notizie, non esiste un registro degli eventi critici e la qualità della vita è talmente degradata e degradante che alcuni detenuti chiedono addirittura l’isolamento, altri finiscono per cucirsi le labbra, inghiottire oggetti o studiare quanti chili debbano perdere per sperare di guadagnare la libertà. Se non c’è un giudice ai detenuti rimane solo il loro corpo. E nel CPR c’è un solo infermiere per 12 ore e un medico per sole 5 ore. Solo loro per 130 detenuti».

L’avvocato di Moussa Balde, Gianluca Vitale di Legal Team Italia, ha sottolineato come la morte del giovane sia riuscita a superare le mura del CPR: «Il suo luogo di isolamento è una stanzetta, praticamente sei in un pollaio, in una gabbia da zoo. Moussa è stato vittima di un reato ma per lo Stato ha prevalso la sua irregolarità, preferendo la negazione dei diritti. E nel CPR di Torino è morto Hossain Faisal, cittadino bengalese, il 16 febbraio del 2019, nella stessa cella in cui era stato collocato ben 5 mesi prima e nonostante evidenti problemi psichici». Al 24 giugno nei 10 CPR sparsi per l’Italia (1 è chiuso per lavori) erano detenuti 452 persone (tutti uomini) su 755 posti disponibili.

«A Torino anche i colloqui con gli operatori avvengono attraverso le sbarre – ha spiegato Daniela De Robert, componente del Collegio del Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà – C’è una gravissima mancanza di trasparenza: solo il CPR di Roma permette l’accesso ad alcune organizzazioni mentre tutti gli altri sono chiusi alla società civile, difficili perfino per gli avvocati e negati alla stampa. È più facile entrare in carcere che in un CPR. Poi si potrebbe discutere della legittimità dei trattenimenti: nel 2020 sono state rimpatriate il 50,1% delle persone e ne sono passate 4487. È lecito trattenere persone private della loro libertà in funzione di un’espulsione che non avviene? Nel lockdown le persone venivano trattenute nonostante i voli fossero cancellati e le frontiere chiuse. Che senso ha? E poi ci sono i minori trattenuti con la radiografia del polso, una cabala senza base scientifica». «Da noi chiedi protezione e ricevi isolamento – dice De Robert – in un luogo privo di qualsiasi regolamento e controllo. I detenuti avrebbero diritto di reclamo ma come possono farlo in un luogo in cui non viene nemmeno concessa la carta e la penna?».

«Nei Cpr si trovano spesso persone in una condizione di disperazione senza fine, e la fine a volte, come nel caso di Mussa, è la morte», afferma Riccardo Magi. «La detenzione è oltremodo afflittiva per la mancanza di regole che disciplinino meglio vari aspetti della vita dei reclusi e garantiscano diritti basilari. Su questo si può e si deve intervenire seguendo anche le indicazioni del Garante. Ma andrebbero anche riconsiderati il senso e le modalità di questa detenzione amministrativa anomala e contro lo stato di diritto», spiega il deputato. Il libro nero del CPR di Torino è scaricabile dal sito asgi.it

L’articolo Il libro nero sul CPR di Torino: “Quanti drammi prima del suicidio di Balde” proviene da Il Riformista.

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Umiliati e intimiditi, così si vive nel Cpr dove si è tolto la vita Moussa Balde

La Procura di Torino ha aperto un fascicolo per indagare sulla morte di Moussa Balde, il 23enne originario della Guinea trovato morto impiccato nel centro di permanenza per il rimpatrio di corso Brunelleschi dove si trovava rinchiuso. Così, con il nome e il cognome, forse rischiate di non ricordarvelo perché i nomi stranieri faticano a fissarsi nella memoria e aleggiano leggeri come se fossero un inciampo avvenuto nella cronaca, Balde era quel ragazzo accerchiato e preso a bastonate, calci e pugni a Ventimiglia mentre chiedeva l’elemosina che fu registrato in un video. Dopo la sua morte (che abbiamo raccontato qui su Il Riformista) si sono affrettati tutti a dirci che no, che il problema non era che fosse rinchiuso nel Cpr di Torino e che anzi forse avesse addirittura rubato un cellulare, come se l’eventuale furto di un oggetto qualsiasi potesse giustificare un pestaggio a sangue.

Ma il punto è un altro: dopo il suicidio di Balde nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino qualcuno avrebbe potuto almeno sperare, al di là dell’indagine della magistratura, che almeno si rispettassero i diritti civili di base e invece la situazione rimane una giungla di violenza. Dall’area Rossa del Centro alcuni ragazzi detenuti stanno comunicando con alcuni volontari all’esterno raccontando di essere in sette in una stanza, con un bagno senza finestre e con una porta rotta. Le ore d’aria (per questi che non sono reclusi nonostante siano trattai illegalmente da reclusi) sono passate sotto la stretta vigilanza della polizia che li circonda. Chi non ha amici e parenti che possano portare dei vestiti puliti deve farseli passare dal Centro che distribuisce i cambi una volta alla settimana, spesso sporchi. Ci sono perquisizioni in continuazione e le umiliazioni e le intimidazioni sono continue e costanti.

Ci sarebbe una direttrice, a dire la verità, ma le poche volte che si fa federe è inavvicinabile e accompagnata dalla scorta, come se camminasse tra delinquenti che invece hanno l’unica colpa di non avere i documenti a posto.
Poi ci sono le udienze (accade a Torino come in tutto il resto d’Italia): giudici che non ascoltano i detenuti, non li fanno nemmeno parlare perché spesso l’interprete egiziano risulta incomprensibile e alla fine delle udienze l’unico risultato è un allungamento delle pene detentive, senza nessun ruolo degli avvocati.

Scrive l’associazione No Cpr Torino: «Per esempio, A., di origine marocchina, portato a Torino dal Cpr di Caltanissetta, fra due settimane finisce i tre mesi di detenzione. Ha visto la sua avvocata solo una volta, ovvero quando gli ha fatto firmare il modulo per il gratuito patrocinio. È a rischio di espulsione perché ora la frontiera è aperta, ma l’unica notizia che ha avuto rispetto alla sua situazione è stata la singola telefonata della legale per informarlo che aveva mandato il suo nominativo al consolato senza avere risposta. Un altro recluso marocchino è in sciopero della fame da quattro giorni proprio per la paura della deportazione. Continuano le resistenze ai tamponi, che aprono le procedure alle deportazioni stesse; due ragazzi tunisini, intimati a fare l’esame, si sono rifiutati di farlo proprio per non essere rimpatriati. Hanno paura di essere prelevati con la forza, e la notte non dormono, determinati a non farsi portare via».

Succede addirittura che quando si accende un litigio uno dei reclusi venga portato in isolamento e nella stanza vengano spostati gli stessi suoi litiganti. Dalle testimonianze risulta che il 24 giugno un ragazzo sia caduto provocandosi un trauma alle costole ma nessuno gli ha prestato le cure. Accade così, fino allo stremo, fino alla disperazione, fino a un suicidio di cui tutti si sentono sorpresi. Accade così quando muoiono i neri: muoiono ma non cambia niente, non se ne accorge nessuno.

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