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Barcellona

Una metafora calcistica

Immaginate un mondo dove inevitabilmente ci si sfida. Ci si sfida perché è parte del gioco, in fondo si gioca soprattutto e vincere o perdere dipende dalla forma, da ciò che si ha a disposizione, dalla fortuna e inevitabilmente dal talento ma soprattutto dai soldi. Però ci sono regole chiare e le regole stabiliscono che chi ha bravura ma anche chi ha fantasia possa raggiungere traguardi che non erano preventivati, nemmeno immaginati e alla fine accade che anche gli sfavoriti vincano. A volte vincono una partita, a volte vincono addirittura il campionato.

Quelli invece che dovrebbero vincere per censo si arrabbiano tantissimo, strillano, se la prendono con i giudici e parlano di ingiustizia. Loro, quelli che di solito sono proprio i detentori delle redini della giustizia sociale. Però in fondo ci si affeziona mica solo per le vittorie e così si rimane fedeli alla propria idea, ci si mette dentro a una roba semplice perfino un po’ di valori. E in fondo tutte le volte che si sente un po’ di profumo di poesia è proprio quando Davide batte Golia.

Immaginate poi che in un mondo così, improvvisamente i ricchi vogliano diventare ancora più ricchi, non ci stiano a dividere con quegli altri nemmeno gli spiccioli e allora provano a pensare a un nuovo mondo in cui si entri per il merito di essere ricchi e di essere buoni amici nei circoli dei ricchi che contano, ciò che conta è essere nella cerchia giusta, nel giro giusto. Immaginate anche che la propria credibilità non venga valutata dal proprio spessore ma dalla propria popolarità. La popolarità come fine, addirittura prima della vittoria. E quella popolarità non è qualcosa che ha a che fare con il cuore, ovviamente, ma viene misurata con i soldi. Il nuovo mondo di quelli che non vogliono spartire niente con gli altri tra l’altro è un mondo magico in cui l’autopreservazione è garantita per censo, mica per risultati.

Di solito quando i ricchi vogliono stringere i cordoni della borsa per ingrassare il proprio circolino la chiamano “inevitabile modernità”, dicono che è il progresso e si inventano che il mondo è cambiato, che non ci sono più i palloni cuciti a mano o che non ci sono più i telefoni a gettoni. Quindi se l’idea non ti piace è colpa tua che sei incapace di stare al passo con i tempi o perfino invidioso.

Sei squadre di calcio inglesi (Manchester United, Manchester City, Arsenal, Chelsea, Liverpool, Tottenham), tre spagnole (Real Madrid, Barcellona, Atletico Madrid) e tre italiane (Juventus, Inter e Milan) hanno annunciato l’intenzione di farsi il loro campionato. Tutti ne discutono.

Eppure è una metafora così potente che andrebbe letta con attenzione, mica solo per il calcio. Alcuni lo chiamavano capitalismo ma poi il pensiero comune ha detto che è una parola così stantia, capitalismo.

Buon martedì.

 

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Lo Ius Soldi

C’è chi deve aspettare anni per ottenere la cittadinanza italiana, e chi 10 minuti

Il calciatore del Barcellona Luis Suarez, l’avrete sentito ieri sicuramente, aveva bisogno della cittadinanza italiana per brigare il suo trasferimento a un’altra squadra e per facilitare la propria carriera. Aveva la parentela giusta ma avrebbe dovuto sostenere l’esame di italiano. Si presenta all’Università per Stranieri di Perugia e ovviamente è un trionfo.

Peccato che secondo la Procura di Perugia l’esame sia stato concordato e addirittura il voto finale fosse stato stabilito prima ancora di sostenere l’esame. Dalle carte dell’inchiesta si legge che «quello non spiaccica ‘na parola, coniuga i verbi all’infinito, ma te pare che lo bocciamo», si dicono i professori, anche perché dicono sempre loro «con 10 milioni a stagione di stipendio, non glieli puoi far saltare perché non ha il B1». Sui social i professori si sono fotografati tutti sorridenti con il celebre studente.

E dov’è lo scandalo?, direte voi. Semplice. In Italia per prendere la cittadinanza ci vogliono fino a quattro anni, normalmente. Merito, neanche a dirlo, anche del decreto sicurezza del fu Salvini che ha allungato da due a quattro anni i tempi del procedimento. Suarez in 15 giorni ha fatto quello che una persona normale riesce, se riesce, a fare in quattro anni con pratiche molto macchinose che spesso richiedono l’ausilio perfino di un avvocato.

Scrive una professoressa: «In qualità di docente di italiano L2 conosco le lungaggini burocratiche, legate alla richiesta della cittadinanza, le quali inducono spesso molti stranieri a evitare di farne richiesta; fatto salvo il caso di taluni che pare godano di corsie preferenziali».

Poi c’è l’esame: quello di Suarez è durato qualche decina di minuti. Un mostro, in pratica. Scrive Gavin Jones, corrispondente Reuters in Italia che l’ha sostenuto: «Leggo che #Suarez ha ottenuto il certificato B1 di conoscenza dell’italiano ieri in mezz’ora. Per caso anch’io ho dato lo stesso esame ieri (per ottenere la cittadinanza). Dura 2 ore e 45’. Farlo in mezz’ora è impossibile – anche per Dante, ma sicuramente per Suarez».

E quindi cosa è successo con Suarez? Semplice: l’attaccante del Barcellona ha ottenuto lo Ius Soldi, ovvero un diritto che, come troppo spesso accade, non viene attribuito per merito ma per interesse economico. E non capita solo agli stranieri, e non capita solo nelle questioni di cittadinanza. E sarebbe interessante aprire un dibattito sulla ricchezza (e la notorietà) che unge i gangli della burocrazia. Siamo sempre lì. Siamo sempre qui.

Buon mercoledì.

(la geniale definizione di Ius Soldi è di Matteo Grandi)

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Il caso Suarez ci dice che in Italia gli immigrati ricchi si accolgono e quelli poveri si odiano

È la fotografia della distorsione di un paese e, per questo, la vicenda del calciatore del Barcellona Luis Suarez va raccontata per bene e va tenuta a memoria. Non tanto per le dimensione di un’indagine, quella della Procura di Perugia, che forse ha scovato i soliti furbi fare i furbi per mettersi a disposizione del luccicante mondo dei ricchi, ma perché le disuguaglianze sono talmente evidenti che basta mettere in fila i fatti per comprendere come in Italia ci siano diverse velocità (e forse anche regolarità) di procedura per ottenere un diritto.

E cosa c’è di più schifoso di un diritto che dovrebbe universale e invece è accessibile solo a chi può permetterselo? Un calciatore del Barcellona nato in Uruguay briga per ottenere la cittadinanza italiana (ha sposato un’italiana) in poche settimane. È la stessa cittadinanza che, lo dicono le statistiche, tanti attendono in media in quattro anni. Anni contro settimane, tanto per rendere l’idea.

Suarez doveva ottenere la cittadinanza per firmare per venire a giocare in Italia e sostiene, come tutti, un esame di italiano. Secondo le intercettazioni Suarez “non coniuga i verbi”, “parla all’infinito” e quindi concordano l’esame “perché con 10 milioni a stagione di stipendio non glieli puoi far saltare”, dicono gli esaminatori e quindi il calciatore “sta memorizzando le varie parti d’esame” e addirittura il voto finale è stato comunicato in anticipo al candidato. Prima di un esame che è durato una manciata di minuti quando di solito dura circa due ore e mezza.

Così ora la Procura di Perugia indaga, tra gli altri, il Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, Giuliana Grego Bolli, e il direttore Generale dell’università, Simone Olivieri. Ma in fondo, se ci pensate bene, Suarez ha dimostrato di avere tutte le carte in regola per diventare un italiano, un italiano di quelli che sono convinti che questo Paese appartenga ai furbi, ai ricchi, agli amici degli amici, alle raccomandazioni, al servilismo di certi funzionari, al seguire gli interessi prima ancora delle regole e alla prepotenza di chi può permettersi di comprare risultati che andrebbero conseguiti per merito.

In questa sua predisposizione Suarez ha dimostrato di essere perfetto per diventare un italiano di quelli. Resta solo da spiegare ai tanti che sono italiani di fatto, ma che lottano per anni per vedersi riconosciuti, che gli immigrati qui pesano in base al loro reddito. Si accolgono i ricchi e si odiano i poveri, semplice semplice. E così quella che era già una farsa ora diventa ancora più vergognosa.

Leggi anche: Suarez, cittadinanza italiana ottenuta con truffa: il punteggio attribuito prima della prova

L’articolo proviene da TPI.it qui

Branco, fascinazione e nichilismo: l’Isis 2.0 spiegato da De Giovannangeli

Un pezzo di Umberto De Giovannangeli da leggere e discutere:

La “car Jihad” che semina morte nel cuore di Barcellona, è “solo” un frammento di una strategia invasiva. Targata Isis 2.0 Una sconfitta che può trasformarsi in un incubo. Un incubo che è già diventato realtà: Barcellona, Parigi, Bruxelles, Nizza, Strasburgo, Monaco, Berlino, Manchester, Londra, Colonia, Stoccolma… Solo in Germania nove attacchi in un anno. Duemila foreign fighters con passaporto britannico addestratisi in Iraq, in Siria, in Libia, sono, quelli rimasti in vita, rientrati in patria per scatenare la Jihad globale. E lo stesso vale per i “fighters” tedeschi, francesi, belgi, olandesi, italiani…

In rotta a Mosul, accerchiati a Raqqa, in difficoltà in Libia, i comandi militari del Daesh hanno deciso di puntare all’Europa come nuova trincea avanzata della lotta per il “Califfato”. Il “Califfato” globale. Il numero dei foreign fighters partiti dall’Europa per combattere in Siria e Iraq, secondo le ultime stime è tra i 3.922 e i 4.294 individui, tutti pronti a morire per la bandiera dell’Isis. La maggior parte, 2.838, sono partiti da soli quattro Paesi europei: Belgio, Francia, Germania e Regno Unito. Quelli che sono tornati in patria, sono circa il 30%, indicativamente tra 1.176 e 1.288. Il censimento è dell’International Center for Counter-Terrorism (Icct) dell’Aja. Un recente studio dell’Istituto Elcano ha rilevato che dei 150 jihadisti arrestati in Spagna negli ultimi quattro anni 124 (l’81,6%) erano collegati all’Isis e 26 (il 18,4%) ad al-Qaeda.

Se ritirata è, quella delle milizie di al-Baghdadi, è una ritirata strategica. Un passo indietro, per colpire mortalmente l’Occidente e, in esso, l’Europa. Raqqa, Mosul, Sirte, Fallujia non sono più difendibili: troppo possente è la potenza di fuoco messa in atto dalle coalizioni, quella a guida americana e quella russa, per poter reggere da parti dei terroristi di Daesh. Meglio ripiegare nello spazio desertico fra il Maghreb e l’Africa Occidentale, a cavallo di confini desertici inesistenti fra Mali, Niger, Mauritania, Algeria, Libia e Ciad, un’area ideale dove riorganizzare le cellule dopo le sconfitte subite in Medio Oriente e da lì, nel Sahel, provare a dar vita al “Califfato del Maghreb” e al tempo stesso riorganizzare le forze e coordinare gli attacchi all’Europa.

In Europa a scatenarsi non sono più solo i “lupi solitari”. Perché i “lupi jihadisti” agiscono sempre più in branco, come dimostrano gli attacchi a Barcellona, Cambrils e Alcanar, si strutturano in cellule compartimentalizzate, i cui membri sono legati in termini generazionali e parentali, acquisiscono elementi fondamentali per colpire attraverso la rete di siti on line legati all’integralismo islamico armato.

Oltre la suggestione della Jihad che si fa Stato. Di più: Califfato. Oltre la dimensione integrista-religiosa che si fa legge – la “sharia” – e regola ogni atto della vita quotidiana del miliziano. La “fascinazione” dell’Isis non è nelle sue indubbia capacità mediatiche, né in una invincibilità militare fortemente intaccata sia in Iraq (Mosul) che a Raqqa (Siria). E non sta neanche nella figura, tutt’altro che carismatica, di Abu Bakr al-Baghdadi. La forza dell’Isis, quella che attira a sé migliaia di giovani con passaporto europeo, è la sua narrazione. Come ben argomenta Olivier Roy nel suo libro “Generazione Isis. Chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono l’Occidente” (Feltrinelli 2017) , il fascino dell’Isis risiede nella “volontà del movimento, presente fin dalle origini, di creare un nuovo tipo di ‘homo islamicus’, staccato da tutte le appartenenze nazionali, tribali, razziali o etniche, ma anche familiari e affettive, per creare una nuova società a partire da una sorta di tabula rasa..”.

La fascinazione è in questo, così come l’elemento di novità dell’Isis sta, riflette Roy, nell’associazione di jihadismo e terrorismo con la ricerca deliberata della morte. Non è dunque l’Islam che si radicalizza ma, guardando all’identikit dei terroristi entrati in azione in Europa, da Parigi a Bruxelles, da Nizza a Manchester, da Monaco a Berlino e Londra, e ora a Barcellona, ciò che colpisce è il fatto che, tranne pochi casi, i jihadisti non passano alla violenza dopo una riflessione sui testi. Per farlo, rimarca ancora lo studioso francese, “dovrebbero disporre di una cultura religiosa che non hanno e, soprattutto, non sembrano intenzionati ad acquisire. Non si radicalizzano perché hanno letto male i testi o sono stati manipolati: sono radicali perché vogliono esserlo, perché è solo la radicalità ad attrarli…Non è l’Isis che è andato a cercare i giovani di Molenbeek o di Strasburgo, sono loro che sono andati all’Isis”. La radicalizzazione precede il reclutamento, ed essa avviene in genere al di fuori dell’ambiente sociale circostante. Non è il “Paradiso di Allah” ad esercitare su di loro una fascinazione che li porta ad ambire a chiudere la loro vita da “shahid” (martiri). Ad affascinarli è l’idea della “bella morte”. Qui, e viene in soccorso ancora Roy, “sta il paradosso: questi giovani radicali non sono utopisti, sono nichilisti in quanto millenaristi. Il domani non sarà mai all’altezza del crepuscolo. Si tratta della generazione no future“. Il loro avvicinamento alla Jihad globale non si fonda tanto sulla condivisione dei precetti più estremi dell’Islam radicale, quanto sulla convinzione che il riscatto dei diseredati, se un tempo passava attraverso il terzomondismo “modello Che” oggi s’incarna nella sollevazione contro l’Occidente colonizzatore operata dai seguaci di al-Baghdadi.

Sociologia più che religione. Volontà sovversiva globalizzata. La Jihad come tratto identitario unificante. Molti di loro non hanno alle spalle storie di disperazione sociale, di nuclei famigliari distrutti, la loro conversione all’Islam è un processo di identificazione con una causa per la quale vale la pena combattere e sacrificare la propria vita. Alcuni cercano di fuggire dall’emarginazione, hanno conosciuto il carcere per piccoli furti o spaccio, ma altri, la maggioranza, è alla ricerca di una realizzazione personale. Quella che prende forma è una identità transnazionale messa al servizio della comunità in pericolo. “Lungi dal ridursi ai capricci di una barbara idiosincrasia culturale – annota Pierre-Jean Luizard nel suo libro “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” – il discorso dello Stato islamico è portatore di una potente dimensione universalista che seduce oltre le frontiere della sua base sunnita mediorientale.

Quando si rilegge ‘Lo Scontro di civiltà‘ di Samuel Huntington, si viene colpiti dal gioco di specchi che si instaura con le concezioni del salafismo jihadista. Lo Stato islamico riprende a volte parola per parola la tesi di Huntington al fine di inscenare questo ‘scontro di civiltà’. Non si tratta di un conflitto tra due culture, tra Oriente e Occidente – prosegue Luizard , storico e direttore di ricerca al Cnrs – tra arabismo e mondo euro-atlantico, ma uno scontro tra titani, tra Islam e miscredenza. E, nell’Islam, ognuno è benvenuto, anche gli europei biondi con gli occhi azzurri di origine cattolica, come, d’altro canto, la miscredenza include anche arabi e cattivi musulmani… Questa universalità (dell’Isis, ndr) che trascende ogni limitato particolarismo e questo radicamento nella costruzione di una ‘utopia’ concreta sul campo incontra una eco importante tra giovani che vivono in Occidente…”. L’integrismo islamista cancella l’idea di Stato-nazione, la considera il frutto avvelenato del colonialismo crociato, ne attenta l’esistenza, in nome della “umma”, la comunità dei musulmani che non ha confini, di certo non quelli tratteggiati agli inizi del secolo scorso dalle potenze coloniali francese e britannica con gli accordi di Sykes-Picot, e non conosce singole identità nazionali.

L’Occidente sta favorendo non solo l’islamizzazione delle radicalità ma il radicamento di questa suggestione ben al di là dei miliziani della Jihad globale. La nuova leva di foreign fighters risulta più difficile da individuare perché l’avvicinamento alla Jihad globale non avviene attraverso la frequentazione delle moschee radicali nel Vecchio Continente, poste sotto controllo dai servizi di sicurezza occidentali. La frequentazione di ragazzi di origini arabe avviene nelle palestre, le prime manifestazioni a cui si partecipa hanno origine dalla rabbia sociale piuttosto che in solidarietà verso i “fratelli mujaheddin” iracheni, siriani, palestinesi. I “radicalizzati” usano il web per le lezioni coraniche e dal web traggono i contenuti motivatori di un nuovo terzomondismo che vede proprio nel jihadismo militante l’opportunità di combattere le ingiustizie perpetrate dall’Occidente. E al web affidano la propria determinazione distruttiva: “Uccidere gli infedeli, e lasciare solo i musulmani che seguono la religione”, era il messaggio lasciato sui social due anni fa da Mousa Oukabir, il diciassettenne ricercato quale presunto conducente del furgone della strage di Barcellona.

Al di là del dato quantitativo, quello che colpisce è la potenza della Rete, dei social network, dei siti legati alla galassia dell’estremismo islamico, per mezzo dei quali sia l’Isis che al-Qaeda riescono a fare opera di proselitismo, a raggiungere, indottrinare e addestrare centinaia di migliaia di giovani”, rimarca una fonte d’intelligence da anni impegnata nel contrasto al jihadismo armato. “Emerge con sempre maggiore evidenza – aggiunge la fonte – l’importanza che sia lo Stato islamico che la nuova al-Qaeda danno alla “mediatizzazione” del loro agire. I filmati che postano sono sempre più sofisticati ed è chiaro che a confezionarli sono dei professionisti. Si tratta di un reclutamento mirato, ancora più importante dell’addestramento militare”.

Le parole chiave della nuova strategia jihadista 2.0 sono viralità e coinvolgimento: snodi centrali di una propaganda orientata sui social media. La decapitazione dei due reporter di guerra Foley e Sotloff, a suo tempo, non ha soltanto riempito le prime pagine dei principali quotidiani online, ma ha anche generato una escalation virale su piattaforme come Twitter e Youtube. Su quest’ultimo social sono stati pubblicati circa 175mila video riguardanti la decapitazione di James Foley: tra questi soltanto i tre più popolari hanno generato circa sette milioni di visualizzazioni. È quanto era emerso da una ricerca realizzata da “IlSocialPolitico.it”, magazine che indaga sulle attività 2.0 di politica, istituzioni, “influencer” e fenomeni sociali. “Per i gruppi jihadisti la guerra di propaganda è dunque altrettanto decisiva di quella in armi sul campo di battaglia. Il cyber-jihad permette di far conoscere la propria visione del mondo, di intimorire e minacciare il Nemico, di reclutare…”, rimarca Renzo Guolo nel suo libro “L’Ultima utopia. Gli jihadisti europei“.

È il nichilismo che si fa Jihad. Sono i “banlieusards” che arrivano al terrorismo attraverso un percorso fatto di segregazione spaziale, segregazione sociale, disperazione, rivolta, fuga. E, alla fine” immolazione. “I giovani jihadisti di banlieu – rileva in proposito Guolo – hanno percorsi simili. Vengono da famiglie numerose, spesso caratterizzate dalla dissoluzione dei legami genitoriali e da un tenore di vita sotto le soglie di povertà; hanno alle spalle un percorso segnato dall’insuccesso scolastico, dalla vita di strada, dalla deviazione e dal carcere. Questo grumo di insoddisfazione e rabbia culmina nell’intenzione di vendicarsi di una società percepita come ingiusta, alla quale vengono imputati i propri fallimenti”.

Emarginazione e non solo. Rileva Nabil El Fattah, già direttore del Centro di Studi strategici di Al- Ahram del Cairo, tra i più autorevoli studiosi arabi dell’Islam radicale armato: “Basta studiare le biografie di alcuni dei foreign fighters europei morti in Siria o in Iraq o anche di alcuni degli attentatori di Parigi o di Bruxelles: non siamo di fronte a dei disperati che devono vendicarsi della fame patita, ma abbiamo a che fare con individui che trovano nella suggestione politico-terroristica del Califfato un ancoraggio identitario, una ragione di vita e di morte. Per contrastare questa deriva, non è solo questione di intelligence, di sicurezza, di militarizzazione delle città, né bombardare a tappeto Raqqa o Mosul. Quella che va condotta è anche una battaglia culturale”, avverte lo studioso egiziano. E sulla stessa lunghezza d’onda si muove Loretta Napoleoni quando, a conclusione del suo libro: “Isis. Lo Stato del terrore“, annota: “Esiste una terza opzione tra il fallimento della Primavera araba e i successi dello Stato islamico? Sì, esiste, e riguarda l’istruzione, la conoscenza e la comprensione dell’ambiente politico in evoluzione in cui viviamo, gli stessi strumenti usati in passato per dar vita con successo al mutamento politico non in maniera cruenta ma con il consenso, cosa che tanto i giovani combattenti degli smartphone quanto i colletti bianchi della politica continuano a non capire”. E se questa incapacità-non volontà di comprendere permarrà, una cosa è certa: l’Isis sarà probabilmente sconfitta in Siria e Iraq ma il “nichilismo che si fa Jihad” troverà altre forme e altre sigle per manifestarsi. E colpire. Barcellona docet.

(fonte)