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È il tempo in cui si trivellano le isole Tremiti

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La bellezza è il nuovo brand. Forse perché l’antimafia ormai è caduta in disgrazia per merito di antimafiosi più mafiosi dei mafiosi stessi ma oggi parlare di “bellezza”, “difesa della bellezza” o “cultura della bellezza” è il nuovo trend per rivitalizzare la politica. Si sprecano così le citazioni su Peppino Impastato (che si spaccherebbe la testa a vedere da chi viene menzionato) oppure qualsiasi altro nome che si avvicini al culto del bello quasi sacro. Non è un caso che durante Expo la mercificazione della bellezza (presunta, idolatrata, preconfezionata) abbia superato la proposta di contenuti. Oggi il bello è etico, moderno e soprattutto facile da capire e far capire.

E mentre di bellezza si parla dappertutto diventa esecutiva l’autorizzazione per trivellare le isole Tremiti:

Il 22 dicembre il ministero dello Sviluppo economico ha firmato il decreto di conferimento della concessione alla Petrolceltic Italia srl, che fa capo all’irlandese Petroceltic International, specializzata nell’esplorazione, estrazione e trasporto nel settore oil & gas. Dai documenti che Repubblica ha ricevuto in anteprima, l’area interessata ha un’ampiezza di circa 373 chilometri quadrati ed è stata concessa alla multinazionale per quattro anni a 1.900 euro l’anno (5,16 euro per chilometro quadrato).

(In foto l’opera di Elisa Ferrari “L‘inutile bellezza dell’arte“)

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

La bellezza secondo Peppino Impastato

Un pezzo da antologia del compagno di Peppino, Salvo Vitale:

L’altra sera Al festival di Sanremo, Luca Zingaretti ha ricordato Peppino Impastato ed ha citato una frase che si continua ad attribuire a Peppino ma che lui non ha mai detto. Già due imprenditori ne hanno fatto uno spot pubblicitario per sponsorizzare la vendita di una marca d’occhiali, arrangiando e rielaborando la frase. La commercializzazione del nome di Peppino ha fatto scattare una raccolta di firme, per il ritiro dello spot, che è già arrivata a 65.000 adesioni, al punto che, gli autori, hanno deciso di ritirare la trovata pubblicitaria. In tal senso uno di loro sarà a Cinisi il 7 marzo, nel corso di un’iniziativa per fare il punto sull’antimafia sociale oggi e su quanto è commercializzabile al fine di creare un’economia diversa da quella mafiosa. Zingaretti ha usato la versione “commercializzata” e non quella originale.

E’ il caso di rileggere interamente il dialogo che Peppino e Salvo (cioè io), dall’alto di Monte Pecoraro, fanno, guardando l’aeroporto di Punta Raisi, dopo la costruzione della terza pista:

PEPPINO: Sai cosa penso?
SALVO : Cosa?
PEPPINO: Che questa pista in fondo non è brutta. Anzi
SALVO [ride]: Ma che dici?!
PEPPINO: Vista così, dall’alto … [guardandosi intorno sale qua e potrebbe anche pensare che la natura vince sempre … che è ancora più forte dell’uomo. Invece non è così. .. in fondo le cose, anche le peggiori, una volta fatte … poi trovano una logica, una giustificazione per il solo fatto di esistere! Fanno ‘ste case schifose, con le finestre di alluminio, i balconcini … mI segui?
SALVO: Ti sto seguendo
PEPPINO:… Senza intonaco, i muri di mattoni vivi … la gente ci va ad abitare, ci mette le tendine, i gerani, la biancheria appesa, la televisione … e dopo un po’ tutto fa parte del paesaggio, c’è, esiste … nessuno si ricorda più di com’era prima. Non ci vuole niente a distruggerla la bellezza …
SALVO: E allora?
PEPPINO: E allora forse più che la politica, la lotta di classe, la coscienza e tutte ‘ste fesserie … bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza. Insegnargli a riconoscerla. A difenderla. Capisci?
SALVO: ( perplesso) La bellezza…
PEPPINO: Sì, la bellezza. È importante la bellezza. Da quella scende giù tutto il resto.
SALVO: Oh, ti sei innamorato anche tu, come tuo fratello?
A conclusione del dialogo:
PEPPINO: Io la invidio questa normalità. Io non ci riuscirei ad essere così…

Andiamo invece a leggere lo slogan elaborato da due imprenditori, per pubblicizzare la propria marca d’occhiali:

“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”. Lo slogan si chiude con la postilla: da un’esortazione alla bellezza di Peppino Impastato.

La frase è ben costruita, recitata in modo aggressivo, all’interno di un video con immagini efficaci sul degrado causato dalla civiltà del cemento. La “furbata”, o, se si preferisce, il colpo d’ala, sta tutto in quel “da”, che giustifica la rielaborazione di quanto presente ne “I cento passi” e il suo libero riutilizzo. Va puntualizzato che, quella del film non è una “esortazione alla bellezza ” e non è, una poesia. Ma non è nemmeno una frase di Peppino Impastato o a lui attribuibile. Posso tranquillamente dichiarare di non avere mai avuto con Peppino alcun discorso di questo tipo. Si tratta di considerazioni che gli autori della sceneggiatura del film, cioè Marco Tullio Giordana, Claudio Fava e Monica Zapelli, mettono in bocca a Peppino e a Salvo nel contesto di un discorso che, nel film, ritorna anche nella scena famosa dei cento passi:

“Cento passi ci vogliono da casa nostra, cento passi. Vivi nella stessa strada, prendi il caffè nello stesso bar…alla fine ti sembrano come te: salutamu don Tanu, salutamu Giuvanni, salutamu Pippinu…… Io voglio fottermene…..noi ci dobbiamo ribellare, prima che sia troppo tardi, prima di abituarci alle loro facce, prima di non accorgerci più di niente”.

E’ un contesto in cui lotta alla mafia diventa lotta contro l’abitudine, contro l’assuefazione, contro l’omologazione, ovvero contro quella “normalità” in cui Peppino non riesce ad entrare. Nulla a che fare con il deformante messaggio comunicato dallo spot, secondo il quale un occhiale è lo strumento per vedere le cose nella loro giusta dimensione, quella della bellezza: se si tratta di un occhiale da vista esso restituirà la visione, più o meno corretta, della bruttezza realizzata dagli uomini, se di un occhiale da sole, esso offrirà particolari caratteristiche, cromatiche o di prospettiva all’interno della visione: ma anche in tal caso non è detto che la colorazione si configuri come bellezza, anzi, sembra essere un veicolo dell’inganno.

‘Ste fesserie…”

“ E allora forse più che la politica, la lotta di classe, la coscienza e tutte ‘ste fesserie … bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza. Insegnargli a riconoscerla. A difenderla. Capisci?”
In questo passaggio Peppino, anzi, chi parla per lui, pone un problema di fondo, ovvero quello del primato della bellezza sulla politica e sulla lotta di classe. Era questo il suo pensiero? Non credo. Per dei marxisti ortodossi come lo eravamo, lo strumento fondamentale che muove la storia è l’economia con le sue spietate leggi, la struttura, rispetto alla quale le altre cose, a cominciare dalla bellezza, dalla morale, dalle leggi, dalla religione, dalla cultura, sono sovrastrutture, cioè conseguenze, spesso inevitabili, della struttura di fondo. Il conseguimento di una dimensione compiuta dell’uomo è la inevitabile conseguenza di un momento di rottura degli equilibri del sistema, la lotta di classe, la mitica rivoluzione. Dopo, all’interno di una palingenesi dell’umanità, di una nuova fase senza disuguaglianze, all’interno di una società “in comune”, cioè comunista, si potranno leggere sullo sfondo dimensioni di bellezza e di serenità. Anticipare la fruizione della bellezza all’interno di un sistema brutale, come quello capitalistico, significa avallare strategie e strumenti che tendono a giustificarlo, a legittimarlo, a salvarlo. Non si tratta, quindi, di “fesserie”.

Quindi non c’è la volontà di far veicolare, in qualsiasi modo, il messaggio sulla bellezza, ma di usare il nome di Peppino in modo distorto e surrettizio, per attribuirgli una cosa che non ha mai detto e sulla quale pensiamo avrebbe avanzato seri dubbi. Ben più grave l’atto di una panineria austriaca che, alcuni mesi fa, ha messo in commercio una serie di panini dedicati a mafiosi o a vittime della mafia: nel panino “Don Peppino” si leggeva: “Siciliano dalla bocca larga fu cotto in una bomba come un pollo nel barbecue”. Per il resto non è il caso di gridare allo scandalo: oggi la commercializzazione di una frase, dell’immagine di un uomo illustre, del luogo in cui è vissuto, di qualcosa che gli è appartenuto, è una delle tante aberrazioni di una civiltà che, pur di venderti qualcosa, pur di conquistare un mercato, pur di stupire, è capace di truccare qualsiasi realtà per riproporla nel modo più suadente possibile, sino all’iperbole. E del resto, a voler sottilizzare, diventerebbero elementi di commercializzazione anche il film “I cento passi”, anche il vino con lo stesso nome, messo in vendita dalla cooperativa “Placido Rizzotto” di Corleone, che ha dato il nome di questo sindacalista a un altro vino, addirittura anche i miei libri su Peppino. Il muro divisorio potrebbe essere soltanto nel voler fare antimafia, ove ci sia questa intenzione, o nel voler far solo soldi.

Un’esigenza culturale

Mi ha molto colpito l’articolo di Maria Teresa Santaguida sul patrimonio culturale italiano e sulle condizioni di una reale valorizzazione che passi attraverso un’evoluzione dei cittadini oltre che delle amministrazioni. Dice la Santaguida che deve nascere “un’esigenza culturale” e proprio su questa definizione rimane a nudo questa Italia che non legge, non osserva e non gode di arte e cultura. Siamo esigenti nel lavoro, con i figli, con i colleghi con i propri compagni e abbiamo abdicato invece alla bellezza:

Alcuni dati sulla comparazione dei flussi turistici fra Italia e altri paesi del mondo dimostrano che il nostro paese, riconosciuto come grande contenitore di valore artistico e culturale a livello mondiale, non riesce tuttavia a produrre risultati economici soddisfacenti. Secondo gli studi presentati alla conferenza sul tema tenuta da Banca d’Italia nel 2012 i flussi turistici Italiani nel decennio 2000-2010 si sono ridotti dal 9 al 4% (incidenza del turismo internazionale in Italia), quelli degli USA sono rimasti al 9%, e persino paesi colpiti dalla crisi come la Spagna dimostrano risultati migliori. Tra il 2000-2010 la quota di mercato dell’Italia sugli introiti turistici mondiali è scesa dal 5,8 al 4%, con una riduzione di quasi il 30 per cento. Questioni politiche e sociali che coinvolgono il sistema Paese sono probabilmente alla radice di questa mancata messa a valore, tanto che le aree a maggiore specializzazione turistica, ma con maggiori problemi, cioè quelle del Sud, subiscono gli arretramenti più ampi. Ma si deve andare oltre: consapevolezza e cittadinanza attiva La tutela e gli investimenti non bastano, però. Bisogna creare un’esigenza personale e sociale. La creazione di questa esigenza è, ad esempio, fra gli strumenti individuati alla conferenza di Montreal: perché il Paesaggio Culturale sia tutelato e valorizzato le autorità hanno l’obbligo di stimolare ed incentivare la consapevolezza dei cittadini e la loro azione e partecipazione diretta. I cittadini dovranno essere propulsori di questo stimolo e recettori finali, fruitori e trasmettitori contribuendo all’amministrazione partecipata del patrimonio. Ecco il senso dell’interazione effettiva fra patrimonio, paesaggio e biodiversità. Interazione che incontra intimamente i diritti fondamentali dell’uomo sanciti dalla Universal Delcaration of Human Rights, all’articolo 27: “Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici”. Si prenda il caso della ricostruzione del centro storico de L’Aquila dopo il terremoto del 2009: la rimessa in sesto degli edifici storici della città non è solo un’opera di ricostruzione architettonica, ma ha un profondo valore sociale ed umano. Ricostruire l’Aquila ed i paesini del Cratere Aquilano significa ricreare una comunità umana attiva e dinamica. Valorizzazione della biodiversita’ culturale come motore di rilancio Ecco perché la questione del patrimonio culturale come bene comune e della sua gestione si trova dunque al centro di un rivoluzione civile: l’investimento in cultura genera fruitori attivi e non passivi e dunque sviluppo. Da ciò dipende il senso di comunità, della coscienza singola e collettiva e di quella nazionale. Una comunità coesa, benestante e attiva, integrata con il proprio territorio e il proprio paesaggio corrisponde ad una dinamica economica più vincente: le persone saranno in grado di fare scelte consapevoli, di raggiungere standard lavorativi superiori e dunque più produttivi. I risultati di una migliore conservazione, valorizzazione e fruibilità del patrimonio e della biodiversità culturale potrebbero essere sorprendenti, costituendo il vero motore di una generale ripresa, economica e civile. di Maria Teresa Santaguida

Ps in bocca al lupo al nuovo progetto pagina99.it, l’inizio mi sembra promettente.

Per Villa Adriana succede anche che gli studenti scrivano al Ministro

La lettera degli studenti è pubblicata nel mio spazio per Il Fatto Quotidiano e racconta nella sua semplicità quanta passione politica ci sia da non disperdere nei confronti della bellezza e della sua salvaguardia:

Non ci fanno credere nel nostro Paese quei politici che hanno fatto della loro carica solo un mezzo per apparire e non hanno una statura intellettuale all’altezza del paese che dovrebbero curare. Ministro, ci perdoni questi voli pindarici ma non capita tutti i giorni di esprimere le proprie frustrazioni ad un personaggio tanto importante. Le rinnoviamo la nostra preoccupazione e speriamo vivamente che accolga il nostro invito a visitare insieme Tivoli, una volta città d’Arte, oramai città deturpata.

Pensa che regalo se arrivasse un’azione concreta e una risposta. La lettera completa è qui.

Pedoni, pedali e pendolari per una mobilità nuova

mobilita-nuovaProgettare la mobilità significa avere in mente già l’Italia del futuro. Mica quella che ci capita ma quella che vogliamo: la differenza sembra piccola ma è sostanziale. Per questo il manifesto di #mobilitànuova è sostanzialmente un manifesto politico su un tema che dal Parlamento viene troppo spesso comodamente relegato alle Regioni che a loro volta con una certa inedia scaricano agli amministratori locali che (guarda il caso) hanno pochissimo margine di manovra. E alla fine succede che sia “normale” associare il pendolare ai disservizi, il ciclista al rischio su strada e il pedone ad un infiltrato indesiderato in una mobilità in cui non ha un suo posto. E per questo aderisco e rilancio:

L’Italia ha ipotecato il futuro delle opere pubbliche e della mobilità approvando progetti per nuove autostrade e nuove linee ad alta velocità ferroviaria che costeranno complessivamente oltre 130 miliardi di euro, offriranno ulteriori occasioni di business alla malapolitica e alla criminalità organizzata, sottrarranno al Paese territorio e bellezza spesso senza offrire un servizio migliore alla collettività.

Per soddisfare la domanda di mobilità del 2,8% delle persone e delle merci (è questa la quota di spostamenti quotidiani superiori ai 50 chilometri) si impegna il 75% dei fondi pubblici destinati alle infrastrutture del settore, mentre all’insieme degli interventi per le aree urbane e per il pendolarismo (dove si muove il 97,2% della popolazione) lo Stato destina solo il 25% delle risorse, puntando spesso e ancora una volta su nuove strade, tangenziali e circonvallazioni piuttosto che sul trasporto collettivo o su quello non motorizzato.

C’è un’urgente necessità di riorientare le risorse pubbliche concentrando la spesa laddove si concentra la domanda di mobilità e nello stesso tempo va avviato un radicale ripensamento del settore dei trasporti, sostenendo attraverso scelte strategiche le persone che quotidianamente si muovono usando i treni locali, i bus, i tram e le metropolitane, la bici e le proprie gambe e dando l’opportunità a chi usa l’automobile di scegliere un’alternativa più efficiente, più sicura, più economica.

La #MobilitàNuova si propone di avviare una trasformazione e una rigenerazione della società che va molto al di là della semplice trasformazione degli stili di mobilità individuale e punta a un deciso ridimensionamento del binomio auto+altavelocità. Una scelta, quest’ultima, egoista, dispendiosa, vecchia e inefficiente, che produce inquinamento, incidentalità stradale, danni sanitari, congestione, consumo di suolo e sprawling, aggressione al patrimonio storico, artistico e paesaggistico, iniquità sociale, alienazione e inaridimento delle relazioni sociali.

Al contrario una #MobilitàNuova che ruota attorno a quattro perni – l’uso delle gambe; l’uso delle bici; l’uso del trasporto pubblico locale e della rete ferroviaria; l’uso occasionale dell’auto privata (sostituita in tutti i casi in cui è possibile da car sharing, car pooling, taxi) – modifica lo spazio pubblico e la sua destinazione d’uso, rafforza i legami comunitari tra le persone e tra le persone e il luogo dove vivono, studiano e lavorano, stimola un’economia agroalimentare basata sul km0, crea lavoro stabile, contribuisce a far crescere la percezione di sicurezza attraverso strade e piazze più vissute e frequentate. In altre parole rende le città e il territorio più bello e migliora la qualità della vita.

E’ per questo che ti chiediamo di entrare nella Rete per la #MobilitàNuova, illustrando come questa nuova mobilità può incidere positivamente sui temi che ti stanno a cuore e indicando le tue priorità programmatiche sul tema da indirizzare ai decisori politici.

Insieme daremo vita a questa campagna collettiva e individuale, orizzontale e partecipata, che si articola in due momenti diversi.

Sabato 4 maggio a Milano manifestiamo per imporre ai decisori politici una rivoluzione della mobilità che parta proprio da un riequilibrio delle scelte politiche e delle risorse pubbliche destinate al settore dei trasporti, dando insieme visibilità e sostegno alle vertenze nazionali e locali contro quelle opere pubbliche stradali, autostradali e ferroviarie inutili e dannose per il Paese.

Mentre a partire dal 4 maggio lanceremo insieme una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare (obiettivo un milione di adesioni) che vincoli almeno i tre quarti delle risorse statali e locali disponibili per il settore trasporti a opere pubbliche che favoriscono lo sviluppo del trasporto collettivo e di quello individuale non motorizzato.

 

La bellezza come senso di appartenenza

Architettura è quel che ci sta intorno. Noi – come tutti quanti – ci passiamo la vita dentro. (Louisa Hutton)

2vv5nhjUn articolo di Antonio Monestiroli su Repubblica che lascia una visione “politica” della bellezza, delle città, dell’urbanistica:

IN QUESTA confusione è necessario che ogni cittadino, prima di pensare di non essere all’altezza di giudicare, si faccia forte della propria esperienza. Affidarsi alla propria esperienza vuole dire giudicare i nuovi edifici allo stesso modo in cui giudichiamo i vecchi e cioè rispetto alla loro utilità e bellezza. L’utilità tutti sanno cosa è, la bellezza meno. Anche se c’è un modo molto semplice di definire la bellezza di un edificio: considerarla l’espressione della finalità dell’edificio stesso, che va oltre la sua utilità immediata, che pure è importante, che riguarda il suo significato culturale. Per capirci meglio pensiamo a un edificio straordinario come il Duomo di Milano, molto amato dai milanesi non solo per il suo aspetto esteriore, ma per il suo magnifico interno. Io credo che sia proprio la forma del suo interno a essere espressiva di un’idea di comunità che già appartienea tuttie che quando viene riconosciuta in un luogo dà un senso di pace e di benessere. Tutti gli edifici ben costruiti provocano in noi un’emozione: nei grattacieli è l’orgoglio della costruzione a provocarla, nella casa è il senso di appartenenza a un luogo. Ma perché questi nuovi e ingombranti edifici costruiti a Milano non provocano alcuna emozione? Il perché va cercato nelle premesse alla loro costruzione: la loro finalità non è quella di essere espressivi di alcunché ma quella di essere attraenti, qualità questa che per l’architettura è nefasta. Oggi i cittadini pagano il prezzo di una scarsa competenza dei progettisti che hanno lavorato a Milano, di una certa assenza dell’ amministrazione pubblica negli anni passatie di una ingiustificata libertà d’azione degli imprenditori, che hanno dimostrato di non avere alcuna attenzione per la città in cui hanno operato.

(Grazie a Daniele per la segnalazione)

OSTINATAmente sMODERATI: regole per l’uso

Schermata 2013-01-06 alle 12.33.08Abbiamo scelto la frase che ci rappresenta: OSTINATAmente sMODERATO.

Perché c’è dentro l’ostinazione con cui abbiamo lavorato in questi due anni e mezzo per tenere alto l’argine dell’opportunità nel fare politica in Lombardia dalle nomine al lavoro, dall’antimafia alla sanità, dall’ambiente alla cultura presidiando quotidianamente l’attività consiliare e in commissione.

C’è la parola mente che non è solo un organo svilito da alcune compagnie dell’ultimo Consiglio Regionale lombardo ma è un tenere a mente che l’impegno è bellezza se portato avanti con memoria della responsabilità e con la disciplina e con l’onore richiesti dall’articolo 54 della nostra Costituzione.

C’è la smoderatezza che sta nel sapere esattamente da che parte stare con coraggio, nella nostra idea di sinistra e nel volere uscire da questa rincorsa al centro che non ci piace, non ci assomiglia e ci puzza di banalizzazione per trovare posto. Vogliamo una Lombardia smodata perché innovativa e in discontinuità, davvero.

Nonostante in queste ultime settimane mi sia letto sui quotidiani in una decina di liste diverse per il Parlamento continuiamo il nostro lavoro in Regione Lombardia. Credo che ci sia la possibilità di costruire un’alternativa politica e di modi lontana dai danni del formigonismo di questo ultimo ventennio e credo che la coalizione di centrosinistra (SEL, PD, IDV, lista Di Stefano e gli altri) abbia una grande possibilità per disegnare scenari migliori e futuri anche su scala nazionale. E mi candido perché questi due anni “dentro” la Regione ci hanno fatto capire che ci sono gli strumenti amministrativi per declinare le nostre idee oltre alla  mera propaganda: tutte le declinazioni sono nelle nostre mozioni, negli ordini del giorno e nelle nostre proposte di legge che l’asse Formigoni-Lega ha lasciato nel cassetto senza discussione.

In molti mi stanno chiedendo (e vi ringrazio tutti) come poterci dare una mano, le regole sono poche e semplici:

– mi candido come consigliere regionale a Milano e provincia. Chiunque abiti qui può essere un nostro volontario nelle iniziative che metteremo in campo.

– chi non abita qui può essere un nostro volontario sul web e comunque avere un ruolo attivo nella nostra officina delle idee.

Nei prossimi giorni racconteremo l’organizzazione e il resto. Chi vuole darci una mano può segnalare la propria disponibilità semplicemente scrivendomi a giulio@giuliocavalli.net

Io non voglio morire d’intenti

Schermata 2013-01-01 alle 16.53.17Non ho mai ben capito se gli intenti vadano scritti la sera dell’ultima sera dell’ultimo giorno dell’anno o la mattina del primo dell’anno successivo. Confesso che non sono mai stato bravo con i bilanci e i consuntivi: mi immalinconiscono come le anziane nel letto d’ospedale che non ricevono mai visite e fingono di farsi compagnia con i parenti degli altri, promettendosi che gli basti così. Peggio ancora con gli esami di coscienza: ho un incalcolabile difficoltà con i sensi di colpa che mi rende clinicamente ossessivo e compulsivo verso le mie mancanze.

Potrei anche sognare intanto un anno che mi liberi le spalle da blindature e scorte. Non ci avevo mai pensato in questi ultimi anni, era un desiderio nella cesta dei desideri indesiderabili e invece mi si è acceso giusto giusto ieri notte mentre i botti diventavano un soffio rauco di polvere da sparo incollacciata sul marciapiede. E’ stato un desiderio che mi ha sorpreso: un ardimento spericolato dove ho pensato a me stesso con la cura che non pensavo di riuscire più ad usare. Perché se c’è un alone che mi ha unto in questi ultimi anni è proprio questa sensazione di eterna solitudine sorvegliata a vista che mi fa sentire di troppo in un mare di troppo poco e che non sono mai riuscito a spiegare. Rileggo il pezzo di Marco di due anni fa e mi sembra che ci sia la stessa musica di sottofondo. Non so se mi spiego: anni come un recinto che disegna i cerchi del mio tronco con le cicatrici al posto delle linee della crescita. Una cosa così. Pensavo che la mia vita fosse in una parentesi di controffensiva difensiva e invece è l’imboccatura di una strada di cui non se ne vede l’orizzonte. Niente panico o letteratissimi tormenti, per carità, ma una noia usurante che ha l’abitudine come unica lenizione possibile.

C’è il lavoro: il mio lavoro con la parola e la scena. In un anno di ricerca di nettare e nido tornare in scena con Duomo d’onore è stato un dito che ha toccato corde che temevamo non suonassero più. Ho bisogno di stare sul palcoscenico per parlare con me. Semplicemente. E non dovere rendere conto a nient’altro che i fatti e la bellezza: due compagni che litigano spesso. Ho ritrovato la mia quotidianità nel freddo e il disordine dei camerini, nei “due minuti” dati prima di cominciare bussando piano alla porta, nei vestiti di scena stropicciati come le donne bellissime con le loro rughe, negli amici che ti danno il cenno che è andata bene e nelle cene mangiate troppo tardi con la fame che corre contro il sonno. Se dovessi augurare un lavoro ai miei figli gli augurerei la fortuna di lavorare con la soddisfazione che va a dormire dopo di te, come capita a me. C’è la scrittura: questo 2012 è stato un anno di scrittura a singhiozzo tra la quotidianità delle cose quotidiane che lasciano sabbia nei reni e negli ingranaggi della penna. Mi ero promesso un romanzo per provare a volare e mi hanno lasciato a terra le informative, le sentenze e le scelte: questo mio nuovo anno ha quel romanzo da recuperare tra i bagagli smarriti.

C’è la politica: che è cambiata come un figlio che si fa grande nel tempo del tuo ultimo viaggio e lo ritrovi con la sensazione di avere perso proprio quel minuto in cui ti chiedeva di essere un padre presente. Ho amici sparsi in questa confusa tela di colori diffusi eppure distanti mentre l’occasione ci chiede di essere preparati alla raccolta. Qualcuno mi chiede perché non abbia partecipato alle primarie per il parlamento, qualcuno ancora insiste nel rinfacciarmi un “ritiro” per la presidenza lombarda, qualcuno mi chiede di Luigi De Magistris e gli arancioni (dimenticando Leoluca Orlando e quel pezzo di IDV che ci sta dentro e ci ha sempre voluto fuori), qualcuno mi dice che dovrei seguire Pippo Civati e gli altri (come se fosse un trenino dopo pranzo quando si è tutti un po’ brilli intorno ai tavoli con la cravatta slacciata) e qualcuno dice che Cavalli ha un assessorato promesso da Ambrosoli: continuiamo il nostro lavoro in Lombardia, semplicemente, con la serietà dei progetti iniziati e degli impegni presi con un Formigoni in meno. Non sembra difficile capire che la politica diffusa non è confusione nello spazio ma allargamento di persone e di idee. Fare rete piuttosto che preoccuparsi di stare in un buon posto nella rete.

Poi c’è la vita: e quest’anno la vita mi ha aperto stanze meravigliose e fresche, mi ha sbattuto in faccia porte che mi hanno fatto male e insegnato l’impegno e l’etica degli affetti. Vorrei imparare ad essere coraggioso senza bisogno di baldanza, vorrei fare pace con i dolori che non ho mai voluto guardare negli occhi, vorrei essere capace di sorridere di avere un fratello trentaquattro anni dopo che lo siamo stati prima di non saperlo fino ad oggi, vorrei togliermi l’alibi della solitudine per nascondere la cura che non mi voglio prendere, vorrei trovare le parole per spiegare ai miei figli che le scelte sono i mattoni necessari per i muri portanti della dignità, vorrei ascoltare chi ho deluso, ascoltarli per ore senza avere la debolezza di interromperli per giustificarmi, vorrei convincere più gente possibile che restare umani paga, e vorrei convincermene anch’io, vorrei avere l’intelligenza di perdonare con durezza e difendermi senza la macchia della vendetta, vorrei riconoscermi e farmi riconoscere in quello che faccio, quello che dico e quello che scrivo senza lasciare spifferi per dietrologie e isterismi.

Vorrei anche avere usato il “voglio” e non il condizionale ma non voglio tornare indietro a correggere le ultime righe. Le tengo così, come un impegno più che non un intento. Per non morire d’intenti. Con intenzioni serie.

Che sia un buon 2013.

 

 

Rivoluzione della Bellezza

Vorrei che ciascuno trovasse il proprio senso della bellezza. Che lo conoscesse, lo coltivasse, lo espandesse, se ne fidasse. Siamo tutti diversi l’uno dall’altro e l’arte deve gioire, e gioisce, delle differenze, e maggiori sono le differenze meglio è. Perché ci uniscono di più.

Leggevo la conversazione tra Aimee Bender e Alice Sebold e per oggi ho deciso di tenermi questa frase di Aimee perché dentro c’è il rifiuto all’omologazione che si respira di questi tempi in politica e allo stesso tempo il nocciolo del nostro fare cultura, politica e cultura politica quando ci riusciamo.

Perché il giorno che verrà riconosciuto il diritto al proprio senso di bellezza e il dovere a coltivarlo e fidarsene scopriremo quanto sia un sospiro di sollievo per l’elaborazione del pensiero (e quindi dell’etica) in tutti i campi.