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beni confiscati

Per essere antipatici: una precisazione sugli spot antimafia di oggi

Come al solito senza peli sulla lingua Giovanna Maggiani Chelli, Presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, puntualizza qualcosa che conviene tenere a mente anche ai fidati consiglieri di Renzi che l’hanno convinto a pronunciare almeno la parola “mafia”:

Non abbiamo mai creduto agli spot antimafia sui beni confiscati a “cosa nostra“, perché poi abbiamo ben visto come è andata a finire, quando ci siamo presentati dopo una causa civile contro Salvatore Riina e Giuseppe Graviano, abbiamo trovato il Fondo 512 legge del 1999 per le vittime di mafia vuoto e ci sono voluti anni e abbiamo dovuto andare con gli striscioni di contestazione in via dei Georgofili, per sistemare la questione risarcitoria della nostra causa datata in via risolutiva ottobre 2007.
Peraltro oggi la situazione del Fondo 512/1999 legge apprezzata a livello mondiale, quale contrasto alle organizzazioni mafiose, non è poi così rosea come dovrebbe, perché ancora fatichiamo a far rientrare quelle insignificanti cifre che comunque spettano alle nostre vittime;
e inoltre il Fondo 512 è stato inglobato con altri fondi lacunosi che frenano irrimediabilmente i risarcimenti alle vittime di mafia che portano i criminali mafiosi prima in causa penale e poi in causa civile.
Quindi è con grande apprensione che ascoltiamo frasi ormai si può dire intrise di retorica per i beni confiscati alla mafia.
Temiamo ancora una volta la solita demagogia, il solito trionfalismo e soprattutto la solita ricerca affannosa attraverso spot e icone di confisca dei beni alla mafia per alimentare carriere politiche. Per non parlare poi di una voglia spasmodica che da anni sentiamo, quella di mettere le mani sui soldi che la mafia ha guadagnato illecitamente, non per fini di ritorno alle vittime di mafia, e ai territori depredati dalla mafia, bensì a chi dell’antimafia ha fatto un mestiere.

Una riflessione sui beni confiscati

Tra la retorica e antipatici monopoli l’economista Antonio Purpura, Direttore del Dipartimento di Scienze Economiche Aziendali e Statistiche dell’Università di Palermo, propone una strada sulla reimmissione nel mercato di aziende condizionate dall’illegalità. Il tema è molto delicato perché sta in bilico tra simbolismo (il valore dello Stato che riesce a garantire il lavoro facendo rispettare le leggi e dall’altra parte i lavoratori) e bisogni di bilancio (per evitare l’assistenzialismo puro o, peggio, la chiusura in breve tempo). Proprio perché l’argomento è delicato e sottile dovremmo parlarne senza remore, senza la paura ogni volta di innescare barricate:

E’ proprio sui dati territoriali e settoriali che Purpura si è soffermato. Dati che mostrano che il maggior numero totale delle aziende confiscate è concentrato in Sicilia (623) e in  (347), ma c’è una presenza significativa pure in  (223). Mentre, però, nelle regioni meridionali la percentuale che pesa di più è rappresentata dalle imprese ancora in gestione (86,45% in Sicilia e 72,6% in ), in Lombardia, invece, è quella delle società ritornate ad operare nel mercato in piena autonomia (54,3%). Risultati che non sorprendono perché «a Milano il contesto è recettivo rispetto ai percorsi di risanamento delle imprese. In Sicilia, invece, è più difficile riportarle sul mercato»- ha osservato Purpura.

Soffermandosi sui dati relativi ai settori di attività, che collocano ai vertici quello delle costruzioni e del commercio (rispettivamente 27,9% e 27,6%), seguiti da alberghi e i ristoranti (10,1%) e dalle attività immobiliari e servizi imprese (8,2%), l’elemento che maggiormente incuriosisce è l’indice di «intensità di attrattività dei settori» costruito «rapportando le aziende confiscate al totale delle aziende per ogni 10.000 imprese registrate»- spiega Purpura. Secondo questo studio, i settori più appetibili dalle organizzazioni criminali sono l’industria dell’estrazione dei minerali, la sanità, le costruzioni, gli alberghi e i ristoranti. Ancora più interessante è l’indice sintetico di concentrazione settoriale (ISCS) delle aziende mafiose per settori e province, ottenuto dal rapporto tra il numero delle imprese confiscate in un settore sul totale delle imprese confiscate nella provincia. E’ lo stesso Purpura a fornire la chiave di lettura di questo indice: «Quando è uguale a 1 ci dice che la percentuale di imprese mafiose confiscate in quel settore è in linea con la presenza del settore in quel territorio». Se, invece, il valore è superiore a 1 «vuol dire che le aziende confiscate rappresentano una quota percentualmente molto più grande di quanto non sia presente quel settore in quel dato territorio». In base a tali dati, il settore agricolo è uno dei più puliti (nelle diverse province prese in considerazione, da Nord a Sud, ha valori compresi tra 0 e 1), mentre quelli che presentano un ISCS allarmante sono il comparto estrattivo nelle province meridionali (Agrigento 56,6%, Cesena 47,7%), e quello degli alberghi e ristoranti al nord (Lecco 11,9%).

Tenuto conto dei dati territoriali e settoriali analizzati e considerato che in alcuni settori, quali quello delle costruzioni ovvero dell’estrazione di minerali, c’è un avviamento illegale fortissimo e uno legale basso, se non addirittura nullo, Purpura si chiede se conviene mantenere queste imprese sul mercato dato che «la ricostruzione del tangibile di quella impresa a valore legale è un’operazione costosissima, difficilissima e fortemente reversibile». Allora sarebbe meglio concentrare gli sforzi su quelle aziende che hanno un valore di avviamento illegale alto, ma al contempo un valore sempre di avviamento legale medio-alto che le rende più facilmente recuperabili (è il caso del settore della sanità piuttosto che della filiera del turismo). Per quelle che potremmo definire irredimibili, invece, la strada individuata da Purpura ipotizza l’uso le risorse provenienti «dalla vendita comunque obbligata in liquidazione» per la riqualificazione del personale.

(Per farsi un’idea vale la pena leggere il libro“Per il nostro bene”)

Don Pino Puglisi ora abita anche a Melzo

Ne scrive Danilo nel suo blog:

2340247-melzo_-La villa con garage ritratta in foto (2 piani + taverna, 140 metri quadri) si trova a Melzo (Milano) in via Aldo Moro, n. 88 e apparteneva a un mafioso.
Già, apparteneva, perchè dal 2 febbraio scorso è al servizio della collettività e del bene comune, essendo divenuta la nuova sede operativa della locale sezione della Croce Bianca onlus (nello stesso comune del milanese è stato confiscato un altro immobile: un appartamento in condominio + box, attualmente in gestione all’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata).

Dopo essere stata confiscata dal Tribunale di Milano – Sezione Autonoma Misure di Prevenzione (decreto del 26 marzo 2002) e – in via definitiva – dalla Corte Suprema di Cassazione (19 novembre 2003), il Comune di Melzo manifestò il proprio interesse a utilizzarla per farne le sedi dell’Ufficio del Piano di Zona e del Servizio Comunale Minori e Famiglie (nota del 4 maggio 2005).
Tuttavia l’Agenzia del Demanio (Direzione Generale, Area Beni e Veicoli Confiscati) decise di mantenere l’immobile al patrimonio dello Stato affinchè fungesse da alloggio di servizio per la Guardia di Finanza (atto di destinazione dell’8 gennaio 2007).
Purtroppo però i finanzieri furono costretti a riconsegnare l’immobile a causa della mancanza dei soldi necessari per ristrutturarlo (nota del 17 agosto 2010).
Allora il Consiglio direttivo dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (istituita dal decreto-legge 4 febbraio 2010, n. 4, convertito dalla legge 31 marzo 2010, n. 50) stabilì all’unanimità di procedere all’assegnazione dell’immobile (delibera del 7 ottobre 2010), revocando il conferimento alla Guardia di Finanza e trasferendo lo stabile al patrimonio del Comune di Melzo, affinchè diventasse ciò che lo stesso aveva già espresso nel 2005 (decreto di destinazione del 14 ottobre 2010).
Negli ultimi giorni di luglio 2013 il Comune ha concesso la villa in comodato d’uso gratuito per (almeno) 30 anni alla locale sezione della Croce Bianca onlus, formata da 166 volontari. Dopo alcuni mesi impiegati per effettuare i lavori di sistemazione (ai primi di settembre sono iniziati gli scavi per creare il parcheggio delle 5 autoambulanze in dotazione), finalmente il 2 febbraio scorso si è svolta la cerimonia di inaugurazione dei locali, dotati di una postazione per ricevere le telefonate, una sala per corsi di formazione e aree per il primo soccorso.
Da quando lo Stato è venuto definitivamente in possesso dell’edificio (novembre 2003) a quando la società ne ha concretamente potuto disporre (febbraio 2014) sono dunque trascorsi poco più di 10 anni.
Decisamente tanti, troppi.
Alla fine, però, dal tremendo puzzo dell’illegalità è riuscito a sbocciare il dolce profumo della legalità.

Sposati con il boss (nel suo castello che dovrebbe essere confiscato)

Me ne avevano parlato giusto qualche giorno fa e se n’è parlato in Commissione Antimafia. Con risultati non soddisfacenti, direi:

castello-miasinoIl castello «Galasso» a Miasino e la torretta sequestrata a un esponente mafioso a Borgomanero sono stati al centro di una seduta della commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie. A chiedere come mai i due beni, confiscati dallo Stato, non siano in realtà nelle mani pubbliche è stato il parlamentare milanese del Pd Franco Mirabelli, che a dicembre era stato a Borgomanero e a Miasino per verificare la situazione.

Prima ancora l’associazione Libera aveva organizzato iniziative volte a denunciare la questione. La discussione è partita dal castello di Miasino: «Questa struttura – ha detto Mirabelli – era ipotecata, per cui il Comune non ha potuto prenderla in carico, ed è stata assegnata a una società di gestione per farne un centro per cerimonie e rinfreschi. Oggi in questa società sono state rilevate consistenti quote da familiari della persona a cui è stata sequestrata la struttura».

Mirabelli ha chiesto al direttore dell’Agenzia per l’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata, Giuseppe Caruso, come sia possibile che lo Stato di fatto non riesca ad usufruire né del castello né della torretta, appartamento chiuso da almeno 15 anni vicino alla stazione di Borgomanero. «All’edificio – ha risposto Caruso – erano interessati, dieci anni fa, il Comune e il Corpo Forestale. Il bene non è stato destinato all’ente pubblico perché a fronte di un valore stimato di 98 mila euro, c’era l’ipoteca della Banca Nazionale del Lavoro di 152 mila euro. Il Comune non può sopportare un onere del genere. Oggi io chiamerei il direttore di banca e cercheremmo di arrivare a una mediazione al ribasso». 

Il castello di Miasino, 1.700 metri quadri di superficie e 41 mila di parco, era stato fatto costruire dai marchesi Solaroli nel 1867: lo aveva poi comprato Pasquale Galasso, arrestato nel 1992 e diventato collaboratore di giustizia. La moglie di Galasso, Grazia Scalise, ha fondato la società «Castello di Miasino srl» e dal 2002 ha gestito la struttura trasformata in location per matrimoni e feste. In quell’anno la Corte d’Assise di Napoli ha autorizzato la stipula di un contratto di locazione con la società di 36 mila euro l’anno, ma ridotto dell’80% per più di un lustro. I Galasso hanno anche presentato un’istanza per la restituzione del bene, che però è stata rigettata definitivamente nel marzo 2012.  

L’immobile era stato valutato nel 2009 per 4,6 milioni di euro. Ma allo Stato non è mai arrivato e Mirabelli ha chiesto come sia possibile. Caruso ha risposto che nessuno fino ad oggi si è fatto avanti per rilevare l’immobile, perché troppo costoso, e quanto al fatto che il castello è ancora nel possesso dei Galasso ha precisato che è accaduto in seguito ai loro ricorsi. «Mi risulta invece – sottolinea Mirabelli – che sia stato dato in gestione a una società con quote private normali, che poi in seguito sono state acquisite da familiari della persona a cui era stato sequestrato il bene». Il castello è diventato, come dice il direttore dell’agenzia, un «compendio aziendale» e per lo Stato non è così scontato entrarne in possesso, al punto che al termine del dibattito il presidente della Commissione ha annunciato che chiederà ulteriori informazioni.

Il lato oscuro dei beni sequestrati

Quando Pio La Torre ha immaginato la misura di prevenzione patrimoniale per i beni accumulati illecitamente con metodo mafioso aveva in testa un’idea bellissima: riportare alla collettività ciò che era stato deturpato dalla mafia. Rubare al ladro per restituire: il senso è altissimo.

Ma le intuizione legislative (e la legge Rognoni – La Torre è stata la migliore idea antimafiosa del Parlamento italiano) hanno bisogno di un continuo perfezionamento per essere del giusto gradi di contemporaneità e, soprattutto, funzionali. Funzionali, appunto.

La confisca di beni mafiosi funziona se la restituzione alla collettività comporta un miglioramento aziendale non solo nel rispetto delle regole, ma anche in termini di produttività e reddito dei lavoratori: lo Stato vince se riesce a dimostrare di essere più competente e competitivo delle mafie. Altrimenti è solo simbolo, e allora bastava la poesia mica la legge.

Sulle assegnazioni e sulla gestione dei beni confiscati Telejato sta portando avanti un’inchiesta che è precisa e chiara e che forse farebbe comodo anche al popolo dei politici con il braccialetto per intraprendere una strada chiara sulla gestione e assegnazione dei beni confiscati.

Questo è solo uno dei tanti casi di imprese che lo Stato ha condannato al fallimento. Tuttavia esistono eccezioni che confermano la regola. 
La storia della Calcestruzzi Ericina a Trapani è l’eccezione in questione.
I proprietari erano i figli di Vincenzo Virga, imprenditore trapanese condannato per mafia. L’azienda, dopo la confisca è stata assegnata ad una cooperativa costituita dai dipendenti. La nuova gestione ne ha garantito una competitiva presenza sul mercato ed ha inoltre installato un impianto per lo smantellamento dei rifiuti netti edili. Alla mafia tutto questo non piaceva, ha cercato per ben due volte di distruggerla. Il sostegno decisivo alla cooperativa è arrivato dall’ex prefetto Fulvio Sodano. Peccato che come premio per il suo operato virtuoso sia stato trasferito e accusato di turbativa del libero mercato dall’ ex segretario agli Interni ora senatore Antonio D’Alì (Pdl). Quello stesso senatore imputato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, da poco a Bruxelles per rappresentare il Parlamento italiano in seno all’Assemblea parlamentare Euro Mediterranea. D’Alì è stato confermato nell’organismo parlamentare europeo dal presidente del Senato, nonché ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, che ha raccolto l’interrogazione parlamentare del Pdl.

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La legge Rognoni – La Torre

La legge n. 646, del 13 settembre 1982, nota come legge “Rognoni-La Torre”, introdusse per la prima volta nel codice penale la previsione del reato di “associazione di tipo mafioso” (art. 416 bis) e la conseguente previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione illecita di capitali.

Il testo normativo traeva origine da una proposta di legge presentata alla Camera dei deputati il 31 marzo 1980 (Atto Camera n. 1581), che aveva come primo firmatario l’on. Pio La Torre ed alla cui formulazione tecnica collaborarono anche due giovani magistrati della Procura di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

In questa sezione sono raccolti gli atti e i resoconti delle discussioni parlamentari relative all’approvazione della proposta di legge. La bibliografia offre un’ampia serie di riferimenti a monografie e saggi per conoscerne meglio i contenuti ed il valore innovativo nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata.

Documenti
Iter Camera
Iter Senato
Bibliografia essenziale sulla legge Rognoni – La Torre:

La lobby del bene

Arnaldo Capezzuto è giornalista e antimafioso. Sono due buoni punti per leggerlo, di solito, e usare una riflessione sui suoi pezzi. In più è napoletano di Napoli e in questo momento Napoli è molte cose tutte assieme, positive e negative. Ma Napoli è anche una nuova modalità di assegnazione dei beni confiscati che prevede la trasparenza (il totem di questo tempo, nelle pubbliche amministrazioni) e si permette di contestare il rapporto “fiduciario” nell’antimafia. Ed è una cosa buona, buonissima. Le lobby fanno male, nella mafia e nell’antimafia.

Un’industria, quella dell’anticamorra pronta a fare del bene, il loro, e spillare convenzioni dirette, protocolli d’intesa, finanziamenti esorbitanti (senza bandi e controllo pubblico), gestione dei beni confiscati con svariate e fantasiose attività, sportelli, centri di documentazione, biblioteche, festival, manifestazioni, anniversari, monumenti alla memoria tutto chiaramente in nome e per conto della legalità. Del resto la lotta alla camorra e alla sua cultura dev’essere un impegno quotidiano. Non solo interessi di parte ma sopratutto clientele dei soliti amici : i vecchi e i nuovi. Sì, perchè all’ombra della “lobby del bene” si concedono incarichi, contratti, consulenze, chiamate dirette e distacchi retribuiti. Una cinghia di trasmissione del potere che per osmosi accoglie e smista segnalazioni di questo e quel politico che poi si attiverà per l’inserimento di un codicillo o la scrittura di un bando ad hoc. Il tutto a buon rendere.

E’ bastato che il Comune di Napoli, in particolare l’assessorato ai Giovani, bandisse un avviso pubblico(no la solita telecomandata trattativa privata) rivolta ad associazioni, gruppi informali, volontariato organizzato dal basso per assegnare dei beni confiscati attraverso una regolare, trasparente e rara graduatoria che si creasse verso la giunta presieduta dal sindaco Luigi De Magistris un vero e proprio fuoco di fila.

Cosa dire, cosa aggiungere per ora nulla. Il timore è serio. Adesso oltre a liberarci dai clan della camorra dobbiamo difenderci e liberarci dalle “lobby dell’anticamorra”.

L’articolo di Arnaldo è qui.

La tutela del lavoro nei beni confiscati

Schermata 2012-12-17 alle 12.14.36Al novembre 2012,  sono 1639 le aziende confiscate alle mafie. Circa 10 volte tanto sono quelle sequestrate. I settori più coinvolti sono il terziario, l’edilizia e l’agroalimentare. Il 37% in Sicilia, il 20% in Campania, il 12% in Lombardia.

Il 90% delle aziende sequestrate e confiscate fallisce. Tra il sequestro e la confisca passano circa 8 anni, con conseguenze sul patrimonio aziendale e sulla collocazione di mercato. Sono dagli 80 ai 100.000 le lavoratrici e i lavoratori coinvolti, esposti a licenziamento e disoccupazione.

Per queste ragioni Cgil, Libera, Arci, Acli, Avviso Pubblico, ANM e Osservatorio sociale sulle mafie Milano Lombardia, promuovono una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare tesa a favorire l’emersione alla legalità e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori delle aziende sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata, che “sono un bene di tutti”.

La campagna ha come titolo “Io riattivo il lavoro

Le proposte di legge (che trovate in pdf qui) sono chiare e importanti. Perché, come dice il documento, combattere l’illegalità economica significa prima di tutto aggredire i patrimoni della criminalità organizzata, restituirli alla collettività e porli alla base della costruzione di nuove relazioni economiche sane e legali, che pongano il lavoro e la dignità delle persone al centro di un nuovo percorso di riscatto civile e sociale. Solo in questo modo il nostro paese può gettare le basi per uscire dalla crisi economica in cui versa. In Italia, infatti, l’economia sommersa, la pervasività della criminalità mafiosa, il malaffare e la corruzione hanno un costo pari a circa il 27% del nostro PIL1 un prezzo che costituisce una zavorra insostenibile, sempre più spesso scaricato sui lavoratori e le lavoratrici, sulle giovani generazioni e sui pensionati. 

Sarebbe da dire che è una bella “antimafia dei fatti” visto che ce lo sentiremo ripetere spesso dalle parti leghiste nelle prossime settimane, anche qui in Lombardia.

I moduli per raccogliere le firme sono qui. Stampiamo e facciamo firmare. E’ la politica che ci piace. Davvero.

Cinque punti per la dignità (e per ricostruire l’antimafia)

Cinque punti semplici di cose da fare. Di quelli senza troppi giri di parole dove il programma è chiaro e i risultati facilmente prevedibili. Basta dire sì o no, se possibile motivare la scelta e praticamente si è già fatto un pezzo di programma politico.

Li propongono l’Associazione Antimafia Pio La Torre di Rimini e meritano di diventare una campagna di tutti. Il sito dell’iniziativa è qui:

Noi vorremmo, perciò che questo elenco venga recepito da tutti i candidati alle Primarie e, in futuro da tutti i Candidati premier. 

1) Riforma dell’articolo 416ter per punire il reato e la pratica dello scambio del voto, non solo quando si riscontra una dazione di denaro in cambio del voto, bensì anche quando lo scambio avviene attraverso qualsiasi altro mezzo (materiale o immateriale, una semplice promessa) 
 
2) Così come richiesto da Libera, chiediamo la posta in essere effettiva delle Convenzioni Internazionali in materia di lotta alla corruzione, se non approvate durante questa legislatura, ma soprattutto la confisca dei beni ai Corrotti, così come disposto dalla Finanziaria 2007. Non c’è bisogno di aggiungere altro: lo scandaloso esempio di questi tempi da solo dimostra l’urgenza di una convergenza di tutte le forze politiche che abbiano a cuore la nobiltà della politica stessa. 
 
3) Miglioramenti effettivi nell’iter di confisca e riassegnazione dei beni confiscati alla mafia, in modo da non dover attendere decine di anni prima di far ripartire un’impresa confiscata, facendo perdere il lavoro a persone oneste, rendendo improduttivi terreni e piantagioni oppure lasciando deperire macchinari ed impianti fino a raggiungere l’obsolescenza. Gli esempi possono essere Commissari Straordinari con competenze nel settore della gestione dell’azienda confiscata responsabili non di dismettere l’azienda stessa, quanto piuttosto di farla rimanere sul mercato per poter competere durante il – lungo – periodo del sequestro. In questo modo verrebbero fatti salvi anche i diritti del titolare dell’azienda che, anche una volta provata la sua estraneità alle accuse, non dovrà ripartire da zero ma potrà proseguire da dove aveva interrotto il suo cammino imprenditoriale. 
 
4) Un’anagrafe dei beni confiscati che non si limiti a segnalare l’assegnazione dei beni o lo stato di questi, ma che dia conto del lavoro di chi ha in gestione questi beni pubblici. Anche l’antimafia deve avere un rigore morale e formale, che conformi l’attività svolta nei beni confiscati alle mafie secondo le best practices dei vari settori, dal sociale all’imprenditoriale. 
 
5) Sgravi fiscali per gli esercenti del settore della ristorazione che si impegnano a tenere una percentuale minima di prodotti (accuratamente certificati) provenienti dai terreni confiscati alle mafie; con l’impegno di estendere i suddetti sgravi in futuro a tutti gli altri settori che si potranno avvalere, per lo svolgimento della propria attività economica, dei prodotti provenienti dai terreni e dalle imprese confiscate. Non si tratta di aiuti di Stato alle imprese, si badi bene. È un aiuto dello Stato a sé stesso, per sconfiggere anche economicamente la criminalità organizzata e responsabilizzare, attraverso una logica di mercato – cosa che si confà certamente all’impostazione dell’Unione Europea – gli imprenditori del settore ad una più ricercata selezione dei prodotti.

Sono misure concrete, che potrebbero dare il segno che c’è una politica migliore oltre il marcio che l’ha ricoperta in questi anni. Piccoli passi per riprendersi uno spazio di pubblica discussione ormai lasciato a qualche talk-show e all’infotaiment.Ritornare a discutere di Politica, a fare Politica è ancora possibile. Partire da una base comune crediamo possa essere un buon inizio.

 
Vi chiediamo di diffondere il più possibile per poter far arrivare la nostra voce ad altre associazioni e altre realtà che possano costruire un programma condiviso dai partiti di coalizione e anche a forze che ora non partecipano alle primarie. Su temi come la lotta alla criminalità organizzata non è solo possibile. È un dovere.
Associazioni e singoli possono aderire al nostro appello inviando una mail all’indirizzo cinquepuntiantimafia@gmail.com

 

La mafia a Brescia, la mafia in Lombardia: «Siamo tutti complici»

da BresciaToday

Parlare di mafia si fa sempre più complicato, i tentacoli della Piovra si fanno sempre più vasti, più di quanto si possa immaginare, “ce li abbiamo fin sotto casa“. Con la complicità di tanti, non solo la classe dirigente, con “i pentiti trattati come eroi”, e la Regione Lombardia che dentro di sé, quasi come una qualità oggettiva, possiede “il concime ideale per la proliferazione mafiosa”. A Castegnato il primo incontro del ciclo Mafie al Nord, con Giuseppe Giuffrida (direttore del Distretto Antimafia di Brescia e responsabile dei beni confiscati di Libera Brescia) e Giulio Cavalli (consigliere regionale di SEL), da sempre impegnati nel tenere alta l’attenzione, per non far chiudere gli occhi, per non “farti voltare dall’altra parte”.

In Lombardia e a Brescia, spiegano i relatori, “siamo stati bravi solo a nascondere tutto sotto la sabbia, a fare finta di niente”, giustificando “imprenditori e politici spericolati, giullari e prostitute” e, come detto, con responsabilità comuni. “Una Regione che ha già perso, la Regione dove si vende e si consuma un terzo della cocaina del Paese, dove le infiltrazioni mafiose cominciano dalle banche, si legano ai ricchi imprenditori ma anche ai poveri, con i ricatti, con l’usura”. Spuntano supermercati “come funghi”, strutture commerciali che “non hanno abbastanza clienti per mantenersi”, un fenomeno inarrestabile che allora “non è solo politico”, sale slot e videopoker “piazzati secondo zone d’interesse, fuori dalle leggi del mercato, come se ci fosse un suggeritore”, panettieri e panifici che “non hanno bisogno di vendere pane per guadagnare”, case e capannoni “prima costruite e poi invendute”.

E ancora le coincidenze che si ripetono, la storia di Daccò “con lo stesso odore di quelle di Fiorani e di Sindona”, i faccendieri “amici degli amici in grado di far valere quando serve il loro legame con quelli che contano”, quando la piccola Denise a soli 20 anni è già testimone di giustizia. Il riciclaggio, la memoria di comodo, problemi “culturali e morali”, il reato 416 in cui “tre o più persone cercano di accrescere il proprio bene privato a discapito del bene pubblico, giù al Nord quasi una costante”, o il 416/bis a cui si aggiungono “minacce e intimidazioni”.

Scelte suicide come “la spinta all’intolleranza verso i deboli e non verso i prepotenti”, frammenti di un puzzle davvero troppo grande di cui però bisogna sfatare i luoghi comuni, “perché sappiamo tutti che Provenzano e Riina erano solo ‘pezzi’, piccole parti di un apparato gigantesco, senza mai sapere chi fossero gli statisti quelli puri, abbiamo avuto paura delle loro ombre, di gente che neanche meritava considerazione”.

Una bruciante conclusione quella di Cavalli e Giuffrida: “La paura può essere lecita, l’indifferenza invece no. Chi non prende posizione è come se fosse un colluso, l’antimafia educata non esiste. La mafia non si combatte con l’impegno straordinario di pochi, si combatte con l’impegno quotidiano di tanti. Prima di tutto dobbiamo imparare a sconfiggere la mafia che c’è dentro di noi”.

Beni confiscati, l’impegno non si brucia

scritto per IL FATTO QUOTIDIANO 

Dieci giorni fa incendio oliveto – denuncia Libera – a Castelvetrano, poi duemila piante di arance a Belpasso nel catanese, ieri due quintali di grano andati in fumo a Mesagne per non citare le varie intimidazioni subite a Borgo Sabatino e nella piana di Gioia Tauro in Calabria. Non possiamo più pensare a delle coincidenza, sono colpiti beni confiscati restituiti alla collettività, sono un attacco al lavoro quotidiano di chi si impegna quotidianamente contro il potere criminale. Nessuno pensi che con le fiamme di vandalizzare e fermare questo impegno. Contro queste fiamme il “noi” del nostro paese è chiamato in gioco e deve sentire forte questo impegno nella lotta alla criminalità”.  

Gli incendi sui terreni confiscati alle mafie sono stati all’ordine del giorno. Ho incrociato gli occhi dei ragazzi che lavorano nelle cooperative mentre si fanno umidi guardando un muro o una vigna tutti neri con la cenere che si infila nel colletto della camicia. E sempre, sempre, ho guardato la voglia di continuare. Mica ricominciare. Continuare come se quel fuoco fosse un imprevisto che stava nel preventivo delle cose che succedono in un percorso incidentato, più che accidentale. Sfregiare il bene che è stato tolto è il modo per le mafie di esibire il colpo di coda. Banale, arrogante, vigliacco:mafioso con tutti i suoi stili e le bassezze che comunque ci aspettiamo.

Eppure il punto che mi colpisce degli ultimi incendi in sequenza sui terreni confiscati è un altro: lastrategia. Questo riuscire così bene delle mafie a guardare la mappa dei propri problemi e delle proprie sconfitte dall’alto per convenire sui tempi, sui luoghi, sui modi e sulle modalità affinché la puzza di bruciato si attacchi alla gola in modo sistematico. Una codardia spalmata con metodo.

E allora mi chiedo se siamo riusciti mai a guardare lontano (e da lontano) cosa sta succedendo neiterreni confiscati. Se abbiamo fatto un passo in più rispetto all’etichetta di Libera messa in bella mostra nella presentazione di uno dei soliti libri o nella corsa campestre contro le mafie e quelle altre cose lì. Se abbiamo mai alzato davvero la voce con il governo (qualsiasi di quelli che sono stati in questi ultimi anni) per rivendicare l’impegno. Perché l’impegno va rivendicato, sì. In un Paese che partorisce un negazionista o un minimizzatore al giorno nei sui quadri dirigenti l’impegno va urlato. E andrebbe esposto (e imposto) nello stesso modo sistematico e con la stessa capacità di raccontare tutto e tutti tenendo tutto insieme. Come fanno loro. Sorprenderli per una volta con un accerchiamento simile a quello che stiamo subendo con uno sdegno organizzato tra i lavoratori di quei beni, i consumatori, la politica, gli atti amministrativi, i ministeri e le forze dell’ordine. Senza rimanere sfilacciati aspettando che qualcuno racconti con lirismo il prossimo incendio per sollevare una solidarietà di qualche ora.

Si pensi a risolvere il problema delle ipoteche che frenano l’assegnazione di beni confiscati e incagliati da anni chiedendo un’assunzione di responsabilità alle banche, si rinforzi lo strumento dellaconfisca, si custodiscano le arance non solo come arance ma come simbolo di una rivincita civile, si pensi ad una legge di confisca anche per i reati di corruzione, si pensi ad inserire i prodotti nelle mense scolastiche, si recepisca la legge dell’autoriciclaggio come ci chiede l’Europa (da cui prendiamo solo i moniti antisociali) e dica forte lo Stato che quel terreno confiscato è suo e lo difende.

Poi la cenere sarà solo un problema passeggero. Sicuro.