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beni culturali

Il senso del lavoro di Sgarbi

Vittorio Sgarbi, da sempre incapace di entrare nel merito nelle sue baldanzose e sconclusionate uscite in cui attacca gli avversari politici di turno, ha pensato bene di criticare Virginia Raggi con una bella provocazione classista delle sue, dicendo: «Secondo me prima di fare il sindaco era una cameriera nell’ufficio di avvocati e guadagnava 600 euro al mese». Essere cameriera e guadagnare 600 euro al mese evidentemente per il critico d’arte è elemento di vergogna e di inettitudine. Del resto, mica per niente, Sgarbi da sempre è l’assiduo frequentatore di immorali imprenditori. Virginia Raggi, da canto suo, ha risposto parlando della dignità dei camerieri e tutto il resto, seguita a ruota da Di Maio.

Ma c’è un aspetto interessante in tutto questo: Sgarbi ha pronunciato la sua infelice frase mentre si candidava come sindaco di Roma (e già cerca di attaccarsi ai pantaloni di Calenda) e praticamente in contemporanea ha annunciato la sua candidatura in Calabria. Del resto che Sgarbi sia terrorizzato dall’idea di dover lavorare senza politica lo racconta benissimo la sua storia politica che Fondazione Critica Liberale ha messo tutta in fila e che letta tutta d’un fiato fa parecchio spavento:

«1) Unione monarchica italiana; 2) Partito comunista italiano, accettando la proposta di candidarsi al consiglio comunale di Pesaro, nel 1990, candidatura poi fallita per avere contemporaneamente accettato anche la proposta di candidato per il Psi; 3) Partito socialista italiano, per il quale è stato eletto nel 1990 consigliere comunale a San Severino Marche; 4) Dc-Msi, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di San Severino Marche nel 1992; 5) Partito liberale italiano, per il quale è stato deputato nel 1992; 6) Forza Italia, con la quale è stato eletto deputato nel 1994, nel 1996, nel 2001 e 2018; 7) Partito federalista, che ha fondato nel 1995 e poi lasciato per aderire alla 8) Lista Pannella-Sgarbi; 9) “I Liberal – Sgarbi”, movimento da lui fondato nel 1999; 10) Polo laico, movimento effimero esistito nel 2000 per garantire una rappresentanza alle elezioni dell’anno successivo ai Liberali e ai Radicali Italiani; 11) Lista consumatori, con la quale si è candidato, per le Politiche del 2006, senza essere eletto; 12) Udc-Dc, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di Salemi nel 2008; 13) Movimento per le autonomie con il quale è stato candidato alle elezioni europee del 2009 nel cartello elettorale L’Autonomia nella Circoscrizione Isole; 14) Rete Liberal Sgarbi-Riformisti e Liberali nelle elezioni regionali 2010 del Lazio; 15) Partito della Rivoluzione-Laboratorio Sgarbi, movimento politico fondato dallo stesso Sgarbi ufficialmente il 14 luglio 2012; 16) Intesa popolare, partito fondato nel 2013 assieme a Giampiero Catone; 17) i Verdi, in occasione delle elezioni comunali a Urbino del 2014, hanno sostenuto la sua iniziale candidatura a sindaco e poi la proposta al sindaco eletto di nominarlo assessore alla Cultura del Comune di Urbino, a seguito dell’alleanza tra i Verdi e la coalizione di Centrodestra, guidata da Maurizio Gambini; 18) Rinascimento, partito da lui fondato con Giulio Tremonti nel 2017 con il quale inizialmente si candida come governatore alle Regionali in Sicilia; in seguito appoggerà la candidatura di Nello Musumeci per la coalizione di centrodestra, che risulterà eletto. In vista delle elezioni politiche del 2018 il partito si federa con Forza Italia; 19) Alleanza di centro, il 12 dicembre 2019, nel gruppo misto della Camera, sei giorni dopo che Sgarbi ha lasciato il gruppo di Forza Italia, si costituisce la componente “Noi con l’Italia – Usei – Alleanza di Centro”, poi divenuta, il successivo 18 dicembre, “Noi con l’Italia – Usei – Cambiamo! – Alleanza di Centro”».

Eccolo il senso del lavoro per Sgarbi: navigare da un partito all’altro in cerca di un ruolo pubblico. Poi si potrebbe ricordare la condanna in via definitiva a 6 mesi e 10 giorni per truffa aggravata e continuata e falso ai danni dello Stato, per produzione di documenti falsi e assenteismo nel periodo 1989-1990, mentre era dipendente del ministero dei Beni culturali.

Poi, oltre a quello che fa, c’è quello che dice e come lo dice. Ma qui si cadrebbe in un dirupo, sarebbe troppo, anche per un buongiorno.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il triste declino dei beni culturali

di Claudio Meloni

 

Se un merito dobbiamo attribuire alle riforme del Ministro Franceschini, certamente questo sta nel fatto che oggettivamente il tema della gestione pubblica del nostro patrimonio culturale è stato riportato al centro del dibattito politico. Possiamo aggiungere che purtroppo i meriti si esauriscono in questa premessa, nell’apparente rovesciamento dell’assunto neo liberista che identificava la spesa sulla cultura come socialmente improduttiva con un altro, dello stesso

segno, che propone la messa a reddito del patrimonio come una sorta di panacea dello sviluppo, lo sfruttamento commerciale dei nostri siti come l’unico mezzo della loro valorizzazione. In realtà entrambi questi metodi stanno determinando un progressivo arretramento delle gestioni pubbliche, una certificazione dell’impossibilità da parte dei bilanci pubblici di provvedere alla manutenzione e conservazione del patrimonio, arrivando, in alcune ardite teorizzazioni, ad immaginare che il problema sia l’eccessiva concentrazione dei beni culturali nel nostro paese, e che questo determini appunto l’incapacità sostanziale da parte dello stato e delle istituzioni pubbliche a provvedere al loro mantenimento.

I dati che malinconicamente l’Istat fornisce nelle sue relazioni annuali presentano una realtà ben diversa: la spesa per la tutela è ai livelli più infimi della storia, la spesa pubblica pro capite continua a diminuire, il paragone con gli altri paesi europei è vergognoso proprio nel suo rapporto tra spesa complessiva e dimensione del patrimonio posseduto. Dovrebbero essere questi i temi veri del dibattito, invece assistiamo ormai da troppo tempo ad una bolla mediatica fatta di prove muscolari sul numero di visitatori che aumentano in una sorta di battaglia immaginifica tra i conservatori, ovvero quelli che non prescindono dal binomio tutela/fruizione, e i cosiddetti innovatori, coloro che pensano che noi non abbiamo mai sfruttato adeguatamente le potenzialità che il nostro patrimonio offre a causa della eccessiva attenzione alla sua tutela. Anche in questo caso andrebbe avviata una operazione di demistificazione: i visitatori aumentano progressivamente da quando si sono adottate politiche di ampliamento degli orari, e sono aumentati in modo del tutto consistente persino sotto la gestione Bondi Galan. Politiche di ampliamento dovute esclusivamente agli accordi di produttività che sono in vigore dal 2000, per le quali noi rivendichiamo con orgoglio la paternità e che hanno prodotto questi risultati esclusivamente grazie allo sforzo reale e misurabile dei lavoratori pubblici. In quest’operazione verità non dovrebbero neanche essere trascurati i riflessi dello spostamento – verso il nostro Paese – di consistenti flussi turistici, deviati da altre mete mediterranee o europee per gli effetti degli attacchi terroristici di matrice islamista.

In questo contesto si calano le riforme Franceschini, i cui segni distintivi sono la decontestualizzazione del sistema museale dal ciclo della tutela e il ridimensionamento pesante delle Soprintendenze e del ciclo archivistico-bibliotecario. Il tutto giocato sulla presunta scommessa della valorizzazione come idea estremizzata della fruizione. Questo ha comportato uno spostamento pesante di risorse umane e finanziarie a favore del sistema museale, ed oggi assistiamo, spesso sgomenti, al progressivo abbandono di un sistema di tutela diffusa del patrimonio che era esempio da seguire per tutta la comunità internazionale e all’introduzione di singolari esperimenti organizzativi, quali ad esempio i poli museali regionali, che si stanno rivelando disastrosi proprio nell’obiettivo di valorizzare il patrimonio diffuso. Ancora oggi un quarto dei visitatori si concentra sui siti e sui territori a maggiore richiamo e casomai in questi casi il problema che si sta ponendo è quello di limitare l’eccessivo afflusso, non di incrementarlo, ad esempio a Firenze e Venezia.

Con il risultato che oggi ci troviamo i musei, che in Italia sono sempre espressione del territorio di appartenenza, sganciati dal contesto in cui si sono creati e divisi artificialmente dai cicli di tutela e conservazione che li hanno generati. E ancora ignorati persino dai cittadini che di quel territorio sono parte: su questo incide la mancata progettazione/attivazione dei percorsi integrati che dovevano essere l’obiettivo della Direzione Turismo, dei Poli Museali e anche dei Segretariati Regionali.

Ci chiediamo inoltre che senso ha avuto lo spezzettamento dello straordinario tessuto archeologico di Roma, quando proprio l’unicitá della Soprintendenza aveva garantito i risultati di cui oggi il Ministro si fregia e quando proprio su questa unicità si immaginavano ardite progettazioni  di ricomposizione sociale del tessuto urbanistico.

E che senso avrà il previsto abbandono del modello di Soprintendenza a Pompei, quando è da tutti certificato che il problema di quel sito non è certo la scarsa fruizione ma la sua manutenzione. E ancora: che senso ha immaginare modelli di autonomia per i grandi musei, quando la scarsità strutturale delle professionalità necessarie al loro funzionamento impedirà per molti anni ancora la loro effettiva realizzazione.

Pertanto anche le poche felici intuizioni che queste riforme, come ad esempio l’identificazione di standard organizzativi per i musei, rischiano di affogare nel mare magnum delle deficienze organizzative strutturali alle quali non si è voluto o saputo far fronte.

E la nostra principale preoccupazione, anzitutto come cittadini, è quella che riguarda il destino dei settori applicati alla tutela del patrimonio, investiti da una serie di provvedimenti di deregolamentazione delle normative di tutela che riguardano sia le politiche paesaggistiche che quelle sul patrimonio e sulle esportazioni delle opere. Per finire alla previsione di assoggettamento delle Soprintendenze ai Prefetti, una operazione di accentramento politico-burocratico senza precedenti nella storia del nostro paese.

Queste considerazioni caratterizzano il giudizio complessivo che abbiamo dato su questa riorganizzazione e ci hanno portato alla condivisione di un percorso critico che non si è limitato alla mera visione sindacale, tramite la ricerca di punti di contatto con il mondo associativo e intellettuale che ha espresso le nostre stesse preoccupazioni. Un percorso che ha avuto il suo momento più alto nella manifestazione del 7 maggio 2016 e nella coalizione di Emergenza Cultura il terreno privilegiato di iniziativa e analisi critica.

Sarebbe però sbagliato imputare solo alle riforme di questo governo il profondo stato di declino organizzativo che vivono i cicli pubblici nei beni culturali, le cause sono più profonde e riguardano fattori strutturali, dai tagli che la spesa sulla cultura ha subito in misura molto maggiore degli altri settori al mancato ricambio generazionale dovuto al prolungato blocco del turn over, fino alla vera e propria deregolamentazione che ha subito il mercato del lavoro in tale ambito. Questi processi si sono accompagnati ad una mancanza di visione strategica rispetto ai processi di innovazione organizzativa nei servizi, ad una progressiva burocratizzazione delle strutture e procedure ministeriali, a processi di esternalizzazione produttiva che hanno avvolto tutti i cicli lavorativi, fino al raschiamento del fondo del barile rappresentato dalla diffusione incontrollata di forme di falso volontariato che non sono altro che sfruttamento mascherato del lavoro e lesione della dignità dei lavoratori coinvolti.

La triste vicenda del falso volontariato alla Biblioteca Nazionale di Roma ne è esempio emblematico,  ma anche l’abuso nel ricorso alla società in house Ales per sopperire a carenze di professionalità interne è indicatore di una governance che apparentemente taglia il costo del lavoro ufficiale, salvo poi ricorrere a  veri inganni per coprire i fabbisogni professionali emergenti. Lo ricordiamo sempre: per i soloni del bilancio statale avere un lavoratore esternalizzato o comprare una fotocopiatrice è la stessa cosa, è una spesa per servizi e quindi la riduzione del costo del lavoro è solo apparente, serve solo per le statistiche ufficiali, mentre cresce, non censito, quello esterno, con caratteristiche penalizzanti per i lavoratori che hanno subito progressivi peggioramenti nelle condizioni salariali e normative. Lavoratori in gran parte giovani e grandemente professionalizzati, sacrificati dai tagli al bilancio e dalla logica del costo zero che ragioneristicamente si è imposta ai processi di riorganizzazione.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti, un organico ufficiale del ministero che ha perso un quarto delle sue capacità occupazionali teoriche dal 1997 ad oggi, una età media del personale di ruolo di 55 anni, un impoverimento progressivo del suo tessuto professionale, una carenza che attualmente si aggira intorno alle 3000 unità complessive rispetto al pur ridotto organico teorico, un paradossale esubero determinato dalla riorganizzazione in alcuni territori strategici come ad esempio la Campania, addirittura un surplus di personale sancito dall’ultimo taglio del costo del lavoro nella prima area funzionale.

In questi anni difficili abbiamo dovuto affrontare una situazione complessa dovuta ad un processo di ristrutturazione che via via ha stravolto la fisionomia organizzativa ministeriale, addirittura con interventi in successione, attuati tramite “normette” introdotte con leggi omnibus, che hanno radicalmente cambiato persino la prima riforma del Ministro Franceschini. Basti pensare alle modifiche subite dal sistema delle Soprintendenze, prima miste e poi uniche con conseguenti modifiche degli ambiti territoriali di competenza, o al trattamento riservato al sistema degli Archivi e delle Biblioteche, pesantemente ridimensionato nei suoi assetti organizzativi ma poi reso destinatario di pesanti competenze di tutela su tutto il patrimonio archivistico e bibliografico nazionale, sottratte con un colpo di mano normativo alle regioni. Fino alla vera e propria proliferazione di musei e parchi autonomi, con lo spezzatino delle aree archeologiche più importanti di Roma e Napoli.

In questi anni non ci siamo certo sottratti al confronto, abbiamo tentato di mantenere condizioni accettabili di tutela dei lavoratori e di garantire i servizi, continuando a sottoscrivere accordi di produttività che garantissero orari di fruizione ampia in tutto il territorio nazionale. Abbiamo chiesto a gran voce che la riorganizzazione fosse accompagnata da investimenti organizzativi e occupazionali, abbiamo continuato a denunciare tutte le storture organizzative che le riforme hanno prodotto, ci siamo opposti alla deriva propagandistica della falsa valorizzazione tentando di rappresentare la condizione reale di caos sovrapposto al declino strutturale dei cicli lavorativi, siamo stati insieme a chi denunciava l’attacco al sistema di tutela del patrimonio e siamo stati protagonisti in una miriade di iniziative tese a difendere le condizioni di tutti i lavoratori, a partire da quelli che maggiormente hanno subito condizioni di sfruttamento. Non ci siamo limitati alla mera difesa di posizione, abbiamo cercato di essere propositivi e allo stesso tempo di governare le contraddizioni provenienti da scelte organizzative improvvisate e non condivise dai lavoratori. Abbiamo subito un grave attacco ai diritti costituzionali dei lavoratori, a cui è stato ignominiosamente limitato il diritto di sciopero con motivazioni pretestuose e tramite un decreto legge, e a cui viene oggi persino impedito la libera espressione di critica tramite la manomissione autoritaria del Codice Etico. Abbiamo combattuto la privatizzazione strisciante e denunciato il progressivo arretramento delle gestioni pubbliche a favore di quelle private, tramite le forme indirette che quasi sempre comportano benefici e profitti ai privati e costi di gestione a carico dell’erario pubblico. Abbiamo proseguito a fare la contrattazione integrativa e la abbiamo costantemente indirizzata al confronto sui processi riorganizzativi, mantenendo e addirittura potenziando condizioni di confronto che la norma ci voleva sottrarre.

Ma tutto questo sforzo non è stato sufficiente: ancora oggi ci troviamo in mezzo al guado di una riorganizzazione incompleta ed in una situazione prolungata dì transitorietà che determina disorientamento e paura tra i lavoratori, soggetta alla mutevolezza di un quadro politico che, nel suo insieme, poco lascia intravvedere rispetto ad un reale e profondo mutamento di rotta.

In questa situazione ci apprestiamo ad affrontare la campagna per il rinnovo delle Rsu, che è il nostro vero momento di verifica democratica con i lavoratori. La affrontiamo consci delle difficoltà ma anche con la consapevolezza di avere idee salde e una visione strategica su quello che possiamo fare e su quello che si deve cambiare.

È quello che deve radicalmente cambiare passa attraverso un radicale ripensamento dei processi di riorganizzazione che parta dalla ricomposizione dei cicli di tutela con quelli della valorizzazione, che rinsaldi una frattura creata artificialmente e foriera di gravi danni per il futuro del nostro inestimabile patrimonio.

La potenziale attrattivitá del patrimonio diffuso può essere foriera di sviluppo solo se legata al territorio di cui è espressione, anzitutto nella sua riconoscibilità come fattore di crescita culturale di una comunità e rispetto alle condizioni infrastrutturali che ne agevolino la fruizione e la capacità di offerta dei servizi. In questo senso a noi erano piaciuti molto gli indirizzi dati nella rimodulazione dei progetti POIN 2007/13 dall’allora Ministro Barca, e di cui troviamo purtroppo scarsa traccia nella nouvelle vague franceschiniana.

Questo significa che il sistema delle Soprintendenze deve tornare ad essere il centro dell’azione pubblica tramite la soppressione dei Poli Museali regionali e l’estensione ad esse del modello di autonomia attualmente limitato ai grandi Musei. Se davvero si intende attuare il Piano strategico per il Turismo questa deve essere la chiave che superi le pastoie burocratiche che ancora oggi avvolgono l’azione della Direzione Generale del Turismo, un corpus tuttora avulso dalle dinamiche organizzative interne al Ministero. Il problema non è se le Soprintendenze devono essere Uniche o meno, ma quello della salvaguardia delle loro competenze tecnico scientifiche mortificate e depauperate dalle riforme e dai tagli.

E significa che bisogna tornare ad investire sulla tutela dell’immenso patrimonio documentale che possediamo, riqualificando e ammodernando il sistema diffuso degli Archivi e delle Biblioteche pubbliche, sia nella capacità di offerta dei servizi che rispetto alla funzione di stimolo alla conoscenza ed alla crescita culturale dei cittadini.

Occorre inoltre riprendere ad investire nella ricerca, riqualificando professionalmente il settore e gli Istituti Centrali, anch’essi ormai ridotti al lumicino, adeguando i processi organizzativi alle innovazioni tecnologiche, come ad esempio i processi di digitalizzazione del patrimonio documentale e librario.

Dal nostro punto di vista sindacale tutto questo pone al centro la questione del lavoro, della sua riqualificazione sociale e della sua dignità, che in questo settore risulta particolarmente lesa.

Non bastano le misure che ad oggi si stanno attuando, 1000 assunzioni sono appena sufficienti a coprire un terzo delle carenze attuali e il trend di uscite nel prossimo triennio sarà ancora più massiccio con il pensionamento degli ex 285, particolarmente incidente nei settori professionali più qualificati. Serve quindi un piano straordinario che deroghi al blocco del turnover e si ponga l’obiettivo di coprire l’intera dotazione organica entro il 2020. Un piano che qualifichi il fabbisogno professionale e lo leghi ai processi di innovazione organizzativa aggredendo i fattori di obsolescenza che caratterizzano il declino dei cicli produttivi. La questione professionale è centrale nei beni culturali, l’appiattimento professionale dei lavoratori interni e la deregolamentazione del mercato del lavoro ne sono i segni distintivi. Riconoscere percorsi professionali di crescita qualitativa degli apporti ed allo stesso tempo definire regole certe ed esigibili a tutela del lavoro esternalizzato. Non è possibile che a tre anni dalla legge che riconosce le professionalità nei beni culturali, inserendoli nel Codice, non abbiamo ancora i regolamenti attuativi e la vicenda dei riconoscimenti di qualifica professionale per i restauratori registrano vergognosi ed inammissibili ritardi. Occorre prevedere tariffari minimi per i professionisti e trattamenti economici e normativi minimi per tutti i lavoratori esternalizzati, rivedere radicalmente la politica delle concessioni, limitare l’utilizzo della società in house riconducendola entro corretti recinti normativi.

La contrattazione integrativa deve essere potenziata nelle materie e nelle risorse e sempre più indirizzata alla incentivazione della reale produttività e della crescita professionale collegata ad investimenti su efficaci processi formativi e non certo a modelli meritocratici astratti. Occorre responsabilizzare la dirigenza tramite criteri di valutazione collegati alla effettiva realizzazione degli obiettivi assegnati, sollevandoli dal limbo dell’autoreferenzialitá dei trattamenti a pioggia a prescindere.

Infine la sfida della rappresentanza: dobbiamo migliorare la nostra capacità di intervenire sulla complessità dei nostri cicli lavorativi, non dobbiamo farci rinchiudere nei recinti degli interessi specifici e combattere le sempre forti spinte corporative che sono state in parte causa delle derive autoritarie che hanno compresso i nostri diritti. La qualità degli ambienti di lavoro va misurata complessivamente ed il riconoscimento delle tutele e dei diritti di tutti coloro che a vario titolo contribuiscono al funzionamento  dei servizi è componente essenziale del concetto di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, oltre che naturalmente linfa dei processi di affermazione dei loro diritti democratici e condizione per una ritrovata efficacia del lavoro al servizio dei cittadini. Cogliere la complessità dei cicli lavorativi rappresenta la nostra vera sfida culturale, fino al raggiungimento della piena consapevolezza della confederalitá come base fondante del nostro agire sindacale.

Su queste idee costruiremo la piattaforma con la quale affronteremo la difficile campagna elettorale per il rinnovo delle RSU e ci confronteremo democraticamente con i lavoratori, nella concreta speranza di mantenere e rafforzare il ruolo forte che la CGIL ha avuto in questi anni complicati.

 

Relazione tenuta all’iniziativa CGIL FP tenutasi a Palermo l’8 settembre us

L’autore e’ Coordinatore nazionale CGIL FP MiBACT

Il problema del Colosseo è una classe politica con il senso dei gladiatori

Nuova immagine (3)Dunque il Colosseo diventa la perfetta pietra dello scandalo. Quello che i migranti sono per Salvini, per Renzi sono i diritti dei lavoratori e la cultura quando non serve da zerbino a qualche marchio della grande industria del lusso.

I beni nazionali sono quello che erano i leoni per gli antichi romani: divertimento puro da esporre allo straniero, senza nessuna considerazione per l’arte. Qui, da noi, il Colosseo serve per farci un logo su carta intestata o una statuetta da portare in dono nei viaggi internazionali.

Per fortuna qualcuno come Vittorio Emiliani rimette un po’ di dati in fila:

Con piglio decisionista napoleonico Matteo Renzi ha varato in giornata un decreto legge (si è perso il conto, credo) col quale i servizi museali vengono equiparati a quelli ospedalieri, ai trasporti pubblici, ecc. Cosa non facile sul piano giuridico e che però accontenta la “pancia” di chi non sopporta i sindacati. Il problema di fondo era questo? No, proprio no. L’hanno notato Massimo Cacciari, Tomaso Montanari, Simone Verde e non molti altri (quorum ego, diceva il Brera). Il problema centrale è rappresentato dalle risorse cronicamente scarse che i governi destinano ad Arte & Cultura: nel 2006, ultimo governo Prodi, non erano un granché però rappresentavano ancora lo 0,40 % del bilancio statale. Col governo Berlusconi si sono più che dimezzate precipitando allo 0,19. Va precisato, a questo punto, che, secondo dati Istat, nel 2011 l’Italia – col formidabile patrimonio che ha ereditato – figurava al 22° posto nella classifica della spesa, in assoluto e in percentuale sul PIL, sotto la media Ue e dopo Malta, Cipro e Bulgaria. Non dovremmo arrossire e indignarci per questo che la causa di quasi tutto?

Pare di no. La nota integrativa al bilancio statale per il triennio 2014-2016 prevede un ulteriore calo delle risorse da spendere per “tutela e valorizzazione (fa sorridere) dei beni e delle attività culturali e del paesaggio” pari all’8,3 % . Calo ancor più marcato, così imparano ( – 9,4 %), per i beni archeologici: dove avrà scovato il ministro Franceschini i 20 milioni di euro da destinare alla hollywoodiana Arena Colosseo già celebre per la sua superfluità Il primato però nella riduzione delle risorse toccherebbe ai beni artistici, architettonici e paesaggistici (messi assieme in un gran minestrone): – 10,3 %. Quanto all’organico dei dipendenti ministeriali, in certi casi è già dimezzato, coi musei e gallerie che aprono quando possono (nel polo Bologna-Ferrara il personale è sceso da un’ottantina a meno di venti addetti).

Secondo dati sindacali, con le nuove piante organiche varate con decreto (e ti pareva) da Franceschini in agosto, i dipendenti del Ministero – che erano a quella data 25.175 – devono scendere a 19.050 Condite tutto ciò col silenzio/assenso su grandi opere, lottizzazioni, villaggi, ecc, e con la sottomissione delle Soprintendenze

L’articolo è qui.

Finiremo per vendere anche il Colosseo

 Per quanto riguarda l’aspetto manageriale, ad oggi, gran parte del sistema di gestione dei beni culturali è basato sul sostentamento pubblico. Quindi, da una parte c’è lo Stato, che gestisce e finanzia i propri beni. Poi ci sono le Regioni e infine i Comuni, che provvedono al patrimonio di loro competenza. Solo una piccola parte di beni è sottoposta al finanziamento privato, soprattutto delle fondazioni bancarie. Anche i privati, però, negli ultimi anni hanno compreso che dalla cultura non si mangia, riducendo i propri investimenti del 30%. Ora, delle due, una. O si è disposti, per evitare il collasso del sistema, ad accettare la presenza sempre maggiore di privati nella gestione dei beni storico-artistici oppure il Governo dovrà individuare nei millenari campanili, nei musei e nelle statue di marmo il tesoretto sul quale puntare. Con molta probabilità, si opterà per la prima.

Vale la pena leggere (e riflettere) sulle parole di Fabrizio Ciannamea.

Turismo culturale, l’ossessione italiana

Se ne parla sempre, ovunque, dai convegni ai discorsi da bar: siamo un Paese che continua a sfoderare poco pochissimo quasi niente le proprie bellezze eppure i dati generali danno sempre l’impressione di essere poco più che pareri personali. Per questo vale la pena di leggere il dossier di GH NETwork, in attesa delle conversione in legge del decreto Cultura:

Grand Hotel Ermo Colle

Sembra fantascienza. Fantascienza horror. Una ricca possidente terriera (Maria Dalla Casapiccola, e il nome è degno del miglior Molière) vuole trasformare l’ermo colle dell’Infinito di Leopardi in un nuovo complesso residenziale. Dovrebbero esserci i buoni che combattono, no? E invece…

In Sovrintendenza sono disperati: «Non abbiamo i soldi, non abbiamo personale, non siamo in grado di gestire tutti i casi che ci arrivano», e allora la signora Dalla Casapiccola ha giocato sul velluto e, in poche udienze, ha ottenuto il permesso per fare quello che vuole con la casa colonica, che tra le altre cose è a un tiro di schioppo da un altro simbolo leopardiano: la torre del passero solitario. Un problema – quello della mancanza di fondi – che si presenta sempre uguale davanti ad ogni questione che riguarda i beni culturali sparsi lungo la penisola: Pompei cade a pezzi, ogni volta che dal sottosuolo delle città emerge qualche testimonianza del passato si preferisce coprire tutto e continuare i lavori, i pochi precari della cultura che dispongono di un contratto hanno stipendi da fame. Il paese che, secondo diverse statistiche, dispone della maggior parte dei beni artistici e culturali del pianeta Terra preferisce sempre voltarsi dall’altra parte. L’ultima carta da giocare prima dell’arrivo del cemento è un ricorso al Consiglio di stato. La Sovrintendenza sta lavorando a ritmo febbrile per produrre una documentazione convincente da depositare entro i primi di ottobre: bisogna dimostrare che, i progetti presentati dalla signora Dalla Casapiccola snaturerebbero un’area dall’indiscutibile valore storico e culturale, vincolata da sessant’anni. Detta così potrebbe anche sembrare una cosa semplice, ma il giudizio espresso dal Tar è un precedente inquietante. L’Infinito che scopre i suoi confini; un naufragare molto poco dolce, in questo mare di cemento.

Il patrimonio a pezzi

Lo Stato italiano destina alla cultura solo lo 0,21% del suo budget, contro l’1% della Francia, che possiede un patrimonio molto inferiore. Il miliardo e 800 milioni di euro del budget bastano a malapena per la copertura delle spese, motivo per il quale entità prestigiose come La Scala e il Piccolo Teatro di Milano subiscono tagli di circa 17 milioni di euro.

Il Fondo Unico per lo Spettacolo, che finanzia i teatri italiani, ha perso il 50% del suo budget tra il 2010 e il 2011, e solamente a Roma 31 teatri corrono il rischio di chiudere, un dato spaventoso.

Quest’anno il rinomato mondo del cinema italiano ha denunciato i tagli subiti e l’eliminazione di numerosi progetti, tra i quali vari documentari non commerciali.

“C’è qualcosa che non va in questo paese. Non sappiamo creare soldi con la nostra cultura”, ha constatato con amarezza lo scrittore Umberto Eco in una lettera pubblicata lo scorso anno.

L’articolo sull’emergenza dei beni culturali viene dall’estero. Qui.