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La Bestia non è solo un algoritmo: lo dimostrano i commenti xenofobi in chat della giunta di Voghera

No, attenzione, cerchiamo di capirci. La Bestia di Salvini e Morisi non è solo un algoritmo, troppo facile limitare la condanna a una questione di frasi sputate sui social come se le parole non generassero realtà. La melma sdoganata dal duo tragico che ha tenuto in mano le redini della Lega quest’anno sta tutta nel rendere potabile ciò che non dovrebbe essere tollerato, coltivare una cattiveria indice di forza presunta che addirittura è un motivo di vanto da parte di rappresentanti istituzionali e che viene spalmata tra sorrisi e faccine.

La bestialità della Bestia ha la forma della Giunta della città di Voghera, dove l’assessore ai Lavori pubblici Giancarlo Gabba scrive nella chat riservata a sindaca e assessori che “finché non si comincerà a sparare, sarà sempre peggio” riferendosi al caos in piazza San Bovo. Annusate la puzza: “Davanti allAfrica market mega assembramento — scriveva il vicesindaco Simona Virgilio — con tantissimi individui con bottiglie in mano, non si riesce neanche a passare”.

Il 12 marzo la sindaca parlava in prima persona: “ma in tutto ciò il marocchino che chiedeva elemosina è annegato?”. E se la frase già da sola vi risulta schifosa allora provate a ingoiare le risate servili che seguono e la foto di angolo di Voghera definito “il tempio della cavalleria, dove vanno lì a bivaccare”, poi un commento dell’assessore Adriatici che ironicamente propone di “togliere la panchina” e poi quello di Giancarlo Gabba, ancora: “Purtroppo, ormai non bastano più i nostri vigili! Ci vuole ben altro!”, col disegnino di una bomba.

Voghera, vale la pena ricordare, è la stessa città dove l’assessore leghista alla Sicurezza Massimo Adriatici, attualmente agli arresti domiciliari con laccusa di eccesso colposo di legittima difesa, ha ucciso con un colpo di pistola (e con proiettili illegali in Italia) Youns el Boussettaoui. Quelle parole che galleggiavano nel razzismo ridanciano di una Giunta comunale che chioccherà come un’allegra compagnia un po’ brilla al bar risuonano ancora più tetre e losche alla luce dell’omicidio che seguirà da lì a qualche mese, il 20 luglio.

La Bestia di Salvini e di Morisi non è solo un algoritmo: la Bestia è quel veleno che oggi non rende inaccettabile e immorale avere una classe dirigente che si trastulla in un bullismo xenofobo e ancora oggi tiene il potere a Voghera. La Bestia ha inoculato intolleranza e ha reso tollerabile la sguaiata inettitudine di un manipolo di tronfi odiatosi che sono usciti dai social e addirittura siedono nei posti di comando.

Qui non è questione di essere dell’una o dell’altra parte politica, qui ormai siamo sui bordi di una malefica incapacità di essere all’altezza del proprio ruolo e di un’armare le pistole senza rendersene conto. I mandanti morali della morte di Youns el Boussettaoui (e di tanti altri come lui, morti magari senza pallottole ma semplicemente con i polmoni pieni d’acqua) sono quelli che poi si arrabattano e si arrotolano dicendoci che “era solo uno scherzo” senza cogliere l’immarcescimento dei valori. 

La sindaca di Voghera e i suoi assessori non sarebbero ritenuti degni di tenere un comportamento del genere nemmeno al bar e la loro funzione pubblica che usano come scudo è un’aggravante. Il problema non è “la Bestia” di Salvini: il problema sono le bestie che da Salvini in questi anni si sono sentite legittimate e che grazie a lui addirittura sono risultati eletti. E Voghera è il manifesto di parole che diventano pietre.

L’articolo proviene da TPI.it qui

La Felpa e la Bestia

Sarebbe una notizia di poco conto in un Paese in cui la politica si occupa di politica e solo dopo di comunicarla ma l’addio di Luca Morisi a Matteo Salvini è qualcosa che ha molto a che fare con i numeri, con la linea politica e con i voti. Come già successo con Casaleggio e il Movimento 5 Stelle (e prima ancora tra Casaleggio e l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro) lo staff della comunicazione è diventato il cuore pulsante dei partiti. Basta con questa stancante litania dei circoli, basta con la burocrazia delle assemblee: molti hanno pensato che avere le password dei social fosse il modo migliore (se non l’unico) per lavorare alla costruzione dell’identità di un partito e del suo leader e non è un caso che in molti casi tutto si possa comprimere in pochi caratteri.

Il ruolo di Morisi nella crescita di Salvini e della Lega

Eppure Morisi (come Casaleggio) ha dimostrato che a differenza di molti altri casi è possibile capitalizzare il seguito sui social in infornata di voti. I numeri sono impietosi: dal 2015 l’algoritmo governato da Morisi ha portato Salvini dai suoi 18 mila seguaci iniziali sui social a 4 milioni e mezzo di fans. Quando Morisi è approdato alla corte della Lega il partito era al 4 per cento ed è arrivato a toccare il 34,3 alle Europee del 2019. Un leghista della prima ora, sconosciuto consigliere provinciale dal 1993 al 1997, che ha tenuto in tasca la ricetta della pozione pubblicando il Capitano (soprannome coniato dallo stesso entusiastico Morisi) Salvini mentre addentava pane e nutella, che ha infervorato lo scontro deridendo i “sinistri”, che ha pasteggiato allegramente sulla xenofobia riuscendo addirittura a travestirla da legalità, che ha soffiato sulla “sicurezza” imbellettando la vendetta, che ha partorito l’idea del concorso Vinci Salvini e che ha banalizzato la politica a colpi di “invasioni” e di “risorse boldriniane”. Il tutto ovviamente condito da ingenti risorse: nel momento più alto lo staff della Bestia (che frugava tutti i giorni tra la spazzatura della cronaca nera per menare fendenti) contava circa 20 persone, uno stipendio di tutto rispetto per Morisi (65 mila euro all’anno) e per il suo socio Paganella (85 mila) mentre solo su Facebook solo negli ultimi due anni la Bestia spendeva 400 mila euro per dogare la viralità di un leader in evidente discesa. È molto più di un simbolo anche il fatto che la sede della Bestia fosse in via delle Botteghe Oscure a Roma, sede del sindacato Ugl (quello che teneva in mano l’ex sottosegretario Durigon) nonché storico indirizzo del Partito Comunista Italiano.

Morisi e il suo peso politico nella Lega

Le voci sull’addio si rincorrono e sono diverse ma basta ascoltarle per trarre una conclusione: c’è chi dice che Morisi abbia mollato perché, dice un esponete vicino a Salvini a Repubblica, «essendo una persona estremamente intelligente e sensibile Morisi ha capito che un ciclo era finito. E ne ha tratto le conseguenze», la stampa riporta una chat del Carroccio dove si scriveva che Matteo Salvini «viene consigliato male» rincorrendo Giorgia Meloni e non «la costruzione di un grande partito di centrodestra e mettendo in pericolo l’attrattiva del Carroccio presso il voto dei moderati. Per questo Morisi se ne è andato», Il Fatto Quotidiano parla di un’insofferenza di Morisi che sarebbe stato «sempre convintamente pro vaccini». Quasi tutti insomma riconoscono a Morisi e al suo staff un ruolo talmente politico da potersi permettere di essere in disaccordo con la linea del partito. Non è una buona notizia per i poveretti che nella Lega invece si tesserano illudendosi di avere così una voce in capitolo, se ci pensate. E non è nemmeno un buon sintomo per la politica.

L’addio di Morisi lascia sempre più solo Salvini

Per questo risuonano ancora più importanti le parole del presidente della Regione Veneto Luca Zaia che chiede di «tornare a parlare con le imprese e con la gente, ascoltare le loro paure, e seguire meno il sentiment dei social». Se, come credono alcuni deputati leghisti, il problema di Morisi sia stato quello di non essere riuscito a «convincere Salvini di adeguarsi al governismo» significa che un comunicatore ha avuto un’enorme idea di sé e del proprio potere all’interno di un partito politico. Anche questa non è una grande notizia, no.

Di certo Salvini da quella maledetta estate in cui ha fatto cadere il governo Conte I pensando (male) di potersene impossessare ha iniziato un declino che tra abbandoni di deputati e discesa nei sondaggi ha tutta l’aria di essere un dissanguamento difficilmente arrestabile. Sullo sfondo rimangono i nemici interni (a partire da Giorgetti e lo stesso Luca Zaia) che assistono con goduria lo sgretolamento. Morisi annuncia il suo addio nel pieno di una campagna per le amministrative che è tutt’altro che un trionfo. E prima o poi arriverà il tempo di un congresso (che in molti già dentro la Lega stanno chiedendo) e lì non basterà indovinare un tweet. Ancora di più senza Morisi. Poi magari un giorno rifletteremo su questo tempo in cui un Morisi (“non eletto da nessuno”, come piace dire proprio ai leghisti) si abbatte come una tempesta su un partito. Chi di Morisi ferisce di Morisi perisce.

L’articolo La Felpa e la Bestia proviene da Tag43.it.

A volte ritorna

Siamo passati dall’avere un governo con il centrosinistra e il M5s all’avere 2/3 di centrodestra al governo con figure apicali nei ministeri e tra i sottosegretari. E Salvini che si muove di nuovo da capo politico concedendo all’alleata Giorgia Meloni di avere mano libera nel bombardare dalla comoda posizione dell’opposizione

C’è in giro una barzelletta spassosissima eppure tragica, fomentata soprattutto dagli ultrà renziani, per cui nel “capolavoro” del governo Draghi rientrerebbe anche l’avere danneggiato o comunque tarpato Matteo Salvini e il suo partito. È la barzelletta di riserva che arriva subito dopo “il governo dei migliori”, un’altra enorme bugia che è stata utilizzata giusto il tempo di leggere con un certo affanno la lista dei ministri e soprattutto dei viceministri e soprattutto dei sottosegretari: non potendo più insistere sulla qualità dei componenti di governo, sarebbe stato troppo persino per loro, il nuovo messaggio da veicolare in massa è quello di un Salvini che uscirebbe “depotenziato” da questo governo per chissà quali strani alchimie. La politica però, per la fortuna di chi si ritrova a commentarla, è fatta di numeri e quegli stessi numeri dicono che (ma dai?) la Lega di Salvini in questi primi di giorni abbia già cominciato ad aumentare i consensi. Allora forse converrebbe fare qualche passo indietro, alla caduta del primo governo Conte, quando Salvini e i suoi fans imperversavano su tutti i giornali (e alle direzioni dei telegiornali) rimanendo al centro del dibattito praticamente su qualsiasi punto politico si sollevasse quotidianamente. Erano i tempi in cui sembrava praticamente impossibile riuscire ad abbattere il muro della Bestia leghista sui social network e in cui Salvini dettava l’agenda politica ad ogni passo, perfino pubblicando foto con l’ultimo piatto del suo ultimo pranzo. Forse converrebbe ripartire da quel periodo per rendersi conto che gli errori successivi del leader leghista, a partire dalle sue presuntuose follie nell’estate del Papeete, hanno permesso al Paese di uscire dal terrificante reality show in cui era caduto e di ripristinare perlomeno una discussione politica che fosse qualcosa di più alto dell’odio sparso contro i fragili, che fossero migranti o qualsiasi altra categoria.

Il secondo governo Conte in fondo nasce proprio con quella missione: Partito democratico, Leu e persino Renzi hanno accettato la mediazione di un governo che sicuramente non è mai stato il governo dei sogni per riuscire ad arginare una decadenza umanitaria e una tossicità del dibattito che ha partorito obbrobri giuridici (a partire dai cosiddetti decreti Sicurezza) che hanno riportato indietro il Paese di decenni. Ora, al di là delle speranze politiche che qualcuno può riporre nella figura di Mario Draghi nuovo presidente del Consiglio, è un fatto sotto gli occhi di tutti che non solo Salvini sia prepotentemente rientrato nella compagine di governo e quindi nell’alveo della visibilità che governare concede, ma che addirittura ci sia riuscito non rompendo l’alleanza di centrodestra di cui continua a proporsi come capo politico, per di più concedendo alla sua alleata Giorgia Meloni di avere mano libera nel bombardare il governo dalla comoda posizione dell’opposizione e quindi presumibilmente riuscendo anche a “mantenere” i malpancisti. Per questo…

L’articolo prosegue su Left del 5-11 marzo 2021

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Morto di pacchia. A 15 anni

Abou aveva 15 anni. Portava addosso sulla pelle le cicatrici delle torture subite in Libia. Era denutrito. Era disidratato. L’Open Arms l’aveva salvato nel Canale di Sicilia. È una storia ordinaria delle disperazioni in mezzo al Mediterraneo. Il 18 settembre viene trasbordato insieme ai suoi compagni nella nave “Allegra” per la quarantena. Racconta la sua tutrice assegnata dal tribunale dei minori, Alessandra Puccio, che il ragazzo non parlasse già più, fortemente debilitato: «Solo il 28 un medico se n’è accorto, ma era già troppo tardi. E da quel momento è stato un precipitarsi di eventi, fino alla sua morte, avvenuta oggi all’ospedale Ingrassia», racconta a Repubblica.

Il 28 settembre lo visitano, lo rivisitano anche il giorno successivo e il 30 settembre finalmente viene ricoverato in ospedale. È disidratato, non collabora, non parla. Il giorno dopo entra in coma, viene trasferito dal Cervello di Palermo all’Ingrassia. Il 5 ottobre Abou muore. Ora si muove la Procura per accertare eventuali responsabilità e omissioni di soccorso. C’è da capire come possa un quindicenne torturato rimanere su una nave in quelle condizioni e se gli siano state offerte tutte le cure necessarie.

Qualche giorno fa Matteo Salvini ospite della pessima trasmissione di Mario Giordano parlò dei migranti che vengono parcheggiati nelle navi quarantena usando queste esatte parole: «Giordano, ti stanno guardando da una delle 4 navi da crociera, i tremila immigrati clandestini che sono sbarcati e hanno vinto il biglietto premio di 4 navi da crociera a spese degli italiani è una cosa che mi fa imbestialire». Abou quindi probabilmente è morto “di crociera”, oppure è morto di pacchia.

Abou non aveva i genitori, è uno dei tanti minori non accompagnati che arriva sulle nostre coste. Abou è morto in un luogo in cui si riteneva al sicuro. Abou è morto nel giorno in cui il governo dichiarava di avere superato i decreti sicurezza, stando sempre sulla linea criminogena di chi salva le vite in mare. Sarebbe da raccontare a tutti la storia di Abou, per fare cadere una volta per tutte questa feroce narrazione che continua a trattare le disperazioni come se fossero un gioco.

Buon mercoledì.

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Calderoli che odiano le donne

Secondo l’autore del Porcellum i candidati maschi sarebbero favoriti alle elezioni perché “si accoppiano” di più. Lo ha detto in Senato, ricevendo gli applausi di Salvini

«Qualcuno dice che questo è fatto per favorire la parità di accesso. Ve lo dice un umile e modesto conoscitore della materia elettorale: chi la conosce sa che in collegi che hanno a disposizione un numero di candidature che va da due a sette, quindi piuttosto piccolo, la doppia preferenza di genere danneggia il sesso femminile, perché normalmente il maschio è maggiormente infedele della femmina, per cui accanto a una candidatura maschile…». Così il senatore della Lega Roberto Calderoli intervenendo in Aula al Senato durante la discussione generale sul dl per la doppia preferenza in Puglia.

«Il maschio solitamente si accoppia con quattro o cinque rappresentanti del gentil sesso, cosa che la donna solitamente non fa – dice ancora – Il risultato è che il maschio si porta i voti di quattro o cinque signore e le signore non vengono elette».

Mentre il senatore Calderoli pronunciava queste bestialità di fianco a lui il senatore Matteo Salvini applaudiva. Sì, applaudiva.

Ciò che sconvolge è che ogni giorno, da qualche parte, arriva la prova inconfutabile che questi:

  • odiano le donne;
  • ritengono le donne altro rispetto al proprio esser maschi;
  • ritengono la politica una pratica da cacciatori e furbi e non da amministrazione della cosa pubblica;
  • ritengono gli uomini valorosi per le loro infedeltà mentre le donne le immaginano ovviamente silenti e punite;
  • sono talmente sfacciati che dicono le cose che dicono in una seduta del Parlamento, con tanto di verbale scritto;
  • si danno di gomito quando parlano di donne come se fossero nei peggiori bar.

Ma una domanda mi agita da sempre: ma le donne come fanno a votarli? Ma le donne della Lega non hanno niente da dire ai Calderoli che odiano le donne?

Ah, a proposito: prima tocca agli stranieri, poi agli omosessuali, poi alle donne. Piano piano, vedrete, toccherà prima o poi anche a voi. Perché loro sono patrioti di un’unica patria: se stessi.

Buon venerdì.

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La Bestia di Salvini

Che sia stato lui o che sia merito del suo social manager Luca Morisi poco importa: il ministro dell’inferno Matteo Salvini ci ha messo poco a capire che la democrazia italiana si basa sulla popolarità come unico metro di giudizio e ha messo in campo tutte le armi che servono per raggiungerla il prima possibile.

Il meccanismo a ben vedere non è nemmeno così complesso: si sale alla ribalta nazionale con qualche filotto di sparate che ti rendano riconoscibile (non dimentichiamolo, Salvini divenne famoso a livello nazionale per avere proposto da consigliere comunale a Milano di istituire delle carrozze della metropolitana riservate agli extracomunitari, fu quello il momento in cui l’Italia scoprì Salvini), si sgomita nel proprio partito invocando il cambiamento (o la rottamazione, eh sì), si individua un nemico facile facile da offrire in pasto alla propria comunità per potersi cementare (prima erano i terroni, oggi sono gli extracomunitari, domani sarà l’Europa ma il giochetto è sempre lo stesso), si dipinge la propria crescita elettorale come inarrestabile e tendente alla maggioranza assoluta (anche questa l’avete già sentita, lo so, lo so), si detta l’agenda dei media trovando almeno una provocazione al giorno, si racconta di avere tutti i poteri forti contro risultando un salvatore e infine ci si preoccupa di governare la percezione fingendo di governare il Paese.

Dalla sua Salvini ha una caratteristica in più: ha capito che i social, usati con furbizia, diventano notizia, ancora di più in un Paese in cui i giornali troppo spesso si limitano a essere il megafono di tutto ciò che si è già letto in rete nel giorno prima.

Sulla gestione dei social ha raccontato benissimo la strategia salviniana Alessandro Orlowski, uno dei più influenti hacker italiani che da anni studia campagne virali in rete: «La Lega ha lavorato molto bene – dice in una sua intervista a Rolling stone – durante l’ultima campagna elettorale. Ha creato un sistema che controlla le reti social di Salvini e analizza quali sono i post e i tweet che ottengono i migliori risultati, e che tipo di persone hanno interagito. In questo modo possono modificare la loro strategia attraverso la propaganda. Un esempio: pubblicano un post su Facebook in cui si parla di immigrazione, e il maggior numero di commenti è “i migranti ci tolgono il lavoro”? Il successivo post rafforzerà questa paura. I dirigenti leghisti hanno chiamato questo software La Bestia».

In realtà non c’è nessuna comunicazione: si tratta di cogliere i sentimenti degli elettori (più facilmente i più feroci, i peggiori e meno controllabili) e solleticarli allo sfinimento per spremere voti. Niente di nuovo, verrebbe da dire, se non fosse che ciò che prima era affidato al fiuto dei consulenti oggi può essere perfettamente quantificato da una serie di algoritmi. Così oggi Salvini può prevedere esattamente quale sarà la reazione alla sua prossima dichiarazione semplicemente perché se l’è fatta scrivere direttamente dai suoi seguaci. Se un giorno si spanderà un’incontrollabile paura per i ragni probabilmente vedremo il ministro dell’Interno impugnare una scopa di saggina per spiaccicarne qualcuno sul muro.

Ma c’è un aspetto che forse sfugge: governare sulla popolarità significa avere fondamenta cedevolissime pronte a sbriciolarsi alla prossima percezione più potente o alla prima paura ritenuta vicina al potente di turno. È successo così con Berlusconi prima e con Renzi poi: basta raccontarli vicini (che sia vero o no poco importa) ai prossimi presunti invasori per spostarli dal cassetto degli eroi a quello dei servi.

La picchiata solitamente è veloce e inarrestabile.

L’editoriale di Giulio Cavalli è tratto da Left in edicola dal 14 settembre 2018


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