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Cosa non cura il vaccino

Bisogna curare le disuguaglianze sociali, la frattura che si è creata in questa pandemia che ha reso i poveri ancora più poveri, i precari ancora più precari, gli sfruttati ancora più sfruttati. Il vaccino va fatto ma c’è molta altra strada da percorrere

Con una gran fanfara è arrivato il vaccino. Sono solo le prime dosi, quelle che il commissario Arcuri definisce “simboliche”, ma non si può non riconoscere la portata storica del momento. Dopo nemmeno un anno dall’inizio della pandemia la scienza ha trovato il primo argine per combattere il virus. Non sarà facile, non sarà breve: c’è un’enorme mole di organizzazione e di lavoro qui dove troppo spesso l’organizzazione del lavoro è risultata deficitaria, c’è un progetto culturale per iniettare credibilità insieme al vaccino che non può essere sminuito a una semplice battaglia tra favorevoli al vaccino (che quegli altri chiamano “pecore” e “servi”) e contrari al vaccino (che quegli altri chiamano “ignoranti” e “irresponsabili”). Bisogna non cedere all’errore (in cui siamo già incorsi) di credere che sia già tutto risolto, tutto finito: ci vorranno mesi, se tutto andrà bene, per raggiungere l’immunità di gregge necessaria a un presumibile ritorno a una parvente normalità. Ci salva la scienza, ci salvano quelli che per anni hanno messo la testa sui libri e si sono dedicati allo studio, ci salvano le competenze. Segnatevelo.

Il vaccino però non cura le disuguaglianze sociali, quelle no. Non cura la frattura ancora più larga che si è creata in questi mesi di pandemia, in Italia e nel mondo, e che ha reso ancora più poveri i poveri, ancora più precari i precari, ancora più sfruttati gli sfruttati, ancora più abbandonati gli abbandonati, ancora più soli i soli. E nella fetta di nuovi poveri ci sono finite famiglie che fino allo scorso febbraio pensavano di avere davanti una vita almeno tranquilla, un futuro almeno immaginabile e ora non hanno più immaginazione.

Il vaccino non cura il sistema sanitario nazionale, quello che ha ceduto troppe volte sotto i colpi di una cronica carenza di mezzi e di persone e che ha fatto scontare le sue falle mica solo ai malati di Covid ma anche a tutti quei malati che non hanno trovato più lo spazio di cui hanno diritto per essere curati. Il vaccino non cura nemmeno la privatizzazione sfrenata. No, non cura.

Il vaccino non cura le serrande abbassate, le partite iva con l’acqua alla gola, le imprese che non ce la faranno a fingersi salvate e vaccinate.

Il vaccino non cura l’odio sociale, fomentato anche in tempi di pandemia, appuntito dalla paura crescente, quello che si è riversato sui soliti disperati che tornano sempre buoni per essere obiettivi fin troppo facili. La disperazione non si sconfigge portando pacchi a Natale.

Il vaccino non cura la risibilità delle politiche ambientali, la pandemia che non vediamo e che non vogliamo vedere e che costerà (sta già costando) molto più di un Coronavirus e che non si risolve trovando una buona fiala ma che ha bisogno di soluzioni strutturate, di pensieri complessi, di visioni strutturate.

Il vaccino non cura il disagio psicologico che è sceso come una mannaia e che rende più difficile una situazione già difficile. Non cura la disperanza, non cura l’afflizione, non cura gli scogli che non si riescono a superare.

Il vaccino non cura l’impianto economico che arricchisce pochi, sfrutta molti e tutela troppo poco.

Il vaccino non cura dall’avere una classe dirigente spesso imbarazzante, quasi mai all’altezza, troppe volte incapace di leggere la realtà.

Il vaccino non cura dalle macerie che vanno ricostruite, seriamente e in fretta.

Il vaccino va fatto, va distribuito ma c’è molta altra strada da percorrere: discutere della “normalità” a cui si vuole tornare è uno dei momenti più delicati e importanti di tutti questi ultimi anni. La scienza è stata all’altezza, il resto è tutto da vedere.

Buon lunedì.

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Il Natale di Salvini

Nella bieca rincorsa a ritagliarsi un posto al sole per ottenere un po’ di visibilità e per andare “contro” al governo Matteo Salvini si è inventato un’altra delle sue invitando tutti a disubbidire alla zona rossa natalizia: “tutti fuori a fare volontariato”, dice Salvini, nel tentativo di incastrare con i buoni sentimenti la sua fregola di essere irresponsabile.

Peccato che la frase, nonostante possa fare breccia tra i suoi fan, non significhi assolutamente nulla, che sia assolutamente priva di senso e sia in netto contrasto con il suo modo di agire, di pensare e di parlare. “Fare volontariato” è una cosa terribilmente seria che non ha nulla a che vedere con il farsi foto insieme a qualche senza tetto. Fare volontariato significa impiegare il proprio tempo e il proprio ruolo in attività organizzate che garantiscano la dignità, se non il benessere, delle persone in difficoltà. Fare volontariato ad esempio significa anche riconoscere la povertà, vederla, conoscerla, abitarla: l’esatto opposto di quello che fece il vicesindaco di Trieste Paolo Polidori quando dichiarò di avere buttato via le coperte dei senzatetto “con soddisfazione” (disse proprio così), l’esatto opposto di quello che fece l’assessora leghista di Como che tolse la coperta a un senza tetto pubblicando tutta fiera il video su Facebook (lì a Como dove nel 2017 venne vietato proprio dalla Lega di dare un latte caldo proprio ai clochard).

Se invece vogliamo rimanere su Salvini allora sarebbe da capire come intenda il volontariato se proprio i suoi senatori hanno acceso una gazzarra in Parlamento mentre si archiviavano quegli orrendi decreti sicurezza dell’ex ministro.

Se Salvini vuole fare volontariato allora potrebbe benissimo ascoltare volontariamente i racconti dei pescatori da poco liberati in Libia che raccontano come quella detenzione fosse al di fuori di qualsiasi diritto umano. Proprio quella Libia che Salvini ritiene “un porto sicuro” in cui ammassare tutti i senza tetto del mondo che provano a trovarlo, un tetto.

Oppure potrebbe ammettere che anche la bontà in fondo per lui è solo un feticcio da sventolare alla bisogna. E potrebbe riconoscere che con questa sua uscita da finto filantropo fa sanguinare le orecchie per la contraddizione che contiene. Perché i buonisti sono naturalmente molto aperti ma non sopportano le minchiate.

Buon lunedì.

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“Vaccino? Un lombardo vale più di un laziale”: l’eurodeputato Ciocca e l’infinito odio della Lega

Centinaia di magliette, migliaia di manifesti, quintali di retorica: la Lega di Salvini che vorrebbe diventare “nazionale” ha usato tutti gli strumenti possibili in questi ultimi anni per convincerci che la sua matrice padana fosse solo un lontano ricordo, che fosse diventato un movimento interessato alle esigenze di tutti, che davvero fosse distante il ricordo di Bossi (e Salvini stesso) che se la prendevano con i terroni scansafatiche e con i romani ladroni.

Poi basta lasciarli parlare un po’, aspettare solo che mollino la frizione e alla fine il loro pensiero viene fuori e ritorna, mostruoso, disuguale e razzista come sempre, senza che sia cambiata una virgola. A cadere nella trappola questa volta ci pensa Angelo Ciocca, uno di quelli che più di una volta ha faticato nel tenersi a freno e uno di quelli che sa bene come funzioni nella Lega: dire una boiata, spararla grossa, è il modo migliore per farsi notare dai propri seguaci e mal che vada si finge di porgere delle tiepide scuse oppure si dichiara di essere fraintesi.

Dice Ciocca, eurodeputato della Lega, che “se si ammala un lombardo vale di più che se si ammala una persona di un’altra parte d’Italia” e quindi che bisogna vaccinare in base all’importanza economica del territorio. Niente vaccino quindi per chi non fattura, non produce e non torna utile alla produttività. La dichiarazione del resto non è molto distante da ciò che ha detto Guzzini di Confindustria Macerata qualche giorno fa, poi fortunatamente dimessosi per la pessima figuraccia per la frase sugli “affari che devono andare avanti e se muore qualcuno, pazienza”.

Ciocca, vale la pena ricordarlo, è lo stesso che a ottobre disse che il Covid era più diffuso in Francia e in Spagna “perché noi italiani siamo più puliti” e perché “abbiamo il bidet”. Il punto è che la Lega continua a contenere nella pancia quel germe del razzismo che quando non riesce a puntare verso gli stranieri devia inevitabilmente nella suddivisione fra gli italiani. È sempre così: a forza di odiare diventano tutti potenzialmente odiabili, è solo questione di tempo.

Ma la sensazione peggiore, quella che intossica questo tempo, è che in fondo Ciocca sia solo stato talmente ingenuo da avere detto ciò che in molti pensano. Sarebbe curioso sapere quanto quel suo ragionamento sia popolare tra pezzi di classe dirigente che al contrario di Ciocca hanno semplicemente la furbizia di non dire ma forse condizionano il proprio fare.

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I pieni poteri

Bisogna discutere con molta pacatezza ma anche con molto rigore su come Giuseppe Conte vuole gestire i soldi del Recovery Fund

Ok, ci siamo arrabbiati moltissimo quando Salvini, l’estate scorsa, ha chiesto pieni poteri, ve lo ricordate?, per gestire la sua emergenza immaginaria. I pieni poteri sono antipatici e ostici alla democrazia da qualsiasi parte provengano e la democrazia parlamentare è qualcosa da preservare con cura, qualcosa che deve essere difesa da un atteggiamento, al di là di chi sia la causa. Per dirsela tutto: a noi danno fastidio quelli che chiedono pieni poteri, non è un problema o no di Salvini.

E allora bisogna discutere con molta pacatezza ma anche con molto rigore del fatto che Giuseppe Conte insista da tempo nel gestire i soldi del Recovery Fund (e sono parecchi soldi) con un piano di cui addirittura alcuni ministri si dichiarano all’oscuro. E già questa è una mostruosità che andrebbe spiegata, punto per punto.

Ma non è tutto: decidere di assumere un potere assoluto e discrezionale facendo leva sull’ennesima task force costituita semplicemente per nomina (senza concorso pubblico come avviene per i funzionari e senza voto come avviene per i politici) è uno scavalcamento che non porta nulla di buono. A chi rispondono quelli? A Conte? No, mi spiace, no. Ci può andare bene pensare di avere evitato pessimi politici per questa pessima pandemia ma la regola del meno peggio scivola sempre al peggio, sempre, e che ci siano tecnici che non rispondano al regolamento pubblico e nemmeno agli elettori non è accettabile, no.

Ci siamo incazzati con quello per la richiesta di pieni poteri e non è il caso, no, di accettare nemmeno la richiesta di troppi poteri di questo che risulta più garbato e elegante. Non è una questione di partiti, no, è una questione di funzionamento di democrazia. Anche se in questo caso ci tocca essere d’accordo con quelli con cui siamo in disaccordo su tutto.

Buon mercoledì.

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Ricchi che vorrebbero insegnare la povertà

Si è aperto il can can sulla patrimoniale. Da noi succede sempre così, quando si parla di uguaglianza e di ridistribuzione si fotografano tutti con la mano sul cuore e gli occhi stretti e dolci poi appena capiscono che ridistribuire significa tassare i ricchi si accende uno strano meccanismo: i ricchi convincono anche quelli che non sono ricchi di essere lì lì a un passo di diventarlo, i ricchi giocano a dipingere il loro mondo fatto solo di ricchi e così si alza una levata di scudi che fa spavento.

Si oppone la destra. Diciamocelo, ci sta. La destra difende la conservazione dei privilegi acquisiti negli anni ed è da sempre dalla parte dei ricchi, anzi la destra in Italia è stata per decenni un ricco evasore che incarna il sogno americano in versione panata milanese. Si oppone la presunta sinistra o meglio centrocentrocentrocentrosinistra. Ci sta anche questo: sono di destra sotto mentite spoglie da parecchio tempo ed è normale che la pensino così. Si oppongono quelli che non sono “né di destra né di sinistra” (che scientificamente sono sempre di destra): loro vogliono combattere la povertà senza disturbare nessuno, non hanno ancora capito che non è fattibile e che i diritti in economia sono un punto di equilibrio.

La favola che usano gli oppositori è che in fondo ognuno di noi, frugandosi nelle tasche e guardando bene nei cassetti, abbia un patrimonio di 500mila euro senza nemmeno saperlo. Fortissima la barzelletta delle case: “chi di voi non ha una casa o non ne ha ereditato una che vale almeno 500mila euro”? Peccato che qui si stia parlando di valore catastale dell’immobile e non di valore commerciale. Questo lo omettono. E bisogna dirlo a tutti, per bene, spiegarlo con attenzione. Badate: se qualcuno ha immobili per 500mila euro di valore catastale ha sicuramente lo 0,2% (1000 euro, eh, stiamo parlando di 1000 euro) per superare le disuguaglianze del Paese in cui vive. A proposito: il patrimonio è personale, ricordarselo bene.

Il fatto è che a furia di parlare molto confusamente di “tasse” (che sono il mezzo per ridistribuire la ricchezza) anche certa sinistra si è persa il vocabolario ed è finita a parlare come quegli altri. Notate bene: quelli che si oppongono alla patrimoniale sono gli stessi che tasserebbero di più i dipendenti pubblici, che tasserebbero di più lo smart working perché lo definiscono fin troppo comodo, sono gli stessi che dicono che non vanno tassati i ricchi.

Chi guadagna di più deve pagare di più? La domanda semplice semplice è questa. A ognuno la sua risposta. Ma che i ricchi ci insegnino la povertà è qualcosa di ferocemente patetico. Un po’ come quelli di destra che dicono alla sinistra come deve fare la sinistra. Una cosa così.

Buon martedì.

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Fratoianni a TPI: “Una patrimoniale per combattere le disuguaglianze. Altro che mazzata, così il ceto medio risparmia”

In un emendamento alla Legge di Bilancio firmato da deputati di Leu e del Pd si chiede l’abolizione dell’Imu e dell’imposta di bollo sui conti correnti e di deposito titoli, per sostituirle con un’aliquota progressiva minima dello 0,2% “sui grandi patrimoni la cui base imponibile è costituita da una ricchezza netta superiore a 500 mila euro”. I primi firmatari sono Nicola Fratoianni, che fa parte della componente di Sinistra Italiana in Leu, e Matteo Orfini, della minoranza Pd. Le opposizioni insorgono ma anche nella maggioranza in molti storcono il naso. Per TPI abbiamo intervistato Nicola Fratoianni.

Onorevole Fratoianni, sulla cosiddetta “patrimoniale” si sono sollevate subito le reazioni. Se le aspettava?
“Reazioni peraltro un po’ scontate. Come ha osservato più di qualcuno ‘patrimoniale’ è parola impronunciabile nella scena politica italiana. Tutto contro ogni ragionevolezza e perfino contro le idee di molti supermiliardari: Forbes nel luglio di quest’anno ha pubblicato la lettera di 83 miliardari che chiedono ai loro Paesi di introdurre tassazioni stabili e significative sulle loro grandi ricchezze. Tutto sulla base di un argomento molto chiaro e molto semplice: noi non possiamo fare chissà cosa ma abbiamo molti soldi e quei soldi possono risolvere molti problemi, non solo le emergenze drammatiche di questa fase della pandemia ma anche le crescenti disuguaglianze che costituiscono un problema non solo per chi le subisce ma anche per chi ha grandi ricchezze”.

Qualcuno dice che fissare un limite di 500mila euro è un azzardo. “Basta avere ereditato una casa in una grande città”, si legge in giro. Come risponde?
“Non è così. Non ne faccio colpa ai cittadini che non conoscono la norma. Primo: riguardo la questione immobiliare che viene usata contro questa norma occorre non confondere il valore commerciale con il valore catastale dell’abitazione. La nostra proposta, come tutte quelle che intervengono sulle questioni patrimoniali, si riferisce al valore catastale, quindi a chi dice che in alcune città il valore al metro quadro supera i 3mila euro basta rispondere spiegando questo punto. Se qualcuno ha una casa con un valore catastale superiore ai 500mila euro è difficile che abbia particolari difficoltà. In ogni caso le nostra proposte sono progressive, partendo dallo 0,2% da 500mila a 1 milione di euro e poi via via crescendo fino ad arrivare al 3% per patrimoni superiori al miliardo di euro. E poi ci si riferisce a persone fisiche, per cui se marito e moglie sono comproprietari di una casa quel valore si divide”.

E il secondo punto?
“Secondo: oltre a introdurre aliquote progressive, facciamo l’operazione di riordino di quella giungla di micro interventi patrimoniali, come l’Imu anche sulla seconda casa e la famosa imposta Monti (lo 0,2% sui depositi finanziari e sui titoli che non era progressivo). Quindi il ceto medio – ammesso che esista ancora – potrebbe perfino risparmiare”.

L’hanno stupita le reazioni all’interno del Partito Democratico, Zingaretti incluso?
“Sono molto contento che diversi parlamentari del PD abbiano appoggiato questa proposta, ma non mi stupisce la reazione complessiva del PD come quella del Movimento 5 Stelle. Questo è un momento in cui c’è una subalternità culturale sul tema delle tasse e dei patrimoni e sulla disuguale distribuzione della ricchezza. Il mantra ripetuto in ogni occasione è che le tasse sono troppe e vanno abbassate ma le tasse non sono troppe in sé: sono troppe su chi le paga e sono poche sulle grandissime ricchezze. Sono distribuite in modo diseguale. Faccio osservare che nei decenni la tassazione sui redditi ha conosciuto una brusca contrazione delle aliquote diminuendo la progressività. Questo significa favorire i redditi altissimi e penalizzare quelli più bassi. Bisogna proteggere i piccoli patrimoni e chi ha acquistato una casa dopo anni di lavoro o chi ha ereditato una casa (non certo a Roma o a Milano) che ha uno scarso valore commerciale e pesa sullo stipendio. Bisogna uscire da questa stagione di subalternità culturale: se uno usa sempre le parole dell’avversario è difficile poi sconfiggere il suo racconto pubblico”.

Nel pieno della pandemia è un buon momento per affrontare questo tema?
“Il momento buono è da molto tempo, oggi ancora di più. La pandemia ha messo in risalto la fragilità di un sistema di organizzare il lavoro, le vite, l’economia e del nostro welfare. Ha disvelato l’imbroglio del primato della privatizzazione nella tutela della salute. E la pandemia, come ogni grande crisi, ha evidenziato l’aumento della disuguaglianza: c’è chi ha visto crescere ancora e significativamente i propri patrimoni e chi si è trovato in difficoltà. Quindi questo è il momento della discontinuità nelle scelte e nel linguaggio per immaginare un mondo diverso da quello a cui siamo abituati, che spesso ci è stato presentato come l’unico mondo possibile”.

Sui giornali e sulle televisione la proposta è diventata “la proposta di Orfini”…
“Va benissimo così. Sono il primo firmatario ma non ho problemi di primogenitura, mi interessa aprire una discussione”.

Leggi anche: Il linguaggio dei banchieri centrali: come è cambiato negli anni e quanto è capace di influenzare i mercati

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Fermate Fontana che vuole revocare la zona rossa alla Lombardia

Niente, non ce la fa il presidente della Lombardia Attilio Fontana a occuparsi dell’amministrazione della sua regione e alla risoluzione dei moltissimi problemi che affliggono la Lombardia. Non riesce ad occuparsi dei tamponi che continuano a essere pochi, non riesce a garantire sicurezza alla popolazione degli ospedali e delle RSA, non riesce a snellire i trasporti pubblici ma continua imperterrito nella sua personale guerra contro il governo in nome della propaganda per fare felice il suo padrone Salvini.

Così ora Fontana preme sull’uscita dalla zona rossa, come primo atto politico, lì dove ieri sono stati accertati 8.448 casi con solo 38.283 tamponi, con i decessi arrivati a 202 in un solo giorno. Con dei numeri così, la preoccupazione di Fontana è solo quella di fare sapere ai suoi cittadini che se fosse per lui aprirebbe un po’, diventerebbe almeno arancione, tanto per potere dare contro al governo nazionale.

“Diciamo che siamo arrivati in cima al plateau, a questa sorta di montagna, adesso siamo in una fase in cui camminiamo in pianura e presto inizierà la discesa”, ha dichiarato Fontana ospite di Mattino 5, ostentando un felicità un po’ fuori luogo di fronte ai numeri che continuano a salire. Ma lui ha insistito: “Il nostro Rt è sceso in maniera sostanziale, tanto che in base ai numeri noi rientreremmo oggi in una zona arancione”, ha detto con la sua faccia da sorniona.

Fa niente che da molte provincie lombarde continuino ad arrivare numeri spaventosi e che il tracciamento ormai sia completamente saltato. No, per Fontana, che sa bene che proprio anche a causa del tracciamento la sua regione si ritrova in zona rossa, “nel momento in cui si superano certi numeri è praticamente impossibile”. Capito? Se qualcosa è impossibile perché non sono stati assunti i tracciatori e perché i numeri ormai sono esplosi secondo il presidente di Regione Lombardia allora di quel dato non bisogna tenere conto.

Sembra di riascoltare le parole di Salvini quando urlava in diretta Facebook “aprite, riaprite tutto!”, solo che questa volta Attilio Fontana ha sulle spalle (e politicamente ha tutta la responsabilità) delle migliaia di contagiati e di morti. Ma la chicca è un’altra: “l’altro aspetto che noi riteniamo fondamentale – ha aggiunto Fontana – è che non si debba guardare ai dati di 15 giorni fa ma si deve fare una previsione di quelli che verranno in futuro”. In sostanza il presidente di Regione Lombardia ci dice che tutto in futuro potrebbe migliorare e quindi sarebbe il caso, ovviamente adesso subito, di aprire. Sbagliare è umano, perseverare è diabolico.

Leggi anche: 1. Nonostante le figuracce, Zangrillo dà voti agli altri medici. Ma è lui che andrebbe giudicato (di G. Cavalli) /2. La vergogna del San Raffaele di Milano: con centinaia di morti al giorno sminuisce la pandemia /3. Sanità in Lombardia, minacce di morte all’ex dg Luigi Cajazzo. Pizzul (Pd) esprime solidarietà

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Fontana bifronte

Prima ribadisce che il lockdown è competenza del governo. Poi si lamenta della zona rossa istituita da Palazzo Chigi. È molto confuso, il presidente della Regione Lombardia

Fontana guida la schiera di presidenti di Regione che se la prendono con il governo per le misure adottate, considerate troppo severe. Bello fare il presidente di Regione in Italia se si è di un colore politico diverso rispetto al governo: si urla per giorni “non decidono! non decidono!” e poi quando decidono ci si lamenta che hanno deciso. Tanto a loro cosa interessa, gli basta fare un po’ di caciara, c’è sempre un potere superiore su cui scaricare le responsabilità.

Fontana dice che va tutto bene.

Fontana dice che va bene anche se ormai il tracciamento è completamente saltato.

Fontana dice che va bene anche se in Lombardia il dato dei positivi sulla base dei tamponi eseguiti è pari al 26,6%. In aumento costante.

Fontana dice che va bene anche se ci sono 1.075 letti di Terapia intensiva, il tasso di occupazione è del 40%. La soglia di criticità è identificata al 30%. Il tasso di occupazione dei posti letto per i ricoveri ordinari è al 37%, al limite della soglia critica fissata al 40%.

Fontana diceva che bisognava chiudere, e che la competenza di farlo spetta al governo, e adesso dice che tutto va bene.

Fontana ha scritto una lettera a medici e infermieri in cui scrive: «Mi rivolgo a voi, un nemico invisibile è tornato a condizionare le nostre vite, ad esercitare pressioni sui nostri ospedali. […] Oggi dobbiamo lavorare insieme e rapidamente per piegare la curva epidemiologica e più di ieri siamo nelle vostre mani». «A voi – continua Fontana -, cui noi rimettiamo la difesa della vita, faccio appello per continuare questa lotta».

Fontana ieri ai giornalisti: «Non riusciremo per ora a chiedere alcun allentamento delle misure decise dal Dpcm».

È molto confuso, Fontana. Esattamente Fontana come la pensa?

Buon venerdì.

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La stagione dei No

La schizofrenia dei messaggi in questa emergenza pandemia è causata anche dalla peggiore opposizione possibile, quella che sul no basa la propria retorica

La pandemia, tra i suoi mille malanni, si porta dietro anche la lente di ingrandimento sulla schizofrenia di una classe dirigente che non riesce a confrontarsi elaborando una proposta. Non è una roba da poco perché la schizofrenia dei messaggi è causata sicuramente da un certo lassivo comportamento da certe stanze di palazzo Chigi (quelle che fanno uscire le anticipazioni per vedere l’effetto che fa) ma anche dalla peggiore opposizione possibile, quella che sul no basa la propria retorica.

Basta solo qualche esempio per rendersene conto?

Scuole aperte? Quelli dicono che le scuole sono pericolose e che non manderanno a scuola i propri figli.

Scuole chiuse? Quelli, sempre gli stessi, dicono che chiudere le scuole è una sconfitta.

Ristoranti aperti? Quelli dicono che bisogna evitare i contagi.

Ristoranti chiusi? Quelli, sempre gli stessi, dicono che i ristoratori sono allo stremo.

Teatri aperti? Quelli dicono che la cultura non è indispensabile e si deve fermare.

Teatri chiusi? Quelli, guardate che sono sempre gli stessi, dicono che il mondo della cultura muore.

Decide il governo? Quelli gridano alla dittatura.

Il governo fa decidere alle regioni? Quelli stessi della dittatura dicono che il governo non vuole prendersi le sue responsabilità.

Diminuiscono i contagi? Il virus non esiste più.

Aumentano i contagi? Il virus è stato sottovalutato, dicono quelli per cui non esisteva più.

Il governo non coinvolge le opposizioni? Ecco, non ci chiedono mai, dicono.

Il governo coinvolge le opposizioni? Troppo tardi, dicono.

È lo spessore della politica a cui assistiamo. Ogni giorno, tutti i giorni. Mentre sale la paura e mentre servirebbero decisioni convinte e tempestive. E, sia chiaro, questo senza nulla togliere alle responsabilità del governo. Ma così diventa davvero tutto difficile. Tutto.

Buon lunedì.

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Poi però non vi meravigliate se la gente comune impoverita scende in strada a protestare

Sì, è vero, da anni alcuni gruppi organizzati, che siano criminalità organizzata o estremisti politici e frange violente, sfruttano il disagio sociale per esercitare violenza e per sfruttare il malcontento. Alcuni sono semplicemente criminali che tentano di travestirsi da scontenti e che si infilano nelle manifestazioni degli altri. Le indagini ci diranno cosa è accaduto a Napoli, a Milano, a Lecce, a Trieste, in un’ondata di manifestazioni che ha attraversato tutta l’Italia.

Ed è vetro anche che non erano sicuramente commercianti preoccupati quelli che hanno devastato le vetrine (di altri commercianti) semplicemente per mettere in atto un furto con scasso. Però bisogna stare attenti, molto attenti, a non perdere l’equilibrio nelle situazioni difficili (e sarà sempre più difficile, vedendo i numeri) e cadere nel giochetto di criminalizzare per non analizzare, di bollare per non discutere perché insieme alla violenza di alcuni ci sono anche le manifestazioni pacifiche che stanno spuntando in tutto il Paese.

Manifestazioni che non finiscono sui giornali perché (per fortuna) non si distinguono per ferocia e sfregio delle regole ma che in questi giorni (solo ieri ne sono state fatte nel pomeriggio due a Milano) stanno raccontando tutto il disagio di intere categorie che si ritrovano sull’orlo del baratro.

È un esercizio di equilibrio e di misura delle parole, certo, ma in fondo è il compito primario della politica e del giornalismo quello di raccontare un Paese senza appiattirlo sulla rappresentazione più comoda. Questa seconda ondata di pandemia rischia di mettere fine a molte piccole attività imprenditoriali che non hanno la disponibilità di superare nuove chiusure senza un aiuto veloce e consistente dello Stato.

Anche le statistiche ci dicono che l’Italia, già povera, continua a impoverirsi durante la pandemia e le disuguaglianze si fanno ogni giorno più spiccate. Sarebbe un errore enorme mischiare quel disagio, un disagio vero, fatto di paura mischiata all’indigenza e mischiata alla mancanza di prospettive future, con quello che invece accade a causa di violenti e di rimestatori. Ed è anche una narrazione tossica che aggraverebbe ancora di più la sensazione di “non esistere” di chi non si vede riconosciuto dallo Stato. Se la tutela della salute impone il blocco, la sussistenza diventa un problema politico evidente e urgente, che non si può nascondere sotto il tappeto dei violenti.

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