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Renzi d’Arabia

Nel mezzo della crisi di governo, il leader di Italia viva è volato a Riad per una conferenza del Fii institute controllato dalla famiglia reale. Pagato da un regime che viola i diritti umani

Dunque il curioso giornalista del quotidiano Domani, Emiliano Fittipaldi, ha scoperto che il prode Matteo Renzi, colui che ha provocato questa crisi di governo in piena pandemia, ha dovuto fare in fretta le valigie per tornare in Italia mentre se ne stava pasciuto in Arabia Saudita, a Riad, per il Fii events, organizzato dall’omonimo istituto voluto dalla famiglia reale, guidata dal re Salman e dal principe ereditario Mohammed bin Salman (detto MbS), leader incontrastato del Paese.

Renzi non era un semplice ospite e nemmeno un banale conferenziere come gli altri 150: il leader di Italia viva (che frequenta i sauditi dal 2017) siede nell’advisory board dell’Fii institute che si occupa di intelligenza artificiale, robotica e cybersicurezza per dare consigli «su come usare la cultura nelle città, che è un possibile driver del cambiamento del Paese mediorentale».

All’uscita della notizia gli scherani di Matteo sono subito accorsi per spiegarci come non ci sia nulla di male se un leader di un partito nazionale, senatore pagato con i soldi degli italiani, nel giorno della crisi che lui stesso ha scatenato (anche se ostinatamente insiste a negarlo come un Fontana qualsiasi), colui che ha accusato Conte di essere “un pericolo per la democrazia” sia pagato (si dice circa 80mila euro all’anno) da un regime che applica la Sharia nella sua forma più rigida, ossia dai governanti di un luogo dove le donne vengono discriminate più che in ogni altro posto al mondo, quella stessa Arabia Saudita che da anni sta devastando lo Yemen uccidendo civili (bambini inclusi) e bombardando ospedali, quella stessa Arabia Saudita che arresta e condanna giornalisti e attivisti e intellettuali per avere espresso delle libere opinioni, quella stessa Arabia Saudita che arbitrariamente ha arrestato i difensori dei diritti delle donne, quella stessa Arabia Saudita che ogni anno emette condanne a morte (anche tramite decapitazioni), quella stessa Arabia Saudita in cui Raif Badawi è stato condannato a 1.000 frustate e 10 anni di carcere semplicemente per aver scritto un blog, quella stessa Arabia Saudita in cui la tortura viene utilizzata come legittimo strumento punitivo, quella stessa Arabia Saudita in cui la discriminazione religiosa della minoranza sciita avviene alla luce del sole, quella stessa Arabia Saudita in cui è stato fatto pezzi il giornalista del Washington post Jamal Khashoggi.

Tutto bene, insomma. Anzi qualcuno ci dice che non essendoci nulla di illegale non se ne dovrebbe nemmeno parlare. Del resto la questione morale, dalle nostre parti, sembra contare ormai molto poco. Quando un anno fa Corrado Formigli gli chiese (dopo che un altro pezzo del Financial Times aveva segnalato la sua partecipazione a un meeting in Arabia) se da «senatore italiano» si ponesse «il problema etico quando tiene conferenze in Paesi che violano i diritti umani come l’Arabia Saudita», Renzi rispose sereno che non c’era alcun conflitto di interesse e che sarebbe sorto solo se lui avesse «fatto parte del governo come ministro o premier». Bei tempi quando in Italia si chiedeva la decadenza della cittadinanza italiana a Sandro Gozi in quanto consulente di Macron.

Intanto qui c’è una crisi di governo da sistemare. Che impiccio, per mister Renzi.

Buon mercoledì.

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La ‘ndrangheta, appunto

Vogliamo occuparci di mafie, mica solo in Calabria? Vogliamo che ritornino nell’agenda della politica? O si aspettano sempre gli arresti, sempre

Si è riusciti a parlare per giorni, settimane, di Calabria senza mai pronunciarla. Non so se avete notato ma le mafie sono scomparse dal dibattito pubblico come se fossero qualcosa di non rilevante in tempo di pandemia (mentre per loro è un momento ghiottissimo) e ora se ne torna a parlare a bomba per l’arresto del presidente del Consiglio regionale calabrese Domenico Tallini, per gli amici Mimmo.

Ora sarà il processo a decidere, noi siamo e restiamo garantisti, ma la parabola di Tallini è interessante perché stiamo parlando di uno che era finito nell’elenco degli impresentabili formulato dalla Commissione antimafia guidata da Nicola Morra. Proprio Morra aveva messo in guardia la presidente Jole Santelli nell’affidare compiti di responsabilità a chi era rinviato a giudizio per diversi profili di corruzione. L’hanno nominato presidente del Consiglio regionale, per dire.

Parliamo di un politico che è sulla scena da 40 anni (a proposito del rinnovamento sempre professato e mai praticato) che esce dalle grinfie del vecchio Udeur e si ricicla, come molti altri, in Forza Italia. Le accuse raccontano che «in qualità di assessore regionale fino al 2014 e quindi candidato alle elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale del 2014, e successivamente quale consigliere regionale», Tallini «forniva un contributo concreto, specifico e volontario per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione», si legge nell’ordinanza che ha portato all’arresto del presidente del Consiglio regionale. «In cambio del sostegno elettorale promesso ed attuato da parte del sodalizio», secondo l’accusa il politico di Forza Italia ha garantito alla cosca «le condizioni per l’avvio prima e l’effettivo esercizio poi dell’attività imprenditoriale della distribuzione all’ingrosso dei prodotti farmaceutici».

Tallini, è scritto sempre nell’ordinanza, è intervenuto per «agevolare e accelerare l’iter burocratico per il rilascio di necessarie autorizzazioni nella realizzazione del Consorzio Farma Italia e della società Farmaeko Srl». Inoltre, «imponeva l’assunzione e l’ingresso, quale consigliere, del proprio figlio Giuseppe, così da contribuire all’evoluzione dell’attività imprenditoriale del Consorzio farmaceutico, fornendo il suo contributo, nonché le sue competenze e le sue conoscenze anche nel procacciamento di farmacie da consorziare». In tal modo, si legge ancora nell’ordinanza, «rafforzava la capacità operativa del sodalizio nel controllo di attività economiche sul territorio, incrementando la percezione delle capacità di condizionamento e correlativamente di intimidazione del sodalizio, accrescendo la capacità operativa e il prestigio sociale e criminale».

«Insomma… l’investimento è per voi… mica lo facciamo per noi… no? Fino a mo’ ci abbiamo solo rimesso…però nonostante tutto… anche gratis… Mi devi spiegare meglio com’è impostato tutto il ragionamento», diceva a Domenico Scozzafava, «un formidabile portatore di voti» per il politico di Forza Italia finito ai domiciliari, ma anche uno «’ndranghetista fino al midollo», secondo la magistratura.

Ora al di là del profilo processuale rimane però un punto sostanziale: vogliamo occuparci di mafie, mica solo in Calabria? Vogliamo che ritornino nell’agenda della politica? O si aspettano sempre gli arresti, sempre. Anche perché le mafie intanto in questa disperazione stanno prosperando come non mai. E sarebbe il caso di accorgersene prima che ce lo dica la magistratura.

Buon venerdì.

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Lombardia, situazione prevedibile ma la bomba Covid è tornata: “Ripetuti gli stessi errori”


La Lombardia è tornata al centro della pandemia di Coronavirus: non sono tanto (o solamente) i numeri di questi giorni a preoccupare, ma l’impennata di casi e ricoveri che si prevede a breve. A marzo l’assessore al Welfare Gallera aveva parlato del caso Lombardia come “una bomba esplosa all’improvviso”, ma adesso che non c’è nessuna “bomba” inaspettata i risultati (e i problemi) sono sempre gli stessi.
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Caso Regeni: l’Egitto ci prende in giro e il governo fa finta di niente

Ma cosa deve succedere ancora? L’Egitto deve bombardarci? Devono mandarci un figurante che finge di essere Giulio Regeni e fa “ciao ciao” con la manina in un video finto mandato in mondovisione? Devono accusare di terrorismo i magistrati romani? Devono raccontarci che il giovane ragazzo italiano è stato rapito dagli alieni e ucciso in una battaglia interstellare? Cosa deve succedere ancora perché uno, uno solo, uno qualsiasi degli esponenti del governo, cominci a alzare la voce e prendere un provvedimento che sia uno, uno solo, che non passi dalla vendita tutta compiaciuta di armi e navi?

Ieri i magistrati egiziani, dopo più di un anno, si sono presentati in videoconferenza ai magistrati italiani che indagano sul barbaro omicidio di Giulio Regeni e sono riusciti a non dare mezza risposta che sia mezza alle richieste. Dopo 14 mesi, non c’è nemmeno l’elezione del domicilio dei cinque indagati, tutti appartenenti ai servizi di sicurezza egiziana. E non solo: il procuratore egiziano Hamada Elsawy ha avuto anche l’ardire di chiedere (lui a noi) cosa ci facesse Regeni in Egitto, quasi alla ricerca di una giustificazione di quel massacro.

Addirittura la Procura egiziana emette un comunicato in cui sostiene che “Roma toccherà con mano la nostra trasparenza“, fingendo di non sapere che proprio alcuni giorni fa la famosa trasparenza egiziana ha inviato dei presunti effetti personali di Giulio Regeni che si sono rivelati falsi.

I genitori di Giulio, logorati da uno stillicidio continuo dal giorno della morte del figlio, hanno criticato l’atteggiamento egiziano “dopo quattro anni e mezzo dall’uccisione di Giulio e senza che nessuna indagine sugli assassini e sui loro mandanti sia stata seriamente svolta al Cairo”. E criticano ancora una volta il governo italiano per la sua linea della “condiscendenza”, del “stringere mani” e del “fare affari con l’Egitto”.

Perfino il presidente della Commissione d’inchiesta per la morte di Regeni, Erasmo Palazzotto, dice che “non abbiamo motivo di essere fiduciosi perché fino ad ora da parte egiziana sono arrivati soltanto tentativi di depistaggio e di coprire la verità”.

I genitori chiedono il ritiro dell’ambasciatore, il governo dice che ci pensa, una cosa è certa: a Giulio hanno massacrato la faccia, ma il governo italiano sembra volere fare tutto quello che serve per perderla. In tutto questo Patrick Zaky è prigioniero da 140 giorni, in attesa di un processo, mentre l’Italia fa finta di nulla. Quando finisce la pazienza?

Leggi anche: 1. I genitori di Giulio Regeni: “Un fallimento l’incontro tra pm italiani ed egiziani” / 2. Palazzotto a TPI: “Siamo in ritardo, ma vogliamo sapere la verità” / 3. Conte in audizione alla Commissione Regeni: “Da Al Sisi disponibilità, ora aspettiamo i fatti” / 4. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni

L’articolo proviene da TPI.it qui

Covid, per due mesi conferenze stampa quotidiane sulle regole da seguire. Ora che il distanziamento sociale è scomparso va tutto bene?

La scienza, si sa, è piena di dubbi per sua natura. Un governo, si sa, deve affidarsi alla scienza per prendere decisioni e per imporre regole chiare che siano rispettate da tutti. Insieme alle regole è nei doveri del potere anche il controllo e l’eventuale notifica della trasgressione. Su questo, almeno su questo, dovremmo essere tutti d’accordo.

Abbiamo passato gli ultimi mesi a essere bombardati di regole, regole nuove che hanno modificato profondamente i nostri comportamenti e soprattutto che hanno avuto un enorme impatto economico e sociale per molte famiglie, per molte attività e per molte imprese. Le conferenze stampa della Protezione Civile e del Presidente del Consiglio Conte per molti hanno significato una diversa quotidianità (anche lavorativa) a partire dal minuto dopo, allineandosi alle decisione con ingenti costi economici, sociali e perfino di programmazione del futuro. Ci si è messi tutti in fila, gran parte degli italiani hanno diligentemente cambiato i propri comportamenti e hanno ascoltato con fiducia le parole degli scienziati e delle organizzazioni sanitarie. Anche le statistiche dicono che nel periodo del lockdown e nella prima fase successiva sono stati pochissimi i multati, una percentuale minima di un Paese che si è messo in riga.

Perfetto, arriviamo a noi. Ci dicono che la mascherina è obbligatoria negli ambienti chiusi e che il distanziamento sociale (che poi è un distanziamento fisico pronunciato con le parole sbagliate) sia fondamentale per la salute pubblica. Non ci vuole molto per accorgersi che le regole con il tempo si sono sfilacciate, deteriorate e che vengono contravvenute praticamente in ogni occasione: su molte spiagge sembra l’estate del 2019, l’aperitivo è identico per modi e distanze a quello pre-pandemia, i treni dei pendolari sono affollati e costretti. Niente di male, per carità, se qualcuno avesse fatto una bella conferenza stampa per dirci che va bene così, se qualcuno ci spiegasse perché l’esercito che inseguiva i runner ora si è volatilizzato. E invece niente. Sembra, da fuori, l’atteggiamento di chi ha voluto che il Covid venisse sistematicamente dimenticato, come se il rilassamento generale fosse quasi stato programmato. Io non sono uno scienziato ma mi chiedo: non sarebbe il caso ora di fare una bella conferenza stampa per chiarirci il punto? Per dirci: liberi tutti oppure no, non va bene? Davvero è tutto a posto così?

Leggi anche: 1. Quella ridicola passerella di Bergamo e lo Stato incapace di chiedere scusa (di G. Gambino) /2. Negazionisti contro empiristi: la guerra tra i virologi che decide se siamo liberi o no (di L. Telese)

3. L’autista NCC: “Molti bergamaschi tornavano da Wuhan e non facevano quarantena” /4. Un cittadino di Bergamo attacca Gori, la durissima risposta di Cristina Parodi

L’articolo proviene da TPI.it qui

Quando l’italofobia era l’isteria collettiva

Fa bene ricordare, allenare la memoria. Per questo torna utile l’articolo di Giovanna Nuvoletti per La Rivista Intelligente:

Per decenni gli americani bianchi, i discendenti dei coloni, hanno odiato gli italiani in maniera feroce e sistematica. Dalla fine del XIX secolo agli anni ’30 del XX siamo stati probabilmente i più detestati e temuti.
Sbarcati a milioni, alla lettera, ci chiudevamo nelle nostre comunità, spesso ostaggi di connazionali che ci vendevano come schiavi di fatto. Non imparavamo la lingua, non mandavamo i bambini a scuola (ma a lavorare o a mendicare), rifiutavamo le nuove usanze e coltivavamo le nostre incomprensibili tradizioni.
Intorno al 1920 a New York arrivavano così tante navi da intasare il porto. Intercettate al largo, le imbarcazioni provenienti dall’Italia venivano dirottate verso Boston.
Eravamo classificati come “negroidi”: troppo vicini all’Africa, si diceva, per non avere “sangue negro” nelle vene. Prova ne fosse il colorito olivastro che TUTTI avremmo avuto.
Venivamo considerati un pericolo subdolo: a differenza di neri, asiatici e ispanici, gli italiani dalla carnagione più chiara potevano essere scambiati per bianchi, a un esame superficiale, quindi per noi era più facile “contaminare la razza bianca”.
Un italiano che intrattenesse una relazione con una donna bianca rischiava il linciaggio, come i neri.
Il Ku Klux Klan ci equiparava in tutto e per tutto ai neri: da impiccare al minimo pretesto, così prima o poi avremmo capito di restare a casa nostra.
Negli stati del sud ancora oggi perdura la convinzione che siamo non-bianchi, al pari degli ispanici.
[Nel 1973 Nixon, poco prima di essere spazzato via dallo scandalo Watergate, disse che eravamo diversi da loro, ci vestivamo in modo strano, puzzavamo di aglio ed era impossibile trovarne uno onesto.]

Immigrazione senza controllo
Immigrazione senza controllo

Anche gli altri immigrati ci odiavano. Accettavamo salari e condizioni di lavoro che ormai irlandesi, olandesi e francesi rifiutavano. Avevamo sostituito i neri nelle piantagioni, mandavamo all’aria le prime contrattazioni sindacali.
I meridionali soprattutto erano considerati “inadatti a imparare o mantenere qualsiasi lavoro, inclini per natura alla violenza”, incompatibili con lo stile di vita americano. Per un certo periodo siciliano o napoletano è stato sinonimo di “feroce bandito”.
Peccato che, per i loro esperti, il meridione cominciasse a Padova. Sotto Padova, tutti mafiosi; sopra Padova, invece, biologicamente stupidi, mentalmente inferiori al resto d’Europa.
Contro nessun altro si è scatenata una simile campagna di odio. Si arrivò a una vera e propria italofobia. Il principale veicolo di diffusione fu la stampa, sia quella ufficiale che quella clandestina, creata apposta per perseguitarci. Contro nessun altro è stata adoperata una tale mole di articoli denigratori, vignette insultanti, perfino canzoncine.
Ci rubano il lavoro, stuprano le nostre donne, non si vogliono integrare, corrompono il nostro spirito, si diceva. Chiudiamo le frontiere, bombardiamo le navi al largo, lasciamoli marcire nei porti, non facciamogli toccare terra, scrivevano i giornali.
Professano una strana religione, si insisteva, che niente ha a che fare con i nostri valori. Un misto di paganesimo e superstizione, impossibile da sradicare.
Eravamo raffigurati come orrendi sorci che nuotavano verso la riva con il coltello tra i denti. Venivano mostrati gli “argomenti” migliori per trattare con noi: gabbie, randelli, corda e sapone.
Giravano saporite barzellette: sapete quando un italiano vede il sapone per la prima volta? Quando lo impiccano

Tampa 1910 - Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati
Tampa 1910 – Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati

Ammazzare un italiano era di fatto tollerato. Bastava dire: “Mi ha aggredito lui” e la legittima difesa era scontata. Nemmeno si arrivava al processo. Caso chiuso.
Se vittima e assassino erano entrambi italiani, il disinteresse era quasi totale: finché ci ammazzavamo tra di noi andava bene.

(continua qui)

Siamo alle bombe

'Ndrangheta:attentato con bomba mano a cognato pentita PesceUna bomba, una granata: Giuseppina Pesce, la trentaquattrenne collaboratrice di giustizia che sta svelando i meccanismi della cosca Pesce a Rosarno, spaventa la ‘ndrangheta che risponde con una bomba che avrebbe dovuto uccidere il fratello del suo nuovo compagno. La credibilità di uno Stato si misura anche dalla protezione che è in grado di dare, questo è ovvio, e dalla forza con cui reagisce alle recrudescenze più violente. Per questo Giuseppina Pesce (che ha parlato, fatto nomi, portato ad arresti) è un capitale antimafioso che va protetto anche dalla società civile tutta. Perché se siamo alle bombe significa che funziona e che bisogna disinnescare le vendette, in tutti i sensi possibili. Parlandone, parlandone, parlandone.

Lo schiaffo a cinque mani (e una carezza) sulla guancia di Rosario Crocetta

crocettaLa notizia dell’ennesimo agguato progettato ai danni di Rosario Crocetta è uno schiaffo. Uno schiaffo a cinque mani anche se di mezzo c’è pure una carezza. E’ un polipo che ti sbava in faccia, con la viscosità unta e senza dignità di quel mollusco senza spina dorsale che supplica di continuare a farsi chiamare mafia per farsi forza del marchio.

Il primo  schiaffo ha l’odore sabbioso della polvere da sparo che si ficca in gola asciugandosi sotto la lingua. E’ la polvere dello sbriciolamento delle bande che infilano le idee dentro un buco, di questi mezzi uomini che sanguinano paura perchè se la fanno addosso. Saverio La Rosa e Maurizio Trubia oggi ci consegnano il solito Rosario che brilla con quel suo solito profilo senza macchie di unto ma ci ribadisce che oggi sono La Rosa e Trubia, ieri erano gli Emmanuello e domani saranno un cognome che non importa nemmeno come suoni ma che comunque puzza. Puzza di un ardimento mentale che stona come sempre per gli avidi che giocano solo fuori dalle regole. Il segno delle cinque dita è da incorniciare per ricordarci come giocano sporco.

Il secondo schiaffo ha l’odore acre della perseveranza. Ma la perseveranza marcia di ricondannare chi è già condannato a morte. Per ricordarci che la memoria asfittica che si ricorda di ammazzare non ha i tempi dei rinnovi di scorte, tutele e carte bollate.

Il terzo schiaffo è per la prepotente presunzione ebete di Milano che non vuole saperne. E la base degli assassini a progetto era proprio nel cuore della Milano bella addormentata. Per oliare per bene l’unico ponte che esiste già dalla Sicilia alla culla della finanza. L’unico ponte che si rinsalda anche a forza di spalmare calcestruzzo depotenziato.

Il quarto schiaffo è per l’uomo. Per il Rosario che abita dentro Rosario e che forse in questi giorni si è ranicchiato ancora più forte in un angolino. Il suo primo pensiero alla preoccupazione della madre e delle famiglie degli uomini di scorta è una lezione di lealtà. Quella lealtà che non costruisce la notizia, non lenisce il dolore ma riporta le persone tra le persone e le divide forte dal mucchio degli omuncoli.

L’ultimo schiaffo è quello degli omuncoli. Che non viene dato in faccia ma spesso si presenta con un sorriso di falsa cortesia e una stretta di mano. Profuma di quell’essenza vomitevolmente dolce delle puttane con il boa di struzzo che sorridono con la delazione continua, incapaci di costruirsi un sorriso tutto per loro. Di quei compagni che sparano senza sparare, che s’insinuano tra le pieghe delle ferite che fingono di capire. Quelle lingue di catrame che leccano la suola delle scarpe sperando di poter prendere una forma. Ma che rimangono mollusche, fetide e lumachesche mentre la testa rimbomba e il cuore ammuffisce. Come si conviene agli omuncoli.

Poi c’è la carezza. E quella non ha nemmeno bisogno di parole. Perchè Rosario è abituato agli spifferi,e tra gli spifferi arrivano anche gli abbracci.

Siamo con te, Saro.

Per esprimere solidarietà sosteniamocrocetta@gmail.com

Radio Mafiopoli 20 – Il sugo della settimana

Il sugo della settimana
Ci sono settimane in cui Mafiopoli dà il meglio di sè. Sono le settimana in cui accade tantissimo, se ne sparla di più e si informa molto poco; secondo l’antico proverbio mafiopolitano “succede qualcosa solo quando è scritta o al massimo sparata”. Una di quelle settimane al gusto rosso di chiasso distraente e qualche macchia di pomodoro.
A Partinico giù all’ospitale ospedale civico c’è da spanciarsi dalle risate. Ma con parsimonia. Con ordine: su un letto tutto gomitolato c’è un malato di lusso, Niccolò Salto. Chi è Salto? Facciamo un balzo indietro con un riassunto delle puntate precedenti. Niccolà Salto, per gli amici di Mafiopoli detto “la zampetta più veloce del west” per la velocità di salti, zompelli, scalate professionali in Cosa Nostra e trasferimenti. I maligni dicono sia boss della zona di Borgetto (lui si difende “sono amico di tutti, e degli amici degli amici”), dicono sia stato colpito in un agguato in pieno centro trivellato da quattro colpi, ma non morto e resuscitato in meno di tre giorni per meriti nel nome del padre, del figlio e del padre di suo zio e ci siamo capiti. Probabilmente il killer assoldato per bucherellare il leprotto Salto era il famoso Ciro “lo strabico”, che da anni studia il manuale del buon sparatore di Bum Bum Bagarella ma in compenso fà male più o meno come una dichiarazione di un ministro del governo ombra. Salto si salva, evviva!, e salta nel regno dei cieli? O no.. salta a piedi uniti con un bel tuffo a bomba dentro una condanna di carcere duro 41 bis. Quel 41 bis che nel Pirlamento di Mafiopoli pochi giorni fa tutti in coro hanno urlato di averlo inasprito. Con una goccia di limone e due foglie di rosmarino. E allora cosa fa quel grillo mattacchione del Salto? Salta di palo in frasca e si accorge che sta male, che un proiettile uno forse gli è rimasto in pancia tra la caponata e l’arancino. Curiamolo! Perchè no! – urlano i garantisti della digestione dei mafiusi – è un suo diritto. Ma a Mafiopoli i diritti sono al sugo. E allora ricoveriamolo. Dove? Il carcere duro imporrebbe lontano. E infatti lo parcheggiano lontano, lontano, lontano, lontano 2 km e mezzo fino al vicino ospedale di Partinico. Così almeno (dicono i garantisti) per impartire ordini al telefono non scatta nemmeno l’interurbana. Hip hip urrà. Bum bum. Ma il carcere duro ai domiciliari in ospedale vicino a casa? È una vergogna! – dicono i maligni. Sì, ma in terapia intensiva. Caro Niccolò, tu che ascolti (lo sappiamo per certo) questa puntata di Radiomafiopoli non prendertela nel tuo nuovo carcere a 5 stelle, altrimenti se ti arrabbi ti si sposta il catetere. Bum bum.
A Santo Domingo intanto hanno accalappiato il boss camorrista Ciro Mazzarella. Dopo il mandato di cattura era stato anche in Colombia e Costarica. I suoi legali gli hanno assicurato che se il 41 bis a Mafiopoli continua così al massimo da oggi  gli mancherà solo la fetta di lime dentro mojito.
A Mafiopoli hanno inaugurato il nuovo decreto sulle intercettazioni. In parole semplici: si potranno intercettare solo mafiusi già dichiaratamente colpevoli, solo nel momento in cui commettono un atto criminoso, in notti di luna piena, con una coda di gatto nero e mescolare tutto con la formula magica. Un successo. Nella baldoria di festeggiamenti addirittura ad Opera è stato intercettato un neurone ancora seminuovo di Zi’ Totò il capo dei capi. Evviva evviva.
Condannato definitivo Vincenzo Santapaola, figlio di Benedetto Santapaola. Benedetto Santapaola l’unico boss già nel nome votato al paradiso. Il Vaticano mafiopolitano insorge: scherzate con i fanti ma lasciate stare i santi! Applauso dei presenti. Poi consapevoli della gaffe hanno mandato la pubblicità.
A Trapani iniziato il processo Grigoli, presunto cassiere del boss Matteo Messina Denaro per gli amici Soldino. Sequestrate 12 società, 220 fabbricati, 133 appezzamenti di terreno e uno yacht di 25 metri. Grigoli dice che ha avuto culo; Matteo Messina va a letto triste come un soldo di cacio. Bum bum.
Da un sondaggio a Palermo i ragazzi mafiopolitani dichiarano al 22% di credere che Chinnici e Costa siano due mafiosi. Incredibile. In uno stato così si rischierebbe che un pregiudicato diventi presidente del consiglio.
Ieri un’azienda di calcestruzzi confiscata al virulento boss Virga, il mafiuso dalla piccola Verga, è diventata una cooperativa libera gestita dai suoi stessi operai. Hanno urlato: “bisogna liberare le aziende mafiuse per farle ritornare alla legalità e ad una gestione libera da collusioni!”. In Parlamento hanno chiuso la porta con due giri di chiavi.
Tutto il resto è noia. Alla Banale 5.