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“Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego

Igiaba Scego è una scrittrice di origini somale che vive a Roma. Da sempre si occupa di stranieri, di integrazione e di diritti. Il suo ultimo libro è “La linea del colore” edito da Bompiani che ha come protagonista una donna afroamericana dell’ottocento che scopre l’Italia. L’abbiamo intervistata per TPI.

Negli USA è in atto una vera e propria rivoluzione culturale. Lei si occupa da anni di questi temi, come vede la narrazione di ciò che accade?
Due tipi di narrazione. Quella dei media mainstream che non hanno capito niente di quello che sta succedendo: stanno osservando questi movimenti con delle lenti molto vecchie e anche sbagliate. Quando mi tolgo gli occhiali io che sono miope vedo tutto sfocato e molti media mi hanno dato questa stessa sensazione, tranne alcune eccezioni come la giornalista de Il Manifesto Marina Catucci, veramente puntuale, Arianna Farinelli, Martino Mazzonis. Questo mi ha meravigliato perché l’immaginario statunitense è molto popolare, si pensa “almeno li conosciamo” e invece no. Noto la stessa nebulosità che scorgo quando si parla di Africa. Poi per fortuna c’è quella che arriva da giornali e esperti in lingua originale. E devo dire che è quello che mi ha aiutato ad orientarmi. Per esempio non mi perdo mai i commenti della professoressa Ruth Ben Ghiat che da anni ci spiega i meccanismi dello stato americano.

Quale distorsione nota più delle altre?
Questo parlare di saccheggi piuttosto che parlare del cuore del movimento. Molti giornali non hanno raccontato ai lettori cosa c’era prima, quei 400 anni di oppressione. Mancano ponti tra qui e lì. Io sono scrittrice e la stessa cosa la vedo nell’editoria: l’editoria italiana ha pubblicato negli ultimi anni moltissimi afroamericani ma non c’è stato quel passaggio necessario da editoria ai giornali e media in genere che aprisse un sano dibattito su questi libri e permettesse una loro diffusione anche scolastica.

Quindi si è perso ciò che è avvenuto negli anni precedenti, non ci sono stati ambasciatori e ponti. Si arriva così a non capire perché questa lotta è così lunga, non si riflette sulla genesi della schiavitù, questo è un grosso gap scolastico che non ha permesso a molti italiani di capire fenomeni come schiavitù, segregazioni negli USA e perfino lotte per i diritti civili. Pochi hanno letto Toni Morrison, anche tra i professionisti dell’informazione. E quindi mi ha colpito questo indugiare su aspetti marginali senza andare al cuore del problema. Manca una preparazione all’America, io ho visto “molta ignoranza”. Molto non sapere. Quello che si conosce è solo superficiale.

Negli USA il dibattito si è aperto non solo sulla violenza che ha portato per ultimo alla morte di Floyd, ma anche sulla profilazione razziale delle Forze dell’Ordine. C’è un razzismo insito anche nella gestione italiana secondo lei?
Sulla polizia non saprei dirti. Posso dirti che loro, negli USA, hanno questa storia di schiavitù ma da loro anche chi è contro i neri sa cosa è successo mentre in Italia quello che c’è dietro di noi, come il colonialismo, non è molto conosciuto, c’è una rimozione totale e non ci fa capire che quegli stereotipi continuano a agire sui corpi del presente. A me ha sempre colpito come per esempio le leggi italiane sull’immigrazione si basino quasi sempre su un modello astratto, su questo cosidetto altro che non è un potenziale cittadino ma un potenziale suddito coloniale, il modello è quello del sudditto somalo, eritreo o libico dei tempi del colonialismo italiano. si continua cos’ a perpetuare l’idea dello straniero nella legislazione come suddito, una persona senza diritti.

Non è un caso che la Bossi-Fini e i Decreti Sicurezza più la mancata riforma sulla cittadinanza siano delle costanti nella politica italiana, perché vale lo ius sanguinis e non lo ius soli o lo ius culturae, un Paese trincerato nel suo sangue che poi se lo andiamo a “analizzare” storicamente questo famigerato sangue risulta essere è quello più meticcio del mondo. Questo mi sconvolge, questa storia passata mai discussa che si ripresenta in forma di legge e ci incasina il presente, il modello è ancora quello coloniale sarebbe interessantissimo che i giuristi ci lavorassero su questo, su come decolonizzare le leggi perché sono troppo pieni di passato.

Vede dei casi di razzismo endemici in Italia, anche da parte di quelli che non sono consapevolmente razzisti?
Il razzismo in Italia non è solo anti nero ma è anche anti meridionale. Ad esempio due ore fa stavo andando al supermercato, dove due persone stavano litigando e un signore ha detto a una signora “sporca calabrese”. Qui c’è una questione meridionale che è la mamma di tutti i razzismi italiani, quello che è stato fatto al Sud è lo stesso trattamento riservato alle colonie. Quando avevo 25 anni avevo fatto un colloquio di lavoro vestita come sono sempre vestita e la persona che avevo davanti mi ha detto “lei è musulmana, si vede” io gli ho detto “deve farmi colloquio di lavoro” e lui “ma voi volete pause di preghiera e ramadan”: sono uscita e ho pianto, è un razzismo altrettanto umiliante. Ho smesso perché ai tempi mi vedevano e mi dicevano sempre no. Lo vedi dallo sguardo e poi c’è stato tanto razzismo biologico, dalle elementari mi chiamavano sporca negra e mi hanno buttato un barattolo di coleotteri in testa “perché sono neri come te”. Oppure odiavo negli anni ’90, ero ancora adolescente, quando si fermavano le macchine mentre stavo alla fermata ad aspettare il bus e ti facevano vedere i soldi chiedendo sesso orale, perché nera significava prostituta.

Io ho imparato a schivarli anche. Ho imparato a reagire. Mia madre dice che il razzismo non lo combatti urlando, ma lo combatti con la riflessione e la conoscenza anche quando sei nel mezzo del disastro, lei mi ha sempre detto di uscirne con una frase arguta, è l’unico modo. Mia madre, James Baldwin e Malcom X sono stati i miei maestri nell’usare la riflessione, le parole, per questo scrivo. Volevo capire come mai mi succedevano una serie di cose e volevo capire qual era la radice, sempre storica. In tutto questo ho trovato molti alleati, penso alla mia professoressa di italiano alle superiori, ai professori universitari che mi hanno dato strumenti che mi hanno cambiato la prospettiva. Sandro Portelli mi ha insegnato molte cose della vita, con l’Italia che ha tutte l sue complicazioni. Ho applicato la strumentazione che loro hanno applicato alla loro lotta e alla loro riflessione teorica.

Come le sembra il dibattito politico italiano sul tema?
Qui non c’è dibattito. Qui il dibattito è finito con il tradimento sulla legge sulla cittadinanza. Poi si è riesumato un discorso sulle regolarizzazioni molto mercantile. Io ho questa sensazione di tante lotte fatte anche collettive: afrodiscendenti, albanesi, arabi, sudamericani, i loro figli nati qui italiani senza diritti e poi anche moltissimi italiani bianchi… Ecco tutti noi ci siamo ritrovati dal 2005 fino al governo Renzi a lottare in piazza, cambiavano le piazze, c’erano tanti bambini e tecnicamente con le scuole abbiamo lavorato moltissimo (penso a due scuole di Roma in particolare la Pisacane e la Di Donato i cui professori si sono spesi tantissimo per far avere diritti ai loro studenti) , però poi questa lotta è stata tradita da tutto l’arco costituzionale: la destra ha fatto ostruzionismo ma gli altri l’hanno reso possibile ed è una cicatrice che mi fa molto male.

Poi c’è stata la raccolta firme dei Radicali e quella era una buona iniziativa ma poi a causa degli eventi caduta nel vuoto e adesso il dibattito è stato sulle regolarizzazioni perché servivano braccia per l’ortofrutta e basta. Queste persone cadono in irregolarità per un meccanismo della Bossi-Fini, sono ricattabili in situazione di pandemia, dovremmo avere più persone regolari possibili ma così è stato un mercato degli schiavi. Io capisco gli sforzi di chi ha chiesto la regolarizzazione ma il risultato è stato misero. Servirebbe più coraggio: l’Italia non può pensare che sia un tema possibile da scacciare in eterno, il Paese è già cambiato, io alla manifestazione per George Floyd a Roma ero con i miei 46 anni vecchia in confronto a chi è sceso in piazza. Tu vedi che hai seconde e terze generazioni, più di 50 anni di popolazione transculturale che ha varie origini. Ma ancora tutto questo non si trasforma in quotidianità. E come se ci fossero enormi barriere. Così non vedi maestri, autisti dell’autobus, professori con altra origine: alcuni luoghi del lavoro non sono al passo con i tempi. Anche nell’editoria.

Lei è fiduciosa che la lezione che arriva dagli USA possa avere un impatto importante anche qui?
Secondo me quella americana è una grande rivoluzione culturale perché gli afrodiscendenti sono legati tra loro, è una rete, per noi sono un modello e quello che sta succedendo negli Usa è clamoroso, è una rivoluzione culturale, non è solo rabbia per Floyd ma è un momento che è stato preparato negli ultimi 20 anni. Da loro la cultura è sempre stata forte, nella musica nella letteratura, i premi Pulitzer quest’anno molti erano neri e penso al disco di Beyoncè di alcuni anni fa tutto sull’identità nera. Questo forse spingerà pure noi qui ad avere una riflessione più ampia e profonda, probabilmente ci spingerà a produrre più libri, più musica, più film, più lotte sociali e non solo afrodiscendenti, perché l’Italia ha una migrazione a mosaico, complessa, fatta di tante diversità che vanno dall’Est Europa al Sudamerica.

Già vedo dei talenti per esempio del giornalismo come Angelo Boccato e Adil Mauro che non parlano solo di immigrazione o della loro identità, ma usano il loro sguardo per riflettere sui nodi della società. Adil e Angelo mi fanno ben sperare per il futuro. Ma ecco tutto deve partire da una riflessione anche storica che attraversa il dolore che abbiamo provato, In Italia nel 1979 un uomo somalo, Ahmed Ali Giama, in piazza della Pace a Roma è stato bruciato viva e Giacomo Valent nel 1985 è stato ucciso con 63 coltellate, era il fratello della prima eurodeputata nera Dacia Valent, ho scritto per Feltrinelli su questo (“Politica della violenza”, Feltrinelli Editore). In Brasile c’è stata Marielle Franco e ognuno sta producendo cultura e rivendicazioni partendo dalle proprie ferite, dai propri martiri e chiaramente questo momento rimarrà a lungo e potrà provocare cambiamenti perché i cambiamenti sono sempre prima culturali e poi sociali.

Leggi anche: 1. Quanti contagi possono causare le proteste in Usa? Un virologo ha provato a calcolarlo / 2. Si sposano in mezzo alla protesta per George Floyd a Philadelphia: “È stato ancora più memorabile” /3.  George Floyd, Minneapolis smantella il dipartimento di polizia: “Vogliamo un nuovo modello di sicurezza” /4. Banksy e l’omaggio a George Floyd: “Il razzismo è un problema dei bianchi”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

A Corleone il nuovo boss lavora per il Comune

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Totò Riina, il capo di Cosa nostra rinchiuso al 41 bis, poteva contare ancora su un gruppo di fedelissimi nella sua Corleone. Il più autorevole era l’insospettabile custode del campo sportivo, Antonino Di Marco, 58 anni: il suo ufficio di dipendente comunale era diventato un covo perfetto per i summit. Lì si discuteva di appalti, estorsioni e campagne elettorali. E nessuno sospettava che quella stanza fosse intercettata 24 ore su 24 da telecamere e microspie piazzate di nascosto dai carabinieri della Compagnia di Corleone. Così, per mesi, i fedelissimi di Riina sono finiti dentro un “grande fratello” che ha svelato molti dei loro segreti. E all’alba sei persone sono state arrestate sulla base di un provvedimento di fermo emesso dai pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo Sergio Demontis, Caterina Malagoli e dal procuratore reggente Leonardo Agueci.

Di Marco portava spesso al suo clan i saluti di Salvuccio Riina, il terzogenito del capo di Cosa nostra che adesso vive a Padova dopo aver finito di scontare una condanna. E impartiva lezioni di mafia: “Noi siamo una famiglia – ripeteva – C’è bisogno di serietà, educazione e rispetto”. Raccontava di quando, giovanissimo, aveva ricevuto un sonoro schiaffone da Bernardo Provenzano, per una parola fuori posto pronunciata durante un pranzo importante. “Mi ha insegnato che bisogna avere le braccia aperte a tutti”, così il dipendente comunale boss spiegava a chi voleva escludere in modo drastico dal clan alcuni mafiosi ritenuti non in linea con la maggioranza. Di Marco era davvero un fedelissimo di Riina: suo fratello Vincenzo aveva fatto da autista alla moglie del capo di Cosa nostra, Ninetta Bagarella, era stato ripreso con lei dalle telecamere del Ros pochi giorni prima del blitz del 15 gennaio 1993. “Noi dobbiamo essere con la gente, con chiunque”, predicava ancora Di Marco. E’ quasi uno slogan per la nuova Cosa nostra, disposta a mettere da parte vecchie regole e abitudini pur di tornare ad essere dentro la società e i palazzi che contano. Così, Di Marco aveva anche accettato che la figlia si fidanzasse con un sottufficiale dei carabinieri. Era più importante essere un insospettabile. Così, diceva il braccio destro del nuovo boss di Corleone: “La gente deve avere il dubbio, mai la certezza di chi comandi”.

Le intercettazioni dei carabinieri hanno svelato che l’ultimo ambasciatore di Totò Riina a Corleone aveva costituito una sorta di personalissimo feudo nel vicino comune di Palazzo Adriano. Faceva da supervisore al clan locale, perché in quel territorio Cosa nostra gestiva affari importanti. Appalti soprattutto, grazie alla complicità di funzionari collusi. Le microspie hanno fatto emergere anche il particolare attivismo dell’organizzazione mafiosa per l’elezione dell’attuale sindaco di Palazzo Adriano, Carmelo Cuccia. Di Marco è stato pedinato dagli investigatori mentre andava a Palermo per incontrare il primo cittadino. In auto, preparava il discorso: “Come in periodo di elezioni, come che sei sindaco, come che tu hai bisogno di qualunque cosa, però io ho bisogno pure di te”.

La procura distrettuale antimafia sostiene che il gruppo legato a Di Marco si sarebbe mosso anche per la campagna elettorale di un esponente dell’Udc, Nino Dina, attuale presidente della commissione Bilancio dell’Assemblea regionale siciliana. Un altro pedinamento ha ripreso Di Marco mentre entra nella segreteria politica del deputato, a Palermo.

L’insospettabile custode del campo sportivo di Corleone si atteggiava a grande tessitore di relazioni. Il suo ultimo affare è stato davvero una sorpresa per gli investigatori: il clan di Corleone gestiva alcuni terreni della Curia di Monreale, in contrada Tagliavia. Le intercettazioni dicono che era stato addirittura Salvatore Riina a concedere questo privilegio ai Di Marco, come ricompensa per i servizi resi.

“Siamo intervenuti registrando diverse pressioni sugli imprenditori locali – dice il tenente colonnello Pierluigi Solazzo, comandante del Gruppo Monreale – adesso ci auguriamo che gli operatori economici vessati possano collaborare, per ricostruire pienamente quanto accaduto”.

Con Di Marco sono stati arrestati Pietro Paolo Masaracchia (ritenuto il capomafia di Palazzo Adriano), Nicola Parrino, Franco e Pasqualino D’Ugo.

(fonte)

A proposito della Madonna che si inchina al boss

”I Carabinieri hanno fatto benissimo ad allontanarsi. I servitori dello Stato non possono tollerare il minimo compromesso o tentennamento nei confronti della ‘ndrangheta. Sta agli altri come ho detto sia prima e sia dopo che Papa Francesco venisse in Calabria, essere conseguenziali e coerenti con quello che ha detto Papa Bergoglio e con quello che abbiamo scritto con il libro ‘Acqua santissima’. E’ ora di finirla con la retorica delle parole e incominciare a prendere provvedimenti con chi ha violato le regole della Chiesa e le parole di Papa Francesco”.

Nicola Gratteri, procuratore aggiunto presso il tribunale di Reggio Calabria su ciò che abbiamo scritto (di prima mattina, eh) qui.

Documentarsi per indignarsi: le carte sull’On. Crisafulli

Sta passando abbastanza sotto traccia (anche se ne ha parlato Pif alla Leopolda e qualcuno ne scrive) la vicenda di Crisafulli, i suoi incontri con i boss e il suo appoggio (consistente, nelle sue zone) alla mozione Cuperlo. Poiché ogni volta che si affronta questo argomento arrivano di seguito strali e diverse interpretazioni dei fatti (nell’augurio di un Paese che riesca a farsi un’idea sull’inopportunità al di là dell’esito della giustizia) mi sembra il caso di lasciare qui la circostanziata CNR (Comunicazione Notizia di Reato) dei Carabinieri del Comando provinciale di Enna. Perché conoscere per indignarsi in modo sano è sempre un buon esercizio:

Qui il link.

Domenico Leotta arrestato.

20130202_leotta-arrestoDomenico Leotta è accusato della strage di Pegli dalla pentita Giuseppina Pesce, nipote del boss Giuseppe Pesce. La donna si è pentita per «amore dei figli» dopo essere stata arrestata nell’operazione All Inside, nell’aprile 2010. Sei mesi dopo Giuseppina Pesce ha deciso di collaborare con i magistrati della dda di Reggio Calabria, raccontando la storia e le attività criminali del suo clan. Tra i ricordi della Pesce anche il triplice omicidio di Maria Teresa Gallucci, 37 anni, di sua madre Nicolina Celano, 72 e della cugina Marilena Bracalia, 22. La pentita ha fornito agli inquirenti tutti i retroscena di quel massacro e ha indicato proprio in Domenico Leotta il killer che, partito da Rosarno, raggiunse Pegli per compiere la missione di morte. Il motivo della strage sarebbe stato il riequilibrio mafioso nella zona, ma ci sarebbero stati anche motivi legati all’onore per presunti legami extraconiugali di una delle donne. Subito dopo la strage fu arrestato in Calabria Francesco Alviano, un ragazzo di 20 anni, figlio di Maria Teresa Gallucci. Il giovane fu accusato da un pentito di ‘ndrangheta, Francesco Facchinetti. I magistrati contestarono ad Alviano i tre omicidi commessi per lavare col sangue la relazione di sua madre Maria Teresa Gallucci, vedova da quindici anni, con Francesco Arcuri, proprietario di una boutique nel centro di Rosarno. A novembre del 1993, un anno prima della strage di Pegli, l’uomo fu ucciso all’interno del suo negozio con nove colpi al basso ventre. Maria Teresa si aspettava forse che lo stesso killer raggiungesse anche lei e quindi scappò da Rosarno per rifugiarsi a Pegli dalla madre. Dopo tre notti d’isolamento Francesco Alviano fu scagionato. Di quel triplice delitto non si seppe più nulla sino a quando Giuseppina Pesce non aprì la mente ai ricordi indicando in Domenico Leotta l’autore della strage. Con lui – secondo le dichiarazioni della pentita – avrebbe agito Francesco Di Marte, altro esponente del clan di Rosarno.

Oggi Domenico Leotta è stato arrestato concludendo così la sua fastidiosa latitanza. Fastidiosa non solo per la giustizia ma per il pudore. E’ una buona notizia, una mezza buona notizia, di quelle buone notizie che sarebbe meglio che non fossero state possibili eliminandone le cause piuttosto che gli effetti. Ma è una dolce sera per la memoria e l’impegno.

E i latitanti, in Italia, si arrestano anche con il Governo vacante, per dire.

Cambiano le cose. Cambiano.

Con il lavoro, l’impegno, la serietà poi alla fine la storia non si inventa ma succede davvero: Monsignor Francesco Montenegro vieta le esequie di Giuseppe Lo Mascolo, arrestato pochi giorni prima di morire con l’accusa di essere il boss di Cosa nostra a Siculiana: “L’unico modo per imbavagliare la mafia è rifiutare i compromessi”. La notizia è qui.

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Un caffè macchiato camorra al Bar ‘Gran Caffè Sforza’ nel centro di Milano

La camorra ‘cutoliana’ nel cuore di Milano e in provincia attraverso bar, societa’ immobiliari, attivita’ commerciali e fabbriche di videopoker. C’e’ anche il bar ‘Gran Caffe’ Sforza’, nel centro storico del capoluogo lombardo, tra i beni sequestrati durante un’operazione antimafia dei carabinieri del Noe di Roma a Milano e nell’hinterland e nel Casertano. Sequestrati beni per 20 milioni riconducili a Mauro Russo, appartenente al clan Belforte o dei Mazzacane, che e’ stato arrestato. Indagate 12 persone.

Russo, 47 anni, e’ accusato di associazione per delinquere di stampo mafioso. Non avrebbe solo reinvestito capitali sporchi ma, secondo un’intercettazione del 15 novembre scorso, anche rivelato di poter superare alcuni passaggi dell’iter amministrativo. ”Mi servirebbe, pero’ urgentemente, il certificato camerale, con la dicitura antimafia, per il bar qua di via Sforza”, avrebbe detto Russo al telefono con tale Paolo. L’associazione camorrista estorceva denaro agli operatori commerciali e si scontrava con le armi con altri gruppi camorristici per il controllo dello spaccio di droga e per l’imposizione di macchinette videopoker o slot machine agli esercenti di bar. Le indagini hanno portato alla luce un vasto giro di affari realizzato attraverso il reimpiego di capitali sporchi e una rete di prestanome legati a Russo. Secondo alcuni pentiti, Russo sarebbe il referente di Pasquale Scotti, latitante dal 1985, detto ‘Pasqualino o’ collier’ per aver regalato un collier alla moglie di Raffaele Cutolo, lo storico boss della Nuova Camorra Organizzata (Nco).  Fin dal 1999 Russo si e’ associato al clan Belforte, ex cutoliano. Dapprima ha imposto la distribuzione delle proprie slot machine agli esercizi commerciali di Marcianise (Caserta) e in zone limitrofe per poi diventare affiliato del clan. Al punto da fornire armi e auto usate per omicidi, offrendo appoggio logistico ai latitanti del gruppo, ma anche per il riciclaggio dei proventi illeciti, soprattutto nella zona di Milano. Il decreto di sequestro preventivo e’ stato eseguito dai carabinieri del Noe di Roma guidati dal colonnello Sergio De Caprio, noto anche come ‘Ultimo’, e dal capitano Pietro Rajola Pescarini. A disporlo il gip del Tribunale di Napoli Andrea Rovida su richiesta della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo campano.

 

Quel boss sul ramo del lago di Como

Beni per 40 milioni di euro, tra cui una villa sul lago di Como non distante da quella dell’attore George Clooney, sono stati sequestrati dalla polizia all’imprenditore Giuseppe Felaco, esponente di primo piano del clan camorristico Polverino, attivo nella zona di Marano, comune a nord di Napoli. Sequestrati anche altre ville e terreni in Campania, nonchè le quote societarie ed il patrimonio aziendale della società Construenda di Capiago Intimiano (Como). (ANSA)

Mafie: i segnali (e le parole) sono importanti

Niente è per caso o forse è una sinistra catena di coincidenze. Qualche giorno fa esce una nota di Palazzo Chigi (in una settimana di pochissime parole dal Governo) che lascia intendere un affievolimento del regime 41 bis. Si alza un coro di proteste e una nuova nota di Palazzo Chigi corregge il tiro. Ieri la famiglia di un boss deceduto in regime carcerario 41 bis al carcere di Opera presenta un esposto lamentando la mancanza di cure. E si ricomincia a parlare della “bestialità” del carcere duro. Intanto gli avvocati dei collaboratori di giustizia raccontano di come il Governo abbia abbandonato i pentiti e i loro legali. Chissà cosa avrebbe pensato Paolo Borsellino.