Lo stato ha preso a botte Stefano Cucchi per 10 anni: in attesa di giustizia, c’è solo da chiedere scusa
Il mio editoriale per TPI.it
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A mani nude, con calci e pugni, le hanno rotto una costola che poi è andata a infilzarsi tra il fegato e la milza. Gloria Pompili aveva 23 anni ed è morta di botte il 23 agosto, di sera tardi, dopo il lavoro. Si prostituiva, Gloria, e i suoi aguzzini erano il fratello di suo marito e una sua cugina: loro due, tutte le sere, la accompagnavano da Frosinone fin sul litorale romano per vendersi e poi tornavano notte fonda a recuperarla, contavano i soldi e la riportavano dai suoi due figli, di tre e cinque anni.
Una vita così, schiava della sua famiglia come spesso succede e come raramente si scopre. Solo che quella sera Gloria l’hanno ammazzata e gli omicidi, si sa, portano a galla queste storie che ti vergogni solo a scriverle; queste storie che di solito, se non ci scappa il morto, rimangono sepolte in famiglia e stiamo tutti tranquilli.
Gloria era orfana. Il primo marito, rumeno, finito in carcere e poi il secondo matrimonio e con quel secondo marito egiziano conosciuto grazie a una lontana cugina (Loide Del Prete, 39 anni) . Suo marito Saad Mohamed, 23 anni fa il fruttivendolo ad Anzio. Proprio il fratello di Saad le ha fatto credere forse di potersi ricostruire una famiglia.
Sbagliava, invece. Saad e Loide sono stati i suoi aguzzini: costretta a prostituirsi “per contribuire alle spese”, dice chi la conosceva. Fino a quella sera in cui si è ribellata ed è stata uccisa. “Voleva smettere” dice qualcuno: in molti sono andati a testimoniare per fare chiarezza.
Ma tardi. Troppo tardi. Sempre troppo tardi.
Buon giovedì.
(continua su Left)
“Mi ha minacciato con un coltello, non so più che devo fare: aiutatemi”. Diceva così Marianna Manduca quando implorava di essere ascoltata dalla Procura di Caltagirone, terrorizzata da un marito vigliacchetto e violento come ne leggiamo troppi nelle cronache italiane.
Dodici denunce. Dodici volte Marianna ha chiesto aiuto a un Paese che continua a derubricare i segnali di femminicidio a piccole beghe famigliari che non meritano attenzione, contribuendo al senso di impunità dei maschi che si arrogano il diritto di ritenere le proprie compagne proprietà private a cui dare un senso con le botte e con la morte.
Io non so nemmeno se si riesce a scrivere con che sguardo una donna possa uscire dalla caserma per la dodicesima volta. Non so nemmeno immaginare dove finisca la sfiducia e dove inizi la paura per chi poi alla fine di coltellate ci è morta davvero: il marito Saverio Nolfo l’ha uccisa con sei coltellate al petto e all’addome il 4 ottobre del 2007 a Palagonia.
La procura di Caltagirone per la morte di Marianna è stata condannata dalla corte d’Appello di Messina: hanno riconosciuto il danno patrimoniale condannando la presidenza del Consiglio dei ministri al risarcimento di 260mila euro, e riconoscendo l’inerzia dei magistrati dopo una lunga trafila giudiziaria.
Dopo dodici volte insomma Marianna è morta per davvero. E dodici anni dopo le hanno chiesto scusa.
Perché non basta quasi mai solo un assassino per compiere un femminicidio.
Buon mercoledì.
(continua su Left)
Come promesso, ‘Mio padre in una scatola da scarpe’ diventa podcast con la lettura a voce alta. Ha qualcosa di magico, la lettura di un libro, perché mi tiene in bilico tra i miei diversi lavori, tra la scrittura e il palco, e per questo ci tengo moltissimo. Quindi pian piano aggiungeremo tutti i capitoli, un cammino svolto insieme, una compagnia prima di dormire. Eccoci al secondo, “le botte in piazza”, che rientra personalmente tra i miei preferiti.
Il podcast è anche facilmente scaricabile da iTunes qui (oppure abbonarvi via mail qui). Ma tra qualche giorno vi racconto anche come le portiamo sul palco. Restiamo in contatto. Buon ascolto.