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Intanto in Lombardia si spara

Questa la novità: nel 2013 a Buccinasco la ‘ndrangheta torna a sparare. E lo fa con efficacia chirurgica. Intimidazione talmente eclatante da spingere la vittima a non denunciare, a cancellare le prove e, fatto grave e inquietante, a fuggire da Milano per rifugiarsi, assieme alla famiglia, in una regione del centro Italia. Movente delle minacce: aver sconfinato il suo territorio di spaccio. Ad azionare il grilletto uomini di clan minori ma storicamente alleati alle cosche di Platì dominanti nell’hinterland sud-ovest del capoluogo lombardo.

Ecco allora i fatti. Cinque colpi contro un’auto. Sparati per intimidire. Alla maniera mafiosa. Prima va in frantumi il lunotto posteriore poi quello anteriore. Un proiettile si incastra tra le due portiere. Capita a Buccinasco i primi giorni di aprile del 2013. Le nove di sera sono passate da poco. In via degli Alpini davanti al parcheggio dell’Esselunga un gruppo di ragazze esce dalla palestra. L’obiettivo degli attentatori non è distante. Poi il fatto: due uomini arrivano a bordo di una moto, il passeggero scende e inizia a sparare. Le giovani atlete assistono alla scena, ma sono distanti. Subito dopo la moto riparte. Dai locali vicini escono in molti. Hanno sentito, dicono che avvertiranno i carabinieri di Corsico. Le ragazze così se ne vanno. Nulla, però, succede. Nessuno denuncia. Di più: poche ore dopo l’auto crivellata di colpi sparisce.

I carabinieri si attivano qualche giorno dopo. Ma solo perché il passaparola consegna a un militare la descrizione della sparatoria. Il lavoro non è facile. Si torna sul posto, ma è difficile trovare indizi utili. Ci si affida così alle fonti confidenziali. Il territorio, si sa, è ad alta densità criminale. E, infatti, l’episodio non passa inosservato. Chi sa parla e indica una carrozzeria a Trezzano Sul Naviglio. Qui, poco dopo gli spari, arriva il titolare dell’auto per farla riparare. Il dato è decisivo. Salta fuori il nome del proprietario. Si tratta di un medio spacciatore di origini pugliesi. Di mestiere fa il cuoco, ha moglie e un figlio. Quando viene convocato dai carabinieri resta di sasso, sbianca, non parla. Si capisce che sa, ma non vuole dire. I carabinieri riescono comunque a ricostruire. Il movente dell’intimidazione è da ricercare nel traffico di droga gestito, in queste zone, da uomini della ‘ndrangheta. Il cuoco, naturalmente, non è un affiliato, ma un acquirente sì. Evidentemente, ragionano gli investigatori, ha sconfinato la sua zona di azione oppure non ha pagato una partita droga. Non chili, ma qualche etto. Questo il suo giro d’affari. Quindi, dopo l’interrogatorio, la fuga precipitosa.

I boss, dunque, riprendono in mano le armi. Sparano, ma non uccidono. I morti fanno troppo rumore. Tanto che, in queste zone, l’ultimo omicidio di mafia risale al 27 settembre 2000, quando viene ucciso Pasquale Ciccaldo, spacciatore con ambizioni da boss. Ciccaldo stava rientrando a Corsico. Gli spararono con un fucile a canne mozze e lo finirono con un colpo in testa. Perché, allora come oggi, la ‘ndrangheta non tollera sconfinamenti.

(il sempre bravissimo Davide Milosa)

Le riunioni della droga a Milano sotto le mutande dei Papalia

Un luogo: l’Ortomercato di Milano. Un’ipotesi: atti estorsivi, minacce, recupero crediti. La vittima è un grossista, forse campano. Il mandante delle violenze è invece calabrese. La notizia arriva sul tavolo della Guardia di Finanza di Milano nella primavera del 2012. Partono le intercettazioni. Nella rete finisce un personaggio di Reggio Calabria che non ha interessi nella struttura di via Lombroso. Gestisce, invece, una sala di slot-machine a Corsico. E lo fa per conto di uno degli eredi della cosca Papalia. La storia così cambia faccia. L’Ortomercato esce di scena. Si parla di ‘ndrangheta, di droga, di giovani boss e di un clamoroso summit registrato nell’ordinanza d’arresto emessa il 28 maggio 2013 dal gip Simone Luerti a carico di sette persone (l’ottava è ai domiciliari) accusate di traffico di droga.

Ecco allora i fotogrammi di un incontro che ricorda lo storico vertice del 1981, quando ai tavolini del bar Lyons di Buccinasco si accomodarono i maggiori rappresentanti delle cosche di Platì, Africo e San Luca. Il gotha della ‘ndrangheta. Sono le sette di sera del 6 settembre 2012. Davanti al ristorante La Romantica di Buccinasco arriva una Fiat Croma. A bordo c’è Antonio Papalia classe ’75 (attualmente solo indagato). Non uno qualsiasi, ma il nipote dei fratelli Papalia (Antonio, Rocco e Domenico) che per tutti gli anni Ottanta dai bar di Buccinasco hanno comandato gli affari della ‘ndrangheta in tutto il nord-Italia. Storia di sangue e sequestri chiusa con l’inchiesta Nord-sud. Nel 1997, i tre fratelli saranno sommersi da anni di carcere. Allora Antonio Papalia non ha ancora 18 anni. E nonostante la giovane età si mette in pista assieme ad altri due compari per uccidere l’allora sostituto procuratore dell’antimafia milanese Alberto Nobili. Tra i calabresi di Buccinasco le cose sono chiare. I vecchi boss istruiscono i giovani picciotti: “Ve lo prendete questo qui (Nobili, ndr) ve lo prendete altrimenti ce la canta”. Le “bocche di fuoco” della ‘ndrangheta vengono bloccate dagli arresti. E’ il 1993. Antonio Papalia finisce in carcere. Per ricomparire, quasi vent’anni dopo, davanti al ristorante di Buccinasco. Qui ha appuntamento con altri personaggi di peso. Nell’ordine arriveranno il nipote di Diego Rechichi, storico braccio destro del super boss Rocco Papalia, il latitante Antonino Costa, legato alla cosca Bellocco, il suo fiancheggiatore Francesco Romeo Vincenzo Galimi, imprenditore di Palmi legato alla potente cosca Gallico. In quel settembre Galimi è latitante. Lo cerca la procura di Reggio Calabria per l’inchiesta Cosa mia sulla spartizione degli appalti di un tratto dell’A3. Galimi, ricostruisce l’accusa, attraverso le sue società e per conto della ‘ndrangheta, negli anni ha ottenuto diversi appalti pubblici anche da contractor importanti come Impregilo. Questi i protagonisti. Tutti rappresentanti di alcune tra le più influenti cosche della ‘ndrangheta. Perché si sono dati appuntamento? Cosa dovevano discutere? Omissis.

L’Ortomercato questa volta non c’entra. Qui a far girare l’indagine è la cocaina. Se ne parla il giorno dopo il summit. Davanti al Mc Donald’s di piazza Argentina. C’è il duo Romeo-Costa arrivato per vendere la roba agli emissari dei Papalia. Una settimana dopo, Antonino Costa sarà arrestato dai Baschi Verdi. I militari lo trovano davanti alla stazione di Lambrate in compagnia di Romeo. Per mesi, il giovane picciotto dei Bellocco ha vissuto in un appartamento di via Padova al civico 70. Finirà in carcere un altro protagonista del summit al ristorante La Romantica. Vincenzo Galimi viene bloccato ad Arezzo l’11 novembre 2012.

Gli arresti, però, sono solo inconvenienti del mestiere. Il traffico continua. Anche l’indagine. In carcere finisce Massimo Aveta “titolare di fatto” del ristorante Kitchen story in via Pier della Francesca 2, frequentatissima strada della movida milanese. Aveta, secondo il gip, acquista e spaccia cocaina nel suo locale. Locali e bar sono luoghi decisivi di questa storia. In via Inama ne spunta un altro, il cui titolare (non arrestato) fa da intermediario tra i Papalia e acquirenti liguri.

C’è la cocaina, ma non solo. Parallelamente gli investigatori ricostruiscono i nuovi assetti della cosca Papalia. Emerge la figura di Diego Rechichi (arrestato). Non uno qualsiasi, ma lo storico factototum di un boss di peso come Rocco Papalia. Finirà in carcere negli anni Novanta. Condannato a 30 anni, era tornato a vivere in via Marconi 20 a Gudo Gambaredo. Da qui e con sporadici viaggi in Calabria, gestiva gli affari della droga. Business che, invece, il giovanissimo Francesco Barbaro (arrestato) gestiva dai domiciliari. Nato a Locri nel 1986 è il nipote di Antonio Papalia. Nel 2007 finisce dentro perché si porta in giro oltre 4 chili di cocaina pura al 90%. Un vero tesoro che, tagliato all’ingrosso, avrebbe prodotto qualche milione di euro. Il giovane Barbaro è già un boss e come tale si comporta soprattutto quando qualcuno non paga il dovuto. Ad esempio 5mila euro per una fornitura di marijuana. Chi non paga è Antonio Finis, anche lui arrestato oggi. Con il calabrese si giustifica. Dice: “Non ho ancora niente, appena ho vi vengo a trovare”. Parole che non attaccano con il piccolo principe della ‘ndrangheta: “Voi – scrive Barbaro in un sms – avete preso l’impegno a me non riguarda, comunque passate così vi spiego cosa non avete capito”.

(via)

 

Barbaro, Papalia, Luraghi e tutte quelle altre cose lì di Buccinasco

Le parole sono importanti diceva Nanni Moretti e oggi ci insegnano che le sentenze dovrebbero scrivere la storia: declino triste per una nazione che aveva fatto della propria coscienza storica un esercizio collettivo senza bisogno di un giudice come certificatore. Eppure le parole delle sentenze sono anche le maniglie per noi osservatori e narratori di storie che sono come una arrampicata.

La sentenza di Cassazione del processo Cerberus aveva rispedito al mittente la natura mafiosa della famiglia Barbaro di Buccinasco direttamente da Platì (Salvatore Barbaro, il padre Domenico, il fratello Rosario, il cognato Mario Miceli arrestati nel 2008 insieme all’imprenditore lombardissimo Luraghi) azzerando le condanne, ritenendo che non fosse stata provata la mafiosità del gruppo di Buccinasco. Non erano stati argomentati in modo sufficiente i rapporti tra i Barbaro e i Papalia: non basta, per la suprema corte, il rapporto di parentela tra le due famiglie stretto con il matrimonio tra Salvatore Barbaro e Serafina Papalia, ma è necessario provare che il gruppo di Buccinasco abbia ereditato la “posizione criminale della precedente organizzazione”, la cosca dei Papalia. E non erano stati spiegati in modo certo e lineare i numerosi episodi di intimidazione entrati nel processo (auto bruciate, colpi di pistola d’avvertimento, cantieri danneggiati…).

Pochi giorni fa è arrivata la sentenza del nuovo processo d’appello: il gruppo Barbaro è erede della cosca Papalia e le intimidazioni sono il sistema con cui l’organizzazione ha conquistato un ruolo di preminenza nell’hinterland milanese, nel settore del movimento terra. Quella di Buccinasco, dunque, è ‘ndrangheta. E dunque Maurizio Luraghi (titolare dell’azienda “Lavori stradali”) è il tipo di imprenditore milanese che decide di fare affari con le cosche e ne è sodale prima che vittima. Stringe un rapporto con la cosca Barbaro per ottenere appalti, sicurezza e favori economici e poi ne rimane stritolato. Cose vecchie che qui ripetiamo da un po’ di tempo, per carità, ma che ricominciano ad avere “le carte a posto”.

 

Il vizietto dell’ex sindaco Cereda

Barare in tutti i campi. Proprio tutti:

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Auricolare con suggeritore e occhiali scuri, forse muniti di microtelecamera per riprendere le mosse dell’avversario. Sarebbero questi i trucchi usati, secondo la Federazione scacchistica italiana, dall’ex sindaco di Buccinasco Loris Cereda, per barare a scacchi in un campionato ufficiale a squadre. Per questo, la procura della Federazione, affiliata al Coni, ha radiato l’ex primo cittadino con un provvedimento senza precedenti. Cereda, sotto processo per un presunto giro di tangenti relativo al periodo in cui guidava la giunta Pdl di Buccinasco, è stato considerato colpevole di «cheating», vale a dire farsi suggerire le mosse da un complice che nel frattempo consulta, fuori dalla sala torneo, uno dei tanti computer scacchistici che oggi sono pressoché imbattibili dagli esseri umani. L’accusa riguarda tre partite disputate in un campionato a squadre: la denuncia sarebbe partita proprio dai suoi compagni di squadra che avevano notato come le sue ultime performance avessero raggiunto livelli troppo elevati, simili a quelle di un maestro di caratura internazionale. Cereda era stato arrestato nel marzo del 2011 per presunte tangenti legate agli appalti per alcuni lavori pubblici.

da Il Corriere della Sera

Bye bye Barbaro, imprenditori (finalmente) mafiosi del Nord

Fino a ieri si poteva affermare che a Milano dagli anni ’90 non c’erano state condanne per il reato di associazione mafiosa. Fino a ieri alcuni politici e rappresentanti delle istituzioni “disinformati” potevano dichiarare che a Milano la mafia non esisteva. Fino a ieri appunto. Perchè ieri qualcosa è cambiato.

Dopo molti anni, proprio nel capoluogo lombardo, c’è stata una sentenza di condanna in primo grado per l’art.416 bis c.p. Il boss Salvatore Barbaro è stato condannato a 9 anni di reclusione, il padre Domenico (detto l’australiano) e il fratello Rosario a 7 anni. Tuttavia, la condanna più rumorosa è sicuramente quella di 4 anni e 6 mesi inflitta all’imprenditore Maurizio Luraghi che, secondo la sentenza, avrebbe messo a disposizione del clan la sua azienda, la “Lavori stradali Srl”.

I giudici della settima sezione penale del Tribunale di Milano hanno riconosciuto l’imprenditore milanese colluso con le attività criminali della famiglia Barbaro- Papalia. Finalmente la presenza di questo clan ‘ndranghetista radicato profondamente nel territorio lombrado viene riconociuta da una sentenza. Finalmente, inoltre, viene punito un imprenditore che ha chiuso gli occhi e agevolato gli affari della criminalità organizzata.

Maurizio Luraghi attraverso la sua azienda si aggiudicava gli appalti per poi girarli in subappalto alle ditte Edil company, Mo.bar, Fmr scavi e Lmt che facevano diretto riferimento al clan.

Ma, nel nostro paese del rovesciamento, l’avvocato dell’imprenditore ha affermato che il suo cliente è stato condannato “perchè si pretendeva da lui un comportamento eroico, che non si può pretendere da un cittadino se è lo Stato che non riesce a controllare questi fenomeni”. Vorrei che l’avvocato capisse che dal suo cliente si esigeva semplicemente il comportamento di ogni cittadino responsabile. È vero, come dice Don Abbondio che “il coraggio uno non se lo può dare”, ma è altrettanto vero che vi è sostanziale differenza tra codardia e collusione. La prima è una limitazione caratteriale, la seconda è un reato.

Infine, non posso non dedicare almeno un pensiero al mio pubblico più attento: Salvatore, Domenico e Rosario. Ebbene costoro hanno sempre seguito con un’attenzione quasi maniacale il mio lavoro teatrale e io ho ricambiato parlando di loro. Ho raccontato di come Domenico Barbaro avesse cominciato la carriera negli anni Settanta con i sequestri di persona e il traffico di droga e di come Salvatore e Rosario si fossero evoluti rispetto al padre, diventando imprenditori e vincendo appalti nel settore dell’edilizia. Ho raccontato di come avessero una forte influenza a Buccinasco, Corsico e Trezzano sul Naviglio. Ho raccontato che non avevano più bisogno di minacciare gli imprenditori, perchè alcuni si offrivano spontaneamente a loro.

A quanto pare ho raccontato fatti veri, che oggi sono riconosciuti da una sentenza. Queste condanne, inoltre, segnano un precedente molto importante, poiché da qui proseguiranno anche le inchieste Parco sud 1 e 2 in cui sono implicati altri imprenditori e politici locali.

Mi auguro che la magistratura possa portare a compimento tutti i processi e possa assicurare alla giustizia ‘ndranghetisti e associati.

Sono felice che il pubblico che mi ha seguito con più attenzione, Domenico, Salvatore e Rosario, finalmente non sia più impunito. Li consoli il fatto che non cesserò di parlare di loro.