Vai al contenuto

buon

Scusa, Cuba

Ve lo ricordate il 22 marzo 2020? 53 medici cubani della Brigata internazionale Henry Reeve arrivarono in Lombardia, c’erano medici, epidemiologi, anestesisti, rianimatori e infermieri specializzati in terapia intensiva. La Lombardia in quel momento era l’epicentro mondiale della pandemia nel mondo e i medici cubani, specializzati nel trattamento delle malattie infettive, vennero spediti nell’ospedale da campo di Crema. Gli “hermanos de Cuba” li chiamavano affettuosamente i colleghi italiani. La sindaca di Crema Stefania Bonaldi disse: «Ci sentiamo fortunati. All’alba siamo saliti sul loro autobus con la bandiera di Cuba tra le mani e con gli occhi lucidi per ringraziarli ancora una volta – raccontò ancora la sindaca -, ma ci piace pensare che sia stato solo un arrivederci e non un addio, perché continueremo a fare cose belle insieme». Se andate a cercare le dichiarazioni ufficiali del governo invece sono poche, rare.

Alcuni sostennero quei medici cubani addirittura come candidati al Nobel per la Pace. Peccato che l’arrivederci affettuoso che abbiamo riservato ai cubani sia uno schiaffo in faccia: nel Consiglio dei diritti umani cinque giorni fa è stata votata una risoluzione, inappuntabile giuridicamente dal punto di vista del diritto internazionale, che rilevava il pesante impatto negativo che le sanzioni, ovvero, con termine più tecnico, le misure coercitive unilaterali hanno sui diritti umani. Tra questi ovviamente c’è anche l’anacronistico embargo che gli Usa impongono a Cuba dal 1962. 59 anni di sanzioni durissime con cui lo Stato più forte impone sofferenze durissime a uno Stato più debole per piegarlo alle proprie decisioni, un bombardamento senza bombe per imporre la propria politica estera.

La risoluzione è ovviamente passata ma l’Italia è riuscita a farsi notare votando contro, in nome di un becero atlantismo che risulta assolutamente fuori tempo e che sembra essersi dimenticato dell’aiuto ricevuto in questi ultimi mesi. Un voto infame (che al momento non ha spiegazioni ufficiali) e di cui ci sentiamo di chiedere scusa. L’embargo durante la pandemia tra l’altro in campo sanitario mette a rischio anche l’approvvigionamento di macchinari indispensabili per affrontare il virus. «Potrebbe mancare qualsiasi cosa – spiegava l’Ambasciatore Josè Carlos Rodriguez Ruiz -: un componente di un apparecchio sanitario, una tecnologia o un principio attivo che potremmo reperire negli Stati Uniti, ma che non può raggiungere Cuba a causa del blocco. In quel caso saremmo costretti a rivolgerci altrove a costi molto più alti ma con grandi difficoltà. Un esempio: se volessimo acquistare una macchina della multinazionale tedesca Siemens dotata di una porzione di tecnologia statunitense non potremmo farlo…».

Scusa Cuba.

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Le domande illegittime a un colloquio di lavoro

Ciclicamente qualcuno se ne ricorda e ne scrive ma in fondo sembra non cambiare mai niente. In nome di una certa apprensione (se non disperazione) nel cercare un lavoro spesso ci si ritrova di fronte a domande che violano la sfera personale e che potrebbero essere considerate offensive dal candidato eppure ci sono leggi come il Codice delle pari opportunità o lo Statuto dei lavoratori che da tempo le vieterebbero.

In un’epoca in cui ci si è schiacciati sull’idea che il datore di lavoro sia una sorta di benefattore universale, come se non fosse uno scambio di prestazioni ma addirittura una salvezza, si moltiplicano le domande che i candidati si ritrovano mentre dall’altra parte si apre una vera e propria inchiesta sulla vita privata.

Ci sono le donne, innanzitutto, e quella solita questione di vedere la maternità come un inghippo alla produttività. Sono forti questi capi d’azienda: si lamentano della bassa natalità in Italia (che gli deve garantire sempre nuove generazioni di consumatori) ma vorrebbero che a fare figli siano le dipendenti degli altri, mica le loro. Così la domanda sulla situazione sentimentale di una candidata (che non accetteremmo nemmeno dalla nonna durante la cena di Natale) diventa un episodio ricorrente. A ruota c’è il solito “vuole avere figli?” che qualcuno prova a mimetizzare dietro il più vago “come si vede tra 5 anni?” (temendo la risposta “mamma”): peccato che per l’articolo 27 del decreto legislativo 198 del 2006, il Codice delle pari opportunità fra uomo e donna, «È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale». Il secondo comma dell’articolo spiega che la discriminazione è proibita anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza.

Se ci sono figli si accavallano anche le domande come “Hai la nonna che li gestisce?”, “Ma quanti anni hanno i tuoi figli?”, anche queste illegittime. Chi cerca lavoro si organizza gli impegni famigliari senza il bisogno della consulenza o dei timori del suo capo personale. Grazie no, no grazie.

Anche sapere che lavoro facciano i propri genitori non è interessante ai fini di un colloquio, come dice il decreto 198 del 2006. Poi c’è, importante, l’articolo 8 dello Statuto lavoratori, secondo cui: «È fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore». Lo stesso Statuto dei lavoratori vieta la domanda su un’eventuale iscrizione a un eventuale sindacato, con buona pace di qualche nuovo idolo del liberismo. Un datore di lavoro non può basare le sue decisioni su una persona in base alla sua nazionalità. Chiedere a qualcuno le sue origini viola il decreto legislativo 215 del 2003 “Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica”.

Ci sono regole già chiare (e giuste) scritte per evitare discriminazioni. Ogni tanto capita di rileggerle e accorgersi che il mondo là fuori invece non si è modificato per niente come sperava il legislatore. E allora vale la pena ricordarle.

Buon lunedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Luigi de Magistris: «La Calabria non sarà più la periferia d’Europa»

Luigi de Magistris, a pochi mesi dalla fine del suo doppio mandato come sindaco di Napoli, è pronto a ributtarsi in un’altra sfida politica che appare impossibile: diventare presidente della Calabria così sempre uguale a se stessa e farlo da ex magistrato che proprio lì, in Calabria, ha vissuto i suoi momenti più difficili. Gli abbiamo chiesto sensazioni e prospettive.
De Magistris, perché questa decisione di candidarsi come presidente proprio in Calabria?
È stata una scelta imprevedibile e imprevista. Non era nei programmi. Poi, a dicembre dell’anno scorso, sono arrivate una serie di sollecitazioni da persone che conosco e che mi hanno conosciuto nel corso degli anni, da amici, e hanno cominciato a chiedermi se fossi disponibile. Devo ammettere che all’inizio non ci pensavo molto, poi ho cominciato a rifletterci. La condizione vera è il mio amore per la Calabria: una terra a cui sono legato fin da bambino, in cui ho vissuto dieci anni e in cui per nove anni ho lavorato come pubblico ministero. È una scelta di passione e di amore legata a un progetto politico, all’idea di un laboratorio che possa realizzare la rottura di un sistema e la costruzione di un buon governo credibile attraverso storie e persone con le quali ci stiamo connettendo giorno dopo giorno. La definirei una scelta di profondo amore legato alla Calabria.
Però vista anche la sua vicenda personale, ciò che la Calabria le ha portato in passato, vedendo anche i risultati delle tornate regionali, non le viene il dubbio, come dicono alcuni, che sia una terra irredimibile?
No. È una terra fertile che una certa politica ha voluto desertificare rendendola arida e incoltivabile. Io credo che la Calabria – l’ho visto con i miei occhi e quindi ne sono testimone – sia ricca di storie personali e collettive straordinarie; penso al mondo della cultura, dell’impresa, dell’agricoltura, dell’artigianato. Penso all’impegno forte nel campo dell’ambientalismo e della lotta alle mafie. È una ricchezza che non ha mai trovato, soprattutto a livello regionale, un’adeguata rappresentanza politica.
A proposito di lotta alle mafie, c’è in corso in Calabria un processo storico come Rinascita-Scott e la sensazione è che ci sia intorno un evidente calo di attenzione non solo da parte dei media ma anche da parte dei cittadini. L’antimafia è passata di moda?
Che ci sia un calo di attenzione lo registro soprattutto a livello politico nazionale, il tema non fa parte più di un’agenda prioritaria. Rinascita-Scott è un processo molto importante. Che per tanti anni si sia abbassata l’attenzione, lo dimostra il fatto che uno dei principali imputati di quel processo, l’avvocato Pittelli, fu da me coinvolto in maniera forte nelle due indagini che mi furono sottratte illegittimamente, Poseidone e Why not, e anche all’epoca avevamo ricostruito il suo ruolo di anello di collegamento tra settori della criminalità e settori delle professioni, delle istituzioni, della politica e della magistratura. Ora siamo a 13 anni dopo. Pensate quanto questo personaggio avrà fatto in questi 13 anni. Se 13 anni fa ci fu un potere che ci fermò significa che c’è stato un clima…

L’articolo prosegue su Left del 26 marzo – 1 aprile 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

L’Egitto, Regeni e le bugie di Guerini

«In seguito all’omicidio di Regeni la Difesa, in completa sintonia e raccordo con le altre amministrazioni dello Stato, in primis con il ministero per gli Affari esteri e la cooperazione internazionale, ha prontamente diradato il complesso delle relazioni bilaterali con l’omologo comparto egiziano»: sono le parole del ministro alla Difesa Lorenzo Guerini alla commissione d’inchiesta parlamentare sulla morte di Giulio Regeni, pronunciate lo scorso 28 luglio. In fondo, se ci pensate bene, è la posizione di tutti i governi che provano a fare passare l’idea di un raffreddamento dei rapporti con al-Sisi (che sarebbe il minimo, visto quello che è accaduto).

Peccato che sia falso. Il bravissimo giornalista Antonio Mazzeo mette in fila tutto ciò che è accaduto tra Italia e Egitto dopo la morte di Regeni ed è un elenco che fa spavento e che grida vendetta. Una vergogna.

Nel 2016, l’anno della morte di Regeni, la Polizia italiana ha addestrato in diversi centri i poliziotti di al-Sisi oltre a spedire in Egitto un migliaio di computer e di apparecchi.

Nel gennaio 2018 l’Italia spediva in Egitto 4 elicotteri AugustaWestland già in uso alla Polizia di Stato e il ministero dell’Interno cofinanziava al Cairo un progetto di “formazione nel settore del controllo delle frontiere e della gestione dei flussi migratori”.

Dal 13 al 16 novembre 2017, una delegazione del Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto ha fatto visita ufficiale per incontrare la Guardia costiera egiziana.

Il Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto si è recato nuovamente in visita ad Alessandria d’Egitto dal 25 al 27 giugno 2018. Alcuni giorni dopo la conclusione della visita ufficiale in Egitto, l’allora ministra della Difesa, Elisabetta Trenta (M5s), s’incontrava a Roma con l’Ambasciatore della Repubblica araba d’Egitto, Hisham Mohamed Moustafa Badr. «L’Italia reputa l’Egitto un partner ineludibile nel Mediterraneo, affinché quest’area raggiunga un assetto stabile, pacifico e libero dalla presenza terroristica», dichiarava la ministra.

Il 13 agosto 2018 era la nuova fregata multimissione (Fremm) “Carlo Margottini” della Marina militare a recarsi ad Alessandria d’Egitto per svolgere con la Marina egiziana “un breve ma intenso addestramento, che ha permesso al personale delle due fregate di misurarsi in un contesto multinazionale”.

La prima delle due fregata multimissione ordinate dall’Egitto è stata consegnata a fine dicembre 2020 dopo due mesi di intense attività addestrative dei militari egiziani a La Spezia, condotte dal personale della Marina italiana e Fincantieri.

Il 22 novembre 2018 una delegazione della Forza aerea egiziana, accompagnata da rappresentanti del gruppo militare-industriale Leonardo S.p.a., si recava in visita al 61° Stormo e alla Scuola internazionale di volo con sede nell’aeroporto di Galatina (Lecce).

«Italia ed Egitto hanno completato nel 2019 un programma congiunto per l’individuazione degli effetti dell’esposizione alle radiazioni in caso di un’emergenza nucleare e delle contro-misure e dei trattamenti che possono essere predisposti», rivela un recentissimo dossier dello Science for peace and security programme della Nato.

A Roma dal 25 al 27 maggio 2016 si è tenuto un meeting in ambito nucleare-chimico-batteriologico tra Italia e Egitto tenuto segreto e rivelato da un dossier della Nato.

Questi sono gli incontri ufficiali, poi ci sono i soldi di cui abbiamo scritto. E poi volendo c’è anche il giochetto squallido sull’ambasciatore italiano: si minaccia di ritirarlo, poi sì, poi no.

Ora, vedendo tutti questi episodi (e sono quelli conosciuti) messi uno dopo l’altro davvero vi pare che siano rapporti “freddi”? Davvero nessuno ha un dito da alzare sulle parole di Guerini?

Buon venerdì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Quindi querelerà la Cia

Eccolo qui, il senatore fiorentino Matteo Renzi, che si incaglia ogni volta che incappa in un’intervista che non compie da solo e che davanti ai giornalisti, giornalisti veri che fanno domande vere e che non servono solo per reggere il microfono, si incarta in una serie di risposte che come al solito eludono le questioni.

Dice Renzi che non c’è nessun conflitto di interessi se un senatore della Repubblica italiana ed ex presidente del Consiglio viene usato, profumatamente pagato, per essere il fondotinta di uno Stato illiberale e dittatoriale come l’Arabia Saudita. Poi precisa che non esistano regole che glielo impediscano e qui sta il punto: il tema non è contravvenire una regola che (purtroppo) non esiste ma l’opportunità di quel gesto. Quindi Renzi rivendica il diritto di essere inopportuno finché non è illegittimo. Buono a sapersi.

Quando qualcuno gli fa notare che Tony Blair è un ex politico che non riveste nessun ruolo attivo il senatore fiorentino butta la palla in tribuna dicendo che comunque Blair riveste un ruolo attivo nel dibattito politico del Paese. Capito? Non coglie differenza tra un politico in carica e un ex politico. Bene così, buono a sapersi.

Ma il punto fondamentale e forse più vergognoso è quando dice «Mohammad Bin Salman? È un mio amico e che sia il mandante dell’omicidio Kashoggi lo dite voi. L’amministrazione Biden non ha sanzionato Bin Salman». Renzi deve avere letto molto distrattamente il report della Cia (ma evidentemente anche i documenti dell’Onu) che dicono tutt’altro. Oppure avrebbe potuto ascoltare le parole della promessa moglie del giornalista saudita. Ma pur di difendersi riesce addirittura a mettere in discussione un omicidio di gravità internazionale che è stato raccontato, studiato e indagato in ogni dove. E siccome la negazione traballa ci tiene a farci sapere che Biden non abbia «bannato» (dice proprio così, come se fossimo su Facebook) il principe saudita. Quindi finché gli Usa non bombardano i sauditi lui si sente tranquillo, buono a sapersi.

Quel “lo dite voi” ha lo stesso suono di quel “questo lo dice lei” che la grillina Castelli usò come “specchio riflesso” con l’ex ministro Padoan parlando (a sproposito) di spread: vi ricordate come ci divertimmo tutti a percularla? Bene, in questo caso c’è di mezzo un giornalista fatto a pezzi. Ognuno misuri le debite proporzioni.

Ora se Renzi è coerente immagino che continuerà a fare come sta facendo negli ultimi mesi, querelando a man bassa chiunque contravvenga la sua narrazione e quindi evidentemente scrivendo anche una bella querela all’Onu e alla Cia. E poi magari bannerà Biden su Twitter. E a posto così.

Buon giovedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Essere Marcucci

Se qualcuno vuole toccare con mano cosa sia stato per Zingaretti guidare il Partito democratico può comodamente assistere alla sceneggiata che si consuma in queste ore con il capogruppo al Senato Andrea Marcucci.

Un attimo, faccio un passo indietro: ci si dimentica spesso quando ci si ritrova a discutere del Pd che i parlamentari che siedono in Parlamento sono figli delle liste approntate da Matteo Renzi, uno che in termini di premiazione della fedeltà come immancabile qualità politica dei suoi è praticamente insuperabile. Quando si parla di Pd, di come il Pd è cambiato in questi ultimi anni, non si può non tenere conto che la squadra parlamentare è sempre quella, figlia di quell’esperienza, figlia di quel momento.

Andrea Marcucci è stato un renzianissimo: a 27 anni era già deputato nel Partito liberale italiano (non propriamente un erede di Berlinguer, diciamo), ha amato il Pd di Renzi che guardava a destra (ma va?), odia da sempre il M5s (basta andare indietro nelle sue dichiarazioni per accorgersene) e quando Renzi decise di andarsene per fondare Italia viva pianse. Però rimase nel Pd. Ieri Fiano durante l’assemblea dei senatori Pd ha sottolineato che nel Pd “non ci sono ex renziani”. Apprezziamo lo sforzo, ce lo auguriamo tutti ma che qualcuno abbia indossato le vesti del “sabotatore interno” è una sensazione che è emersa più di una volta.

Marcucci comunque diventa capogruppo al Senato e quando il nuovo segretario Letta chiede che siano due donne a guidare le compagini parlamentari, mentre Delrio alla Camera accetta di fare un passo indietro l’inossidabile Marcucci si aggrappa alla poltrona. Irresistibili le sue giustificazioni delle ultime ore: «Decidiamo insieme ma no a imposizioni», dice, come se la decisione di Letta non sia figlia di un organo dirigente e puntando un po’ a fare la vittima, poi aggiunge «crediamo che la questione dell’alternanza di genere sia fondamentale per il nostro partito – si legge nella lettera di Marcucci a Letta – Crediamo anche che oltre gli atti simbolici, che pur a volte sono necessari, serva allargare il campo alle prossime elezioni amministrative, si vota in 8 importanti città, ai tanti luoghi dove un Pd declinato troppo al maschile, esercita funzioni di governo, e non ultimo nella cariche apicali del partito, dove per troppi anni le donne non sono state protagoniste», proponendo in sostanza di trovare donne per sostituire altri uomini ma non lui e infine ha rivendicato “l’autonomia dei gruppi parlamentari”, sempre per quella vecchia storia di riuscire a mostrare sempre e ovunque disunità nel partito. Ora, com’è nelle sue corde, Marcucci ha convocato l’assemblea dei senatori per giovedì. Insomma, non ce la fa, è la sua natura.

Buon giovedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Le Regioni in ritardo sui vaccini sono tutte guidate dalla Lega

Le Regioni in ritardo sui vaccini sono tutte guidate dalla Lega

La bellezza dei numeri è che stanno là, non si possono piegare, ed è sempre buffo quando qualcuno prova a invertirli come se fossero propaganda, malleabili alle bugie. I numeri della Lombardia sulla capacità di contenimento del virus e sulla capacità di vaccinazione sono sotto gli occhi di tutti, erano settimane che lampeggiavano evidenti nonostante il clan di Fontana fosse concentrato a impantanarli con quintali di fondotinta, e non è un caso che alla fine la narrazione “vincente e operosa” usata come scudo sia crollata sotto gli strilli di Bertolaso, di Letizia Moratti e infine di Fontana stesso.

Una bugia non può durare per sempre: prima o poi ci si infiltrano i numeri e alla fine crolla. In Lombardia la Giunta regionale ha puntato il dito contro una partecipata voluta dalla Giunta stessa, sperando di scaricare la propria responsabilità su conto terzi.

Non sta funzionando, non funzionerà e non sarà un successo nemmeno il finto pugno di ferro di Salvini che promette punizioni esemplari che si sono risolte nella morbida richiesta ai vertici di Aria di dimettersi. Non li hanno nemmeno cacciati, questi che vorrebbero essere i giustizieri della notte: hanno detto loro “Per favore ve ne andate? Che dite? Vi sembra una buona idea?”.

Ma i numeri dicono che la media nazionale delle somministrazioni dei vaccini è all’82,4% delle dosi che sono state consegnate. E i numeri dicono che le Regioni governate dalla Lega di Salvini sono di fatto tutte sotto la media nazionale.

Insomma, non è questione solo di Lombardia ma qui sorge più di un legittimo dubbio che si tratti proprio di un’incompetenza diffusa: la Sardegna di Solinas (indipendente ma sostenuto dalla Lega e sponsorizzatissimo da Salvini) brilla all’ultimo posto con il 70,5% delle dosi somministrate, la Liguria di Giovanni Toti (un altro che Salvini ci pone da sempre come esempio di capacità amministrativa) si attesta più o meno sulla stessa percentuale, la Calabria di Spirlì (che Salvini vorrebbe addirittura come candidato presidente) sta al 71,5%, al 78,3% la Lombardia, 80,1% per il Veneto di Zaia, 81,6% per l’Umbria di Donatella Tesei e 82% per Fedriga in Friuli Venezia Giulia.

Sono tutti, tutti, sotto la media nazionale. Sarà sfortuna? È un terribile complotto ordito dai poteri forti? Le fiale del vaccino sono comuniste e scappano dalle mani degli infermieri nelle Regioni governate dalla Lega? Su questo sarebbe bello sentire la risposta di Salvini. Ma Salvini, vedrete, non risponderà. Al massimo twitta la foto di lui con un panino.

Leggi anche: È ora di commissariare la Sanità lombarda: lettera al ministro Speranza

L’articolo proviene da TPI.it qui

E domani, chi li difenderà?

Ieri tutti i quotidiani (e anche oggi sulle edizioni cartacee) si sono improvvisamente svegliati sulle condizioni di lavoro dei dipendenti di Amazon. Sdegno e sconcerto sparso a fiumi come se la politica e il giornalismo avessero bisogno di uno sciopero per rendersi conto delle condizioni in cui si ritrovano moltissimi lavoratori (mica solo di Amazon, eh) e una diffusa “first reaction shock” per abusi che si sapevano da anni. C’è una buona notizia, comunque: scioperare serve ancora, anche alla faccia di chi in questi anni ha voluto svilire lo sciopero come bighellonaggine senza senso. Lo sciopero di ieri dei dipendenti di Amazon in Italia (con un’adesione altissima, circa il suo 75%, tenendo conto dei metodi feroci che l’azienda mette in campo contro qualsiasi suo dipendente che si permetta di alzare una qualsiasi osservazione) è stato uno sciopero nobile perché ha visto l’Italia in prima fila nel mondo: «Vogliamo augurare a tutti voi, fratelli e sorelle italiani, buona fortuna per il vostro sciopero nazionale. Questa è una lotta globale, una lotta di giustizia e siamo dalla vostra parte. Vogliamo ringraziarvi, esprimere la nostra solidarietà e condividere il nostro sostegno», è il messaggio arrivato ieri dal costituendo sindacato dei lavoratori Amazon in Alabama.

Ieri ci si è accorti che esistono aziende che impongono ritmi di lavoro insostenibili, calcolando tempi di spostamento che immaginano strade deserte e incessanti giornate di sole. «Basta essere schiavi dell’algoritmo», dice qualche politico giustamente sdegnato. Qualcuno li informi però che dietro la progettazione degli algoritmi ci sono gli uomini e tanto che ci siamo qualcuno dica ai media e alla politica (che improvvisamente si ridestano attenti sul tema) che ci sono aziende che non hanno algoritmi eppure imprimono ritmi massacranti ai propri lavoratori allo stesso modo, con una ferocia forse meno matematica ma con lo stesso risultato di perdita della dignità.

Lo stesso discorso vale per gli stipendi da fame (giustamente ieri i lavoratori Amazon facevano notare che nonostante facciano le notti non arrivino a prendere 1.300 euro) e allo stesso modo il problema dei contratti che durano solo qualche mese sono un problema diffuso anche fuori dai magazzini di Amazon. Insomma: se ieri in molti finalmente hanno riconosciuto che quelle condizioni non siano sostenibili allora adesso si potrebbe fare il passo successivo e ascoltare i troppi lavoratori che sono nelle stesse condizioni anche senza essere stipendiati da una multinazionale. Ieri, incredibile, per un giorno è diventato finalmente un tema di discussione l’indegna condizione di alcuni lavoratori in Italia. Se ne sono accorti perfino quelli che ci spiegavano come fosse bello consegnare cibo in bicicletta, inventandosi un genere letterario.

Poi ci sarebbe un’altra domanda: questi che esistono solo se scioperano, negli altri giorni, tutti i giorni, chi li difende?

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il condono di Draghi non serve a niente: è solo uno spot per la Lega di Salvini

Se esistesse un corso di laurea sull’inquinamento lessicale ci sarebbe sicuramente l’esame di narrazione del condono. C’è già una sterminata bibliografia a disposizione nel corso di tutti i governi della nostra Repubblica: ogni volta a spremere la fantasia per trovare un sinonimo morbido, qualcosa che ne faccia sentire il profumo senza mostrarne le forme, panegirici goffi per ammorbarlo addirittura di etica, condimenti per porgerlo come doveroso e necessario.

Il condono del governo dei migliori non poteva essere altrimenti, “una misura per uscire dalla crisi della pandemia” è il refrain che si sono appuntati sula mano i parlamentari che sgusciano le interviste. E fa niente che infilare un condono fiscale in un decreto che dovrebbe sostenere l’economia sia qualcosa che non ha niente a che vedere con la ripartenza, e fa niente che un condono che interessi il periodo che va dal 2000 al 2010 non abbia niente a che vedere con questi ultimi 12 mesi di sofferenza (vera) dei lavoratori italiani inghiottiti dal singhiozzo inevitabile delle attività lavorative.

Chi ha pagato normalmente le tasse negli anni passati e si ritrova ora in crisi economica a causa della crisi che si spande sul Paese di questo condono non può farsene niente se non maledirsi (e maledire il proprio commercialista) per avere incautamente pensato di seguire le regole fiscali negli anni scorsi quando l’italica furbizia gli avrebbe dovuto consigliare di mettere da parti soldi evasi prevedendo “tempi peggiori”.

Curioso anche che tra i condoni narrativi che vengono usati per condonare il condono Mario Draghi ci spieghi che la macchina pubblica sia talmente inefficiente da non riuscire mai a recuperare quelle somme: in sostanza non rimane nemmeno in piedi l’abusata scusa di incassare pochi soldi ma subito (come avveniva nelle altre occasione) visto che semplicemente si certificano come “persi” dei soldi che sono considerati “persi”.

Questa volta non esiste nemmeno un beneficio immediato, c’è solo il costo sociale di incentivare (e giustificare) l’evasione fiscale: 666 milioni di gettito in meno che non portano sostanzialmente nessun vantaggio. E allora a chi serve il condono? Facile: è un ottimo spot di Salvini per dire ai suoi elettori che loro della Lega si propongono come affidabile parte politica per questo genere di operazioni, apprezzate da una fetta dell’elettorato che è sempre stata ritenuta molto appetibile per i partiti. “Siamo noi, siamo questa cosa qui, dateci mano libera e faremo ancora meglio”: messaggio ricevuto.

Leggi anche: 1. Il governo Draghi approva il condono della Lega per le cartelle esattoriali / 2. Perché condonare le tasse del 2010 non è una buona strategia per la crescita di oggi (di Elisa Serafini)

L’articolo proviene da TPI.it qui