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cambiamento

Il piglio dei saputelli. E vorrebbero essere classe dirigente.

Non se ne esce. Ogni tanto si ha la sensazione di stare in un imbuto dove il restringimento è il sentiero stretto di chi non è più abituato a discutere e mettersi in discussione. Il problema non è del PD, il problema è culturale in uno scollegamento che sembra una lacerazione definitiva. La politica che non si mette in discussione è la politica che agisce senza discutere. Delle scelte da adottare a testa bassa e pancia a terra. Quella che non porta buoni risultati nemmeno allo stand delle salamelle. Ma la forma mentis che impera è quella del piglio da saputelli di una classe dirigente che pretende di avere il diritto di non esprimere una direzione. Una freccia spuntata che non vuole ingorghi. E nemmeno immaginazione. Lo scrive bene oggi Irene Tagli su La Stampa:

Non importa se poi Berlusconi cambierà di nuovo idea o se il Pd farà davvero le primarie aperte dentro al partito: quello che colpisce di queste dichiarazioni è il tono e il messaggio che lanciano. E’ il modo con cui questa classe dirigente, che ci accompagna da decenni e che ci ha portato sull’orlo del disastro economico e sociale, si ripresenta di fronte ai cittadini col piglio di chi è il padrone assoluto della vita politica del Paese, e che quindi si riserva il diritto di decidere se, quando e come un rinnovamento sarà concesso.

Una spocchia che denuncia non solo una visione della politica ma anche del rapporto intergenerazionale e dei processi di rinnovamento completamente distorta. Una mentalità perfettamente sintetizzata dal segretario del Pd Pierluigi Bersani quando qualche mese fa, replicando a distanza al sindaco di Firenze Matteo Renzi, dichiarò che il partito era apertissimo ai giovani, purché si mettessero «a servizio». Un’immagine terribile, che evoca i giovani come materiale ad uso e consumo dei dirigenti e delle logiche di partito. Berlusconi, che ama definirsi uomo di fatti più che di parole, non ha fatto dichiarazioni del genere ma ha semplicemente agito seguendo questa stessa logica quando ha indicato Alfano come suo successore, per poi buttarlo in un angolo pochi mesi dopo e riproporsi egli stesso in prima linea. E non danno esempi migliori le alte dirigenze di partiti più piccoli come la Lega Nord o l’IdV.

Al di là delle ripercussioni che questa situazione politica ha sulla nostra immagine e credibilità internazionale, non va sottovalutato l’effetto che esso ha al nostro interno. Atteggiamenti e dichiarazioni di questo genere, infatti, non solo mortificano i cittadini e la loro voglia di cambiamento, ma anche tutte le migliaia di persone giovani e meno giovani che da anni si battono con passione all’interno dei partiti per un loro rinnovamento, per un ricambio di idee e di persone vero e profondo.

Fino a un paio di anni fa si diceva che la colpa era delle giovani leve, che non erano abbastanza critiche, indipendenti, che non avevano il coraggio di sfidare i propri leader, di discutere, di proporre, di lanciare messaggi chiari. Ma negli ultimi anni di giovani indipendenti e determinati abbiamo cominciato a vederne, in entrambi gli schieramenti. Le elezioni amministrative, per esempio, sono state occasioni in cui alcune di queste figure «rinnovatrici», più o meno giovani, hanno saputo mettersi in gioco ed affermarsi con successo. Ciascuno di questi successi avrebbe dovuto lanciare un segnale chiarissimo ai vertici nazionali dei partiti. E invece niente.

Progressisti, ma per davvero, per un’alternativa socialista europea

L’argomento è spinoso e per fortuna ci costringe a volare un po’ più alti delle vicende lombarde o dei pettegolezzi italiani. Perché come mi faceva notare una mail che mi è arrivata pochi minuti fa, c’è questa impressione che l’Italia sia un’anomalia e si perde di vista che la situazione europea è figlia dei governi di questi ultimi anni. Come mi scrive Stefano invece che cercare di costruire anche in Italia le condizioni di una “normalizzazione” (qui sì, positiva) in senso europeo, riprendiamo ragionamenti che, tra le altre cose, hanno portato l’Italia ad avere l’unico partito democratico, all’americana, invece di una forza socialista di stampo europeo. Ecco il manifesto (e appello) per un’alternativa socialista europea:

I cittadini europei possono ora vedere da soli le conseguenze di una destra al potere in quasi tutti gli stati membri e, conseguentemente, capace di dettare legge a Bruxelles. La gestione della destra della gravissima crisi debitoria durante gli ultimi due anni è stata una triste saga di cattiva amministrazione politica e di analfabetismo economico. I cittadini europei pagheranno ora con livelli di disoccupazione da anni ’30 il prezzo degli illusori rimedi economici stile anni ’20 che i conservatori hanno imposto.

Il modello che stanno presentando è per una Unione Europea di Austerità che abbasserà il tenore di vita di quasi tutti, acuirà le diseguaglianze, distruggerà le fondamenta dello stato sociale – che è il contributo specifico dell’Europa allo sviluppo dell’umanità – e lentamente cederà l’arbitrio politico ad autorità non elette, in un vano tentativo di tranquillizzare il mercato. Noi sottoscritti, da lungo tempo membri dei partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti, crediamo che i cittadini d’Europa meritino di più delle prospettive inquietanti promesse dai conservatori al potere e dei risultati catastrofici che hanno ottenuto. Ma il rinnovamento della sinistra democratica in Europa può essere ottenuto soltanto tramite un ampio e vigoroso dibattito che coinvolga non soltanto gli eletti dei nostri partiti ma tutti i nostri membri e un più vasto pubblico. A questo scopo proponiamo in questo documento alcune idee progressiste per una riforma socialista che potrebbe costituire la base per un nuovo appello ai cittadini europei. La storia ha accelerato negli ultimi anni. I socialisti europei sono rimasti indietro. Spesso incapaci di dare voce alla rabbia pubblica contro “l’alta” finanza, reticenti a cooperare con gli altri socialisti al potere in altri stati membri dell’EU, passivi nei forum internazionali sul commercio o sui cambiamenti climatici, i partiti socialdemocratico e laburista in molti paesi hanno visto la loro popolarità sprofondare ai minimi storici. A peggiorare ancora le cose, il malcontento generato dalle attuali politiche dell’UE e dei suoi governi è stato sfruttato politicamente, non dalle sinistre ma dai populisti xenofobi, dai nazionalisti e dall’estrema destra.

La nostra convinzione è che questa crisi dovrebbe riscattare la sinistra e punire energicamente il fallimento della destra che l’ha mal gestita e non ha dato all’Europa una strada da seguire. Tutto ciò sarà credibile solamente se la sinistra sarà in grado di fornire una serie coerente di proposte alternative per rispondere alla crisi. Per essere credibile la sinistra ha bisogno di un’esposizione chiara della crisi attuale, di un insieme di principi condivisi per azione futura, e di un programma che vada al cuore della crisi. L’analisi è limpida. Le economie europee come tutte le altre sono state demolite dall’irresponsabilità quasi criminale del settore finanziario globale.

Ma l’Europa si confrontava già con un declino a lungo termine. Ciò in parte è dovuto a un riequilibrio già da tempo dovuto delle quote di ricchezza globale fra l’Occidente e le economie emergenti dell’Oriente e del Sud. Ma, nel corso di questo processo, abbiamo permesso alla globalizzazione di aumentare gli squilibri nelle quote di ricchezza all’interno di tutti i paesi. Senza mai mettere in questione le regole del gioco, abbiamo permesso che penalizzasse tutti i paesi con sistemi di welfare avanzati, abbassando il tenore di vita, aumentando le diseguaglianze, incrementando la parte di reddito nazionale destinata ai profitti delle imprese a spese dei salari in economie di mercato socialmente avanzate. La povertà sta di nuovo aumentando. Questo fenomeno che già era in corso in Europa sta ora accelerando. La voce dell’Europa nei forum internazionali come il G20, le conferenze sul commercio e sui cambiamenti climatici è spesso troppo debole al punto di essere inaudibile a causa di divisioni interne ed alla mancanza di una strategia alternativa chiara. I principi dell’azione socialista in Europa dovrebbero ugualmente essere chiari. Un’azione collettiva in Europa è semplicemente indispensabile. Chiunque creda che possiamo proteggere il tenore di vita e mantenere servizi di welfare tornando indietro al modello degli stati nazione del diciottesimo secolo, rimpatriando le competenze da Bruxelles alle capitali nazionali, minando le istituzioni comunitarie sta, volente o nolente, promuovendo la sottomissione delle nostre nazioni alle superpotenze, passate e future, ed alla dittatura del mercato. La risposta europea alla crisi è stata vacillante ed insufficiente, ma le soluzioni nazionali, anche se vigorosamente perseguite, sarebbero irrilevanti nel mondo globalizzato in cui ora viviamo. Una risposta socialista alla crisi deve pertanto essere europea. Non si tratta semplicemente di un mantra “più Europa” ma precisamente di dare all’Europa i mezzi per proteggere gli interessi ed il benessere dei cittadini europei. Deve essere una risposta concordata, condivisa, unitaria e sovranazionale per assicurare che la voce indipendente dell’Europa sia autorevole, forte e chiara nei G20, nel ciclo di Doha, nelle negoziazioni sui cambiamenti climatici ed alle Nazioni Unite. L’Unione Europea ha ora la sua propria voce nel sistema delle Nazioni Unite: essa deve mostrare il coraggio e la volontà di utilizzarla per perseguire i nostri interessi obiettivi ed i nostri valori, facendo causa comune con tutti i governi e le organizzazioni regionali di tutto il mondo che li condividono. Il suo approccio economico dovrebbe essere coerente e basato su tre elementi; responsabilità condivisa, crescita ed eguaglianza. Non c’è niente di socialista nello spreco della spesa pubblica e nell’accumulo del debito. Poiché noi crediamo nella spesa pubblica, abbiamo il dovere di assicurarci che il suo utilizzo sia efficace. Progetti stravaganti, lo stile di vita eccessivo di certe istituzioni pubbliche, la ridondanza riguardante la molteplicità dei programmi nazionali ed europei che hanno vita propria senza alcun controllo sull’efficacia, dovrebbero essere ridotti o eliminati. Ma una gestione rigorosa del budget si può ottenere equilibrando la spesa pubblica con un sistema fiscale equo, basato sul principio della “capacità contributiva”, con il settore privato che paga la sua parte dell’onere ed una lotta totale all’evasione fiscale così diffusa in tutta l’Unione; abbandonando le riduzioni d’imposta per i più ricchi, eliminando la manna dei bonus nel settore finanziario mediante specifiche tasse punitive ed attaccando vigorosamente i paradisi fiscali.

Il rigore senza la crescita condannerà gli Europei a un decennio perduto di declino e recessione. La crescita implica un’azione nazionale ed Europea avente come motore il budget dell’EU ed i suoi strumenti finanziari. La Sinistra al potere a livello europeo ha fatto progressi nell’affrontare discriminazioni di ogni tipo. La difesa e l’estensione delle eguaglianze – e l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in ogni parte dell’unione – deve essere nel cuore di un programma socialista europeo. Ma l’eguaglianza economica è un concetto quasi scomparso dal lessico socialista nelle ultime decadi pur essendo il fulcro di qualunque nozione di giustizia sociale. Adesso è indispensabile per la ripresa dell’Europa. Se i cittadini credono che il peso della crisi cada ingiustamente su di loro, se sono obbligati a fare i conti con tagli reali nelle buste paghe ed assistere ad un ritorno ai livelli di povertà degli anni ’80, mentre la protezione sociale ed i finanziamenti delle politiche pubbliche vengono tagliati, mentre gli scandali della cultura dei bonus, la crescita smisurata degli stipendi più alti e le volgari esibizioni di spese stravaganti da parte dei  super-ricchi continuano inesorabilmente, qualunque sforzo collettivo per raddrizzare il nostro declino economico sarà minato, l’efficienza economica sarà messa in discussione e la fede nella democrazia sarà indebolita. Sulla base di questo approccio comune, e della riasserzione delle nostre tradizionali convinzioni socialiste, la Sinistra deve adesso sviluppare una piattaforma comune per il futuro.

Questa dovrà avere i seguenti dieci elementi:

1) Una politica economica per l’Unione che collochi gli obiettivi economici e sociali stabiliti nel trattato (crescita, pieno impiego, inclusione sociale) al cuore del processo di decisione politica con altrettanto vigore e forza organizzativa di quella accordata all’obiettivo della disciplina di bilancio; inoltre un’attualizzazione degli obiettivi sociali dell’Unione, improrogabile per arrivare a sradicare la povertà e a rafforzare il dialogo sociale; a questo scopo, un insieme di diritti e di obiettivi sociali fondamentali deve essere fermamente incluso nel Trattato, con gli stessi strumenti di sorveglianza e di messa in opera che esistono per garantire le libertà economiche;

2) Sostenibilità per la moneta unica; il mandato della BCE deve evolversi nel riconoscere il suo diritto di comprare bonds governativi quando la valuta è sotto attacco, con una responsabilità realmente condivisa per la governance economica; se la Banca Centrale Europea non è autorizzata ad agire per salvare la valuta che si suppone debba gestire, a che cosa serve?

3) Riforma del bilancio; gli aumenti del budget europeo devono servire principalmente per promuovere le tecnologie innovative, per finanziare investimenti sociali, di infrastrutture e di sviluppo sostenibile; il Budget deve essere gestito in stretta collaborazione con la Banca Europea d’Investimento;

4) Riforma dei redditi; le risorse proprie dell’UE possono essere incrementate da tasse sull’energia; gli Stati Membri dovranno vedersi accordare più margine di manovra per ridurre l’IVA, per stimolare i consumi interni e per sopprimere le fiscalità regressive;

5) Una tassa sulle transazioni finanziarie per stimolare incentivi sull’impiego nell’industria e nei servizi per le PMI, per incoraggiare la ricerca e lo sviluppo, e per finanziare obiettivi pubblici globali come la lotta contro il cambiamento climatico e a sostegno dello sviluppo;

6) Investimenti Europei tramite Project Bonds, emessi dall’Unione e garantiti dalla BCE, allo scopo di realizzare l’enorme potenziale della nuova economia verde; Per un’Alternativa Socialista Europea l’accelerazione dei nuovi progetti d’infrastrutture tramite regole più flessibili per creare impieghi più rapidamente e ridurre la dipendenza eccessiva dai combustibili fossili e dal nucleare, insieme ad una Comunità per l’Energia con reciproco sostegno garantito in caso di minacce alle scorte di energia da parte di paesi terzi;

7) Una base più giusta per il commercio internazionale; i negoziatori dell’UE dovranno ottenere un nuovo mandato per combattere il dumping sociale ed ambientale; si dovranno prelevare tasse sulle importazioni da paesi terzi che non rispettano le norme ambientali europee;

8 ) Un supporto più forte ai nostri vicini, per affrontare l’inaccettabile e insostenibile ineguaglianza fra l’UE ed i suoi vicini del Sud e dell’Est, tramite reali concessioni nel commercio e nella mobilità, e ricompensando quelli che hanno combattuto così coraggiosamente per la loro libertà democratica nel Mondo Arabo. L’Europa non deve mai più chiudere gli occhi davanti a dittature autoritarie, nepotistiche, a vita, nel nome di qualche fuorviata realpolitik;

9) Una più robusta ed unita presenza sulla scena internazionale, utilizzando il nostro potere politico ed economico collettivo per promuovere i nostri valori ed interessi oltre i nostri confini, e facendo la nostra parte nel portare a termine il conflitto nel Medio Oriente;

10) Un rafforzamento della democrazia europea, quali che siano le nuove regole di governance economica, la responsabilità parlamentare deve essere in primo piano; gli stati membri devono rispettare pienamente il Trattato nominando il presidente della Commissione in accordo con il risultato delle elezioni europee; i voti parlamentari sui singoli Commissari e su una loro eventuale revoca dovranno essere vincolanti; i partiti socialisti dovranno coinvolgere membri e supporters in tutti gli aspetti delle decisioni politiche europee, nel programma, e nella nomina dei candidati per i vertici dell’UE; un’azione europea per rafforzare la libertà di stampa smontando i monopoli mediatici e limitando la proprietà dei media da parte di stati non europei.

È in gioco la sopravvivenza a lungo termine dell’integrazione europea. Questo è molto di più che un sostegno alla moneta unica. Solamente un nuovo approccio da parte dei socialisti democratici che riaffermi con forza i nostri valori e che abbia il coraggio di proporre soluzioni europee può infondere nel progetto europeo l’energia per sostenere quelli che dovrebbero essere i punti fermi – la solidarietà, l’efficienza economica e la vitalità democratica.

First signatoriesPanagiotis Beglitis, Member of the Greek Parliament (PASOK, Greece); Josep Borrell Fontelles, President of the European University Institute, Former President of the European Parliament (PSC/PSOE, Spain); Victor Bostinaru, Member of the European Parliament (PSD, Romania); Udo Bullmann, Member of the European Parliament (SPD, Germany); Sergio Cofferati, Member of the European Parliament (PD, Italy); Véronique de Keyser, Member of the European Parliament (PS, Belgium); Proinsias de Rossa, former Social Affairs Minister (Labour, Ireland); Harlem Désir, Member of the European Parliament, national secretary of the PS (PS, France); Leonardo Domenici, Member of the European Parliament (PD, Italy); Glyn Ford, former Member of the European Parliament (Labour, United Kingdom); Evelyne Gebhardt, Member of the European Parliament (SPD, Germany); Ana Gomes, Member of the European Parliament (PS, Portugal); Enrique Guerrero Salom, Member of the European Parliament (PSOE, Spain); Elisabeth Guigou, Member of the French Parliament (PS, France); Zita Gurmai, Member of the European Parliament, President of PES Women (MSZP, Hungary); Jo Leinen, Member of the European Parliament (SPD, Germany); David Martin, Member of the European Parliament (Labour, United Kingdom); Marianne Mikko, Member of the Estonian Parliament (SDE, Estonia); John Monks, Member of the House of Lords, former Secretary General of ETUC (Labour, United Kingdom); Leire Pajin Iraola, Member of the Spanish Congress (PSOE, Spain); Gianni Pittella, Vice-President of the European Parliament (PD, Italy); Sir Julian Priestley, former Secretary General of the European Parliament (Labour, United Kingdom);  Libor Roucek, Member of the European Parliament (CSSD, Czech Republic); Hannes Swoboda, Member of the European Parliament, President of the S&D Group of the European Parliament (SPÖ, Austria); Kathleen Van Brempt, Member of the European Parliament (SPA, Belgium); Kristian Vigenin, Member of the European Parliament (BSP, Bulgaria); Henri Weber, Member of the European Parliament (PS, France).

 

PROVISIONNAL LIST OF SIGNATORIES

 

Luis Paulo Alves, Member of the European Parliament (PS, Portugal);
Kader Arif, deputy Minister for Veterans (PS, France);

Ines Ayala Sander, Member of the European Parliament (PSOE, Spain);
Maria Badia i Cutchet, Member of the European Parliament (PSC/PSOE, Spain);

Claude Bartolone, Member of the French Parliament (PS, France);
Panagiotis Beglitis, Former Minister of Defence, Member of the Greek Parliament, Spokesman of PASOK (PASOK, Greece);

Pervenche Berès, Member of the European Parliament (PS, France);

Alain Bergounioux, President of the OURS (PS, France); 
Luigi Berlinguer, Member of the European Parliament (PD, Italy);
Thijs Berman, Member of the European Parliament (PVDA, Netherlands);

Felice Besostri, former Member of the Senate (PSI, Italy);
Jean-Louis Bianco, Member of the French Parliament (PS, France);
Patrick Bloche, Member of the French Parliament (PS, France);
Hans Bonte, Member of the Belgian Parliament (SPA, Belgium);
Josep Borrell Fontelles, President of the European University Institute, Former President of the European Parliament (PSC/PSOE, Spain);

Victor Bostinaru, Member of the European Parliament (PSD, Romania);

Claudette Brunet-Léchenault, Vice-president of Saone-et-Loire General Council (PS, France);
Udo Bullmann, Member of the European Parliament (SPD, Germany);
Philippe Busquin, former Member of the European Parliament, former European Commissioner (PS, Belgium);
Salvatore Caronna, Member of the European Parliament (PD, Italy);

Françoise Castex, Member of the European Parliament (PS, France); 
Nessa Childers, Member of the European Parliament (Labour, Ireland);

Sergio Cofferati, Member of the European Parliament (PD, Italy);

Anna Colombo, Secretary General of the S&D Group (PD, Italy-PS, Belgium);

Ricardo Cortés Lastra, Member of the European Parliament (PSOE, Spain); Jean-Pierre Cot, former President of the PES Group in the European Parliament (PS, France);
Andrea Cozzolino, Member of the European Parliament (PD, Italy);

Frédéric Daerden, Member of the European Parliament (PS, Belgium);
Spyros Danellis, Member of the European Parliament (PASOK, Grèce);
Véronique de Keyser, Member of the European Parliament (PS, Belgium);

Bertrand Delanoë, Mayor of Paris (PS, France);
Michel Delebarre, Mayor of Dunkerque (PS, France); 
Proinsias de Rossa, former Social Affairs Minister (Labour, Ireland);

Harlem Désir, Member of the European Parliament, national secretary of the PS (PS, France);

Michel Destot, Member of the French Parliament (PS, France);
Maya Detiège, Member of the Belgian Parliament (SPA, Belgium);
Leonardo Domenici, Member of the European Parliament (PD, Italy);

Raymonde Dury, former Member of the European Parliament (PS, Belgium);

 

Guillermo Echenique-Gonzalez, Secretary-General for Foreign Affairs of the Basque Government (PSOE, Spain);

Saïd El Khadraoui, Member of the European Parliament (Belgium, SPA);

Edite Estrela, Member of the European Parliament (PS, Portugal); 
Tanja Fajon, Member of the European Parliament (SD, Slovenia);

Pietro Folena (PD, Italy); 
Daniel Font, Member of the Parliament of Catalonia (PSC/PSOE, Spain);
Glyn Ford, former Member of the European Parliament (Labour, United Kingdom);

Peter Friedrich, Minister for Federal, European and International Affairs, Baden-Wuerttemberg (SPD, Germany);
Vicente Garcés Ramón, Member of the European Parliament (PSOE, Spain); 

Eider Gardiazabal Rubial, Member of the European Parliament (PSOE, Spain);
Evelyne Gebhardt, Member of the European Parliament (SPD, Germany);

David Geerts, Member of the Belgian Parliament (SPA, Belgium);

Caroline Gennez, Member of the Belgian Parliament (SPA, Belgium);

Jean-Patrick Gille, Member of the French Parliament (PS, France);
Estelle Grelier, Member of the European Parliament (PS, France);

Ana Gomes, Member of the European Parliament (PS, Portugal);

Robert Goebbels, Member of the European Parliament (LSAP, Luxembourg);
Roberto Gualtieri, Member of the European Parliament (PD, Italy);

Enrique Guerrero Salom, Member of the European Parliament (PSOE, Spain);

Elisabeth Guigou, Member of the French Parliament (PS, France);

Sylvie Guillaume, Member of the European Parliament (PS, France);

Zita Gurmai, Member of the European Parliament, President of PES Women (MSZP, Hungary);

Liêm Hoang-Ngoc, Member of the European Parliament (PS, France); 
Alain Hutchinson, Member of the Brussels Parliament (PS, Belgium);
Miquel Iceta, Member of the Parliament of Catalonia (PSC/PSOE, Spain);
Jamal Ikazban, Member of the Brussels Parliament (PS, Belgium); 
María Irigoyen Pérez, Member of the European Parliament (PSOE, Spain); 

Jean-Louis Joseph, Mayor of La Bastidonne (PS, France);

Apostolos Katsifaras, Head of the Region of Western Greece (PASOK, Greece) ;

Meryame Kitir, Member of the Belgian Parliament (SPA, Belgium);

Fadila Laanan, Minister for Culture of the Wallonie-Bruxelles Federation (PS, Belgium);
Karine Lalieux, Member of the Belgian Parliament (PS, Belgium); 
Karl-Heinz Lambertz, President of the PES Group in the Committee of the Regions (SP, Belgium);
Renaat Landuyt, Member of the Belgian Parliament (SPA, Belgium);
Bernd Lange, Member of the European Parliament (SPD, Germany);
Nicola Latorre, Member of the Senate (PD, Italy);
Marylise Lebranchu, Minister of the Reform of the State (PS, France);

Stéphane Le Foll, Minister of Agriculture (PS, France);
Jörg Leichtfried, Member of the European Parliament (SPÖ, Austria);

Jo Leinen, Member of the European Parliament (SPD, Germany);

Pia Locatelli, President of the Socialist International Woman (PSI, Italy);
Juan Fernando Lopez Aguilar, Member of the European Parliament (PSOE, Spain);
Jean-Charles Luperto, President of the Wallonie-Bruxelles Parliament (PS, Belgium);

Paul Magnette, Federal Minister for Public Enterprises, Scientific Policy and Development Cooperation (PS, Belgium);

David Martin, Member of the European Parliament (Labour, United Kingdom);
Jose Ignacio Martin, President of the Association of Financial clients of Spain (PSOE, Spain);
Manuel Mata, former Member of the Valencia Parliament (PSPV/PSOE, Spain);
Kyriakos Mavronikolas, Member of the European Parliament (KSEDEK, Cyprus);
Gennaro Migliore
, national secretary of the SEL (SEL, Italy);

Marianne Mikko, Member of the Estonian Parliament (SDE, Estonia);

John Monks, Member of the House of Lords, former Secretary General of ETUC (Labour, United Kingdom);

Juan Moscoso del Prado, Member of the Spanish Congress (PSOE, Spain);
Pierre Moscovici, Minister of the Economy and finances (PS, France);
Catherine Moureaux, Member of the Brussels Parliament (PS, Belgium);
Pierre-Alain Muet, Member of the French Parliament (PS, France);
Paolo Nerozzi, Member of the Senate (PD, Italy);
Raimon Obiols i Germa, Member of the European Parliament (PSOE, Spain);

Özlem Özen, Member of the Belgian Parliament (PS, Belgium); 
Leire Pajin Iraola, Member of the Spanish Congress (PSOE, Spain);

Gilles Pargneaux, Member of the European Parliament (PS, France);

Christian Paul, Member of the French Parliament (PS, France);
Vincent Peillon, Minister of National Education (PS, France);

Andres Perello Rodriguez, Member of the European Parliament (PSOE, Spain);
Gianni Pittella, Vice-President of the European Parliament (PD, Italy);

Anita Pollack, Former Member of the European Parliament (Labour, United Kingdom);
Holger Poppenhaeger, Minister of Justice of the Thuringia Region (SPD, Germany);
Joao Proença, Secretary General of UGT (Portugal);
Sir Julian Priestley, former Secretary General of the European Parliament (Labour, United Kingdom);

Derek Reed, Deputy Secretary General of the S&D Group (Labour, United Kingdom);

Conny Reuter, Secretary General of Solidar, President of the Social Platform (SPD, Germany);
Ulrike Rodust, Member of the European Parliament (SPD, Germany);
Libor Roucek, Member of the European Parliament (CSSD, Czech Republic);

Angelica Schwall-Düren, Federal Affairs Minister of the Nordrhein-Westfalen (SPD, Germany);

Franco Seminara, Member of the Belgian Parliament (PS, Belgium);

Konstantinos Simitsis, Mayor of Kavala (PASOK, Greece);

Peter Simon, Member of the European Parliament (SPD, Germany); 
Birgit Sippel, Member of the European Parliament (SPD, Germany); 

Juan Soto, Member of the Valencia Parliament (PSOE, Spain);
Jutta Steinruck, Member of the European Parliament (SPD, Germany);
Leszek Swietalski, Mayor of Stare Bogaczowice (SLD, Poland);

Hannes Swoboda, President of the S&D Group of the European Parliament (SPÖ, Austria);

Marc Tarabella, Member of the European Parliament (PS, Belgium);
Karin Temmerman, Member of the Belgian Parliament (SPA, Belgium);
Pascal Terrasse, Member of the French Parliament (PS, France);

Patrice Tirolien, Member of the European Parliament (PS, France);

Bruno Tobback, President of the Socialistische Partij-Anders  (SPA, Belgium);
Walter Tocci, Member of the Italian Parliament (PD, Italy);
Carole Tongue, Former Member of the European Parliament (Labour, United Kingdom);
Marisol Touraine, Member of the French Parliament (PS, France);
Catherine Trautmann, Member of the European Parliament (PS, France);

Bruno Tuybens, Member of the Belgian Parliament (SPA, Belgium);
Daniel Vaillant, Member of the French Parliament (PS, France);
Kathleen Van Brempt, Member of the European Parliament (SPA, Belgium);

Dirk Van der Maelen, Member of the Belgian Parliament (SPA, Belgium);
Anne Van Lancker, Former Member of the European Parliament (SPA, Belgium);  
Ann Vanheste, Member of the Belgian Parliament (SPA, Belgium);
Myriam Vanlerberghe, Member of the Belgian Parliament (SPA, Belgium);
Peter Vanvelthaven, Member of the Belgian Parliament (SPA, Belgium);
Nichi Vendola, President of the Puglia region (SEL, Italy);
Bernadette Vergnaud, Member of the European Parliament (PS, France);

Alain Vidalies, deputy Minister of the Relations with the Parliament (PS, France);
Kristian Vigenin, Member of the European Parliament (BSP, Bulgaria);  
Elisabeth Vitouch, Member of the Municipal Council of Vienna (SPÖ, Austria);
Henri Weber, Member of the European Parliament (PS, France);

Barbara Weiler, Member of the European Parliament (SPD, Germany);
Luis 
Yáñez-Barnuevo García, Member of the European Parliament (PSOE, Spain)

Chiamati ad alta voce dalla vita

“La prima, essenziale, semplice verità che va ricordata a tutti i giovani è che se la politica non la faranno loro, essa rimarrà appannaggio degli altri, mentre sono loro, i giovani, che hanno l’interesse fondamentale a costruire il proprio furturo e innanzitutto a garantire che un futuro vi sia” (Enrico Berlinguer)

Ci sono momenti in cui si è “chiamati ad alta voce dalla vita” diceva James Joyce.

Ecco, io credo che ora tocchi proprio a noi. E che sia il caso di non frenarci nelle timidezze o infangarci tra le strategie: rompere gli argini per esondare senza riverenze servili ma con il rispetto dell’impegno. Senza accettare il cambiamento solo scritto sui programmi e sui manifesti ma con la voglia di osare la politica smettendo di usarla (nel migliore dei casi). Forti delle cose che abbiamo da dire, delle proposte che abbiamo studiato, delle analisi che abbiamo discusso e dei modelli che dobbiamo permetterci di rifiutare.
Qualche giorno fa un’amica mi diceva che avrebbe voluto una politica che parli di umanità e che non si vergogni di parlare d’amore, di uguaglianza e delle fragilità: ha ragione. Abbiamo ammaestrato il coraggio perché ci hanno insegnato che qui bisogna mediare e intanto siamo cresciuti nell’analfabetismo sui temi della solidarietà, della speranza e dei diritti. Ci hanno convinto che essere solidali qui in Lombardia è un lusso che mette a rischio la sicurezza e l’ordine pubblico mentre in nome della sussidiarietà hanno costruito le lobby più antisociali e antidemocratiche che avremmo mai potuto immaginare. Hanno scambiato la supremazia della politica per l’arroganza dei politici intolleranti alle domande e servili nel rispondere alle baronie. Ci dicono che il momento è grave, che ci ha colti all’improvviso e sono sempre gli stessi che hanno avuto il beneficio di stare sulle mura a fare da sentinelle senza accorgersi di come tutto stava cambiando fuori. Ora vorrebbero la terza repubblica e hanno gli stessi cognomi della seconda e forse di un pezzo della prima.
Ecco, io credo che ora tocchi proprio a noi. Abbiamo cominciato a fare ciò che era necessario, abbiamo studiato e discusso ciò che riteniamo possibile e adesso vogliamo sorprenderci.

Perché non ci fermiamo

La preparazione è stata lunga e faticosa (e devo ringraziare tutti quelli che stanno lavorando) e la decisione non è stata facile ma ormai ci siamo: domani alle 14.30 al Teatro della Cooperativa in via Hermada 8 a Milano, Non Mi Fermo smette di essere un’idea e diventa l’etica che vogliamo nelle nostre città: ‘politica’ si direbbe se non fosse che la parola oggi suona così poco luminosa. Perché rispetto all’anti politica preferiamo l’altra politica, lo scrive bene Stefano RodotàE i partiti? Silenziosi o diffidenti, timorosi della loro ombra. Si pensi a quel che è avvenuto a Milano, dove una meritoria iniziativa del sindaco riguardante le coppie di persone dello stesso sesso ha provocato sconcertanti reazioni di rigetto all´interno dello stesso Pd, dove evidentemente si ignora che una sentenza della Corte costituzionale ha affermato che queste persone hanno un diritto fondamentale a veder riconosciuta la loro condizione. La questione non può essere considerata minore o locale, poiché rivela come all´interno di quel partito non vi sia una elaborazione programmatica riconoscibile, si è paralizzati dall´irrisolto rapporto tra le diverse forze che hanno dato origine al Pd e che troppe volte fanno emergere tentazioni integraliste e incapacità di altri settori del partito di definire una posizione netta proprio sui diritti fondamentali delle persone. Non diversa è la condizione del Pdl, prigioniero di fondamentalismi figli soprattutto d´una stagione d´un collateralismo strumentale, quando il partito si presentava come il portavoce della gerarchia vaticana.  Stanno così nascendo due circuiti: quello, talora discutibile ma dinamico, dellaltra politica e quello congelato del sistema dei partiti. Questultimo si chiude sempre più in se stesso, rifiuta il dialogo, e ne paga i prezzi. Quando le condizioni istituzionali rendono inevitabile il contatto tra i due circuiti, infatti, è quasi sempre quello dell´altra politica a prevalere. Lo dimostra, per il Pd, l´esperienza negativa di primarie e elezioni, da Milano a Cagliari, da Napoli all’ultimo episodio di Genova. 

Non ci fermiamo perché abbiamo il dovere di rivendicare il Paese migliore che abbiamo in mente e vogliamo costruirne la direzione senza esclusioni, vogliamo essere dentro al cambiamento ‘amando le differenze’ e perché vogliamo essere adeguati al nostro tempo e soprattutto che il nostro tempo sia adeguato ai nostri diritti (e renda ineludibili i doveri). Domani parleranno gli amici e i compagni con cui abbiamo già fatto tanta strada insieme (penso a Sonia, a Luigi) insieme agli incroci di questo ultimo anno (Chiara e il nostro lavorare insieme in Regione, Daniele e il suo profumatissimo PGT a Desio) e con quelli che verranno. E’ solo l’inizio, domani, di qualcosa che non ci facciamo scappare.

Il programma degli interventi:

  1. Giulio Cavalli e Chiara Cremonesi
  2. Sonia Alfano – la commissione antimafia europea
  3. Luigi De Magistris – intervento video: beni comuni
  4. Alessio Baù – politica e internet
  5. Chiara Pracchi – le contraddizioni della Lega
  6. Giovanni Giovannetti – territorio
  7. Daniele Cassanmagnago – territorio e pgt
  8. Patrizia Quartieri – psichiatria e competenze del Comune
  9. Federico Cimini – cantautore
  10. Loris Mazzetti– informazioni Co.re.com.
  11. Claudio Messora – opena data, agenda digitale
  12. Vladimiro Boselli – antimafia
  13. Diego Parassole – acqua pubblica
  14. Iolanda Nanni – pendolari, trasporti, class action
  15. Corrado Del Bo’ – reddito di cittadinanza
  16. Edda Pando – immigrazione e diritto cittadinanza
  17. Nicoletta Riboldi – scaffale della legalità nelle biblioteche lombarde
  18. Rodolfo Serianni – G.A.S.
  19. Jole Garuti – legalità costituzione scuole
  20. Piero Ricca – diritto audizione
  21. Daniele Biacchessi – resistenza e antifascismo
  22. Renato Sarti – cultura
  23. Marco Fraceti – osservatorio antimafia Monza e Brianza
  24. Federico Cimini – cantautore
  25. conclusioni
Gli interventi saranno declinati in ordini del giorno, mozioni, proposte di legge che saranno disponibili (con i video degli interventi) sul sito www.nonmifermo.it
Diretta twitter #nonmifermo

Essere affidabili

E’ quello che manca, oggi. E si finisce per parlare di antipolitica quando si tratta semplicemente di un crollo di fiducia. E in un Paese sfiduciato ancora ci si ostina a pensare che un rimpasto (di manovre, di uomini o di coalizioni) possa bastare quando l’unico ingrediente è il cambiamento. Quello vero. Michele Ainis lo scrive per il Corriere: almeno oggi l’abbiamo fatta franca. Domani, chi lo sa: la nostra via è piena di trappole, ci vuol poco a mettere un piede in fallo. Ma sono trappole di Stato, inganni tessuti da Sua Maestà la Legge. Come l’idea di revocare il riscatto della laurea e del servizio di leva ai fini pensionistici, con buona pace dei 665 mila italiani che ci avevano creduto, sborsando anche fior di quattrini. O come la trovata speculare del Pd, che ha proposto una tassa aggiuntiva del 15% per chi aveva profittato dello scudo fiscale del 2009, confidando nella garanzia di pagare non più del 5% sui capitali rientrati dall’estero. Insomma di volta in volta cambiano le vittime, non l’abitudine di stracciare i patti stipulati con l’una o l’altra categoria di cittadini. Eppure quest’abitudine inocula un veleno nella nostra convivenza, perché ci insegna a diffidare delle istituzioni, e a disprezzare in ultimo tutto ciò che è pubblico, di tutti. 

Osare l’occasione. Insieme.

Perché non esistono modi banali per potersi mettere insieme. Perché questa crisi è una recessione sociale e culturale, e solo dopo economica. Perché non è credibile e non mi appartiene questo gioco banale e vuoto di infilare nel cassetto della post-ideologia qualsiasi operazione di costruzione di un pensiero comune, di una forma collettiva di azione e di pensiero che, se infastidisce chiamarla ideale o ideologia, ci basta chiamarla idea. Perché la trasparenza, la partecipazione, l’etica e la legalità sono le sentinelle di un indirizzo sociale e politico che non possono da sole bastarci come contenuto. Il momento storico del nostro Paese (e della triste ‘trasparenza’ del nostro Paese nel mondo) chiama una generazione alla responsabilità di sostituire i modi (e le persone) del fallimento ma soprattutto alla responsabilità di costruire un nuovo modello. Di raccontare un’altra direzione e declinarla ognuno nel proprio campo.

Non accetto di aspettare che il terremoto dia a me (o ai miei, come ci insegnano nella politica minuscola) l’occasione da usare. Voglio costruire la prospettiva da osare. Insieme.

Leggevo oggi Joseph Stiglitz e la sua diagnosi della crisi economica-finanziaria iniziata nel settembre del 2008 e l’interessante introduzione di Laura Pennacchi. Ne vale la pena. Il libro, edito da Donzelli, lo potete trovare qui.

LA GLOBALIZZAZIONE SECONDO STIGLITZ

di Laura Pennacchi

Per quasi trent’anni ha dominato la scena politica mondiale una potente ideologia ultraortodossa che predica un drastico ridimensionamento della presenza pubblica nelle attività economiche e sociali, sostenendo che l’intervento dello Stato è sempre e comunque negativo per il benessere collettivo, che i governi dilapidano risorse e che ogni tentativo di ridistribuire la ricchezza dà vita a forme di perseguimento delle rendite. La predicazione di un ruolo pubblico ristretto e angusto si è basata su una visione altrettanto ristretta e angusta del rapporto tra individuo e collettività, volta a soffocare le istanze solidaristiche: l’individuo è un atomo, non esistono responsabilità collettive perché «non esiste la società», secondo il motto di Margaret Thatcher. Il legame tra ideologia «ultraortodossa» e visione «ultraindividualistica» ha motivato l’ossessiva riproposizione dello slogan della «riduzione delle tasse» – veicolo principe del ridimensionamento della presenza pubblica – e la denigrazione delle funzioni pubblico-statuali che risulta da espressioni come «lo Stato criminogeno» [1]. In effetti, il vero obiettivo delle politiche di tagli fiscali, mantra di tutti gli anni novanta e del primo decennio degli anni duemila, non era rilanciare l’economia ma ridurre il senso di responsabilità collettiva – che si esprime attraverso l’intervento pubblico – acquisendo il favore delle classi medie. Se esse, infatti, pagano molto in imposte e percepiscono molto in servizi non sosterranno una simile politica, ma se usufruiranno di minori servizi (specie in istruzione e in sanità) allora saranno indotte a ritenere che anche un più esiguo livello di tassazione sia ingiusto, trasformandosi così in sostenitrici di ulteriori riduzioni delle tasse [2].

Già nel 1989, dopo un primo decennio di questa musica, Stiglitz scriveva un libretto divenuto celebre, intitolato per l’appunto Il ruolo economico dello Stato [3], di cui i testi che qui si presentano possono essere considerati un riesame e, al tempo stesso, una continuazione. Allora, nel sottolineare gli errori sia della tesi dei conservatori (giudicante «sempre e comunque negativo per il benessere» l’intervento dello Stato) sia della tesi della sinistra (richiedente sempre e comunque «un maggior coinvolgimento dello Stato»), Stiglitz rilevava: «Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale ha portato a riconoscere sempre più l’inadeguatezza delle posizioni di sinistra […]. Ma ciò che temo è che l’inadeguatezza delle teorie di destra si manifesterà solo col tempo».
Così è stato, in effetti, e ancora oggi siamo impegnati nel rendere questa inadeguatezza pienamente manifesta. La virulenza delle teorie di destra, invece di diminuire, è cresciuta, concentrata nei dogmi della «razionalità efficiente» e dell’«autoregolazione» dei mercati, dogmi la cui drammatica fallacia – e fallimento – ha dovuto attendere la crisi globale esplosa nell’autunno del 2008 per venire alla luce. Una virulenza che ha seguito l’onda lunga di una globalizzazione che ha rovesciato le sue implicazioni problematiche su tutte le materie umane: il commercio, la finanza, il debito, l’ambiente, le biotecnologie, le comunicazioni, le forme e gli ambiti di esercizio della democrazia. La destra ha esteso su scala planetaria il modello di «governo minimale» che proponeva nella sfera domestica: governo minimo è stata la sua parola d’ordine.

Rispetto a tutto ciò, costituisce uno spartiacque la crisi economico-finanziaria iniziata nel settembre 2008, ma con avvisaglie di cui si sarebbe potuto cogliere il senso molto prima, se solo si avesse avuto la stessa sensibilità di Stiglitz che, con pochi altri, l’aveva prevista [4]. La crisi, ben lungi dall’essere un incidente di percorso, è strutturale, pone in atto cambiamenti epocali, imponenti processi di ristrutturazione di portata superiore a quelli avvenuti dopo la crisi del 1929 [5]. In particolare, la crisi mondiale non è solo finanziaria e non è solo regolatoria. La più grave recessione del dopoguerra, che per la prima volta, dalla Grande depressione degli anni trenta, nel 2009 ha portato il Pil mondiale a un incremento negativo, manifesta che la crisi costituisce l’esaurimento – e il fallimento – di un intero modello di sviluppo, quello che va sotto il nome di «neoliberismo» [6] e che ha marchiato irrevocabilmente la globalizzazione iniqua degli ultimi decenni [7]. Di tale modello l’esplosione delle diseguaglianze non è né un’appendice né un epifenomeno ma un elemento strutturale. Il modello di sviluppo prevalso negli ultimi decenni ha come sua componente intrinseca l’alterazione della distribuzione del reddito e l’accentuazione delle diseguaglianze proprio perché è costituito da una miscela fatta di spirito «probusiness», salari stagnanti e scarso welfare pubblico, deregolazione spinta (e cattiva regolazione), leva dei tassi di interesse, innovazione finanziaria selvaggia, economia e cultura del debito [8]. È avvenuto ciò che le analisi di Stiglitz da sempre evidenziavano: la superfetazione della finanza ha modificato la natura della finanza stessa, mentre ha distorto profondamente l’economia reale; modifiche e distorsioni che richiedono riforme finanziarie assai più drastiche (come ristabilire una distinzione e una separazione nelle banche tra attività commerciale e attività d’investimento) di quelle che si stanno mettendo in opera [9]. I problemi oggi sono immensi e riguardano sia l’inefficienza economica, sia l’ingiustizia sociale con l’esplosione della disoccupazione, sia la sostenibilità ambientale.

La persistenza della disoccupazione, anche quando nel 2011 l’economia reale riparte, dice quanto gravi siano le implicazioni generate dalla crisi. La ripresa avviene con intensità – assai modesta nei paesi sviluppati, in particolare europei, a differenza che nei paesi emergenti (Cina e India sono tornate a correre a tassi di incremento del Pil assai elevati) – e con modalità tali da non riuscire ad assorbire la mole di disoccupati creatasi: 30 milioni in tutto il mondo nei primi due anni della crisi, due terzi dei quali nei paesi sviluppati (in Italia sono 2,2 milioni i senza lavoro). Si profila unajobless recovery che le vestali della main stream economics sostengono sia la ineluttabile «nuova normalità» a cui rassegnarsi, sottovalutando che una simile prospettiva – la «crescita senza lavoro» come unico standard e paradigma – costituirebbe un colpo senza precedenti alla stessa legittimità del capitalismo, la configurazione della crisi globale come vera e propria «crisi di civilizzazione» [10].

Si afferma un nuovo drammatico paradosso: l’intervento pubblico è stato riscoperto giusto il tempo di salvare dal collasso il sistema bancario e finanziario mondiale [11] e quando il perdurare di una incredibile disoccupazione e la contrazione del tenore di vita dei ceti medi imporrebbero misure aggiuntive a sostegno dello sviluppo e degli investimenti, si pretende di tornare, specie in Europa, alla fallace ortodossia neoliberista e monetarista delle politiche restrittive e deflazionistiche, drasticamente avverse alla spesa pubblica. Poiché i debiti pubblici hanno raggiunto livelli senza precedenti in tempi di pace (dal 2009 al 2010 il debito pubblico è salito negli Usa dal 54,6 al 67,1% del Pil, nell’area dell’euro dal 79 all’84%), si dimentica quel che Stiglitz sottolinea nelle pagine che seguono, e cioè che non è il debito pubblico all’origine della crisi, è il debito privato, a sua volta dovuto al modello neoliberista, fatto di leva dei tassi di interesse, deregolamentazione finanziaria sfrenata, innovazione finanziaria spinta allo spasimo, compensazione offerta come indebitamento per salari bassi o stagnanti e per l’enorme incremento delle diseguaglianze, precarizzazione del mercato del lavoro, assorbimento di merci in eccesso tramite il credito facile e così via. Si cessa di chiedersi come e perché gli attuali livelli di deficit e debito pubblico siano stati raggiunti, si inverte il realistico rapporto di causa ed effetto, trascurando che è la crisi – in primo luogo con i salvataggi inauditi che ha imposto e con la conseguente trasformazione di un debito privato immenso in debiti pubblici altrettanto immensi – ad avere provocato la pressione al rialzo sui debiti pubblici e non viceversa.

Nei soli Stati Uniti e per i soli tre mesi dall’ottobre al dicembre 2008 la manovra di spesa pubblica è salita da 787 miliardi di dollari fino a 820 miliardi. L’Europa aveva avviato interventi più contenuti ma comunque incisivi quando è stata investita, a partire dalla Grecia nel maggio 2010, da un’ondata speculativa che ha aggredito direttamente i debiti sovrani dei paesi. Così l’Europa si è imposta, su impulso soprattutto della Germania, draconiane politiche di austerità con l’obiettivo di giungere a una drastica contrazione del settore pubblico, sulla base di una nefasta ortodossia restrittiva sostenente che indisciplina di bilancio e scarsa flessibilità sono le cause delle difficoltà dei paesi europei più deboli. Tra l’estate del 2010 e l’inverno 2011 i quattro paesi europei più grandi – Germania, Francia, Regno Unito, Spagna – adottano misure di risanamento delle finanze pubbliche ammontanti da sole a 125 miliardi di euro di tagli.

In Europa qualcosa di molto incongruo emerge a un triplice livello [12]:

1) tutti i paesi procedono simultaneamente ad adottare politiche restrittive che rischiano di aggravare i problemi di deficit pubblico – perché si risolvono in recessioni che a loro volta provocano maggiori esborsi in ammortizzatori sociali e minori entrate – nel contempo imponendo alti costi sociali soprattutto ai paesi «salvati».

2) Gli specifici global embalances europei che preesistevano alla crisi vengono rafforzati, essendo rafforzata la divaricazione tra due aree d’Europa, quella «centrale» e forte con la Germania in testa, quella «periferica» e debole sostanzialmente coincidente con i paesi mediterranei. Si dimentica che l’instabilità finanziaria dell’area euro ha alla sua base proprio la crescente divergenza delle economie reali dei vari paesi in termini di competitività. Paradossalmente lo stesso meccanismo della moneta unica accentua le divergenze: il tasso di cambio tende a risultare troppo alto per i paesi deboli e basso per quelli forti che ne traggono vantaggio. La competitività della Grecia è stata più svantaggiata dal costo del lavoro salito del 9% (un incremento non trascurabile ma neppure drammatico) o da un apprezzamento dell’euro del 16%? Quando c’era il marco, l’irrefrenabile tendenza dell’economia tedesca a crescere con le esportazioni veniva frenata dalla periodica rivalutazione della moneta. Ora questo meccanismo non c’è più e ciò spiega le sbalorditive performance nel commercio estero di Germania e Olanda. Poiché gran parte dell’attivo della loro bilancia dei pagamenti corrisponde a passivi di altri paesi europei è chiaro che la Germania non è più la locomotiva d’Europa: essa utilizza la domanda interna di altri paesi europei per la propria crescita. Le politiche di austerità, lungi dal produrre effetti benefici sulla competitività, accentueranno le divergenze e per conseguenza si rifletteranno negativamente anche sulla competitività generale dell’Europa.

3) L’enfasi sull’aggiustamento deflattivo delle economie più fragili è figlia del mito – impossibile – di trasformare l’intera eurozona in una colossale Germania che esporta massicciamente in tutto il mondo. Ma la zona euro è troppo grande per poter svolgere un ruolo di questo tipo all’interno dell’economia mondiale: ammesso e non concesso che la svalutazione interna messa in atto simultaneamente da più paesi funzioni al fine del recupero di competitività, dove si dovrebbero dirigere, quale sbocco potrebbero trovare tutte queste esportazioni, visto che il resto del mondo – Usa in testa – persegue già la medesima strategia?

Le deliberazioni in materia di nuova governance economica europea prese dal Consiglio del 24-25 marzo 2011 sono emblematiche del riaffermarsi di una ortodossia monetarista e neoliberista, anche per quanto riguarda la mancata considerazione dell’interrelazione tra squilibri macroeconomici e competitività, con lo sguardo concentrato solo sulle variabili microeconomiche (come la dinamica del costo del lavoro, alla cui compressione mediante la contrazione dei salari e dei prezzi viene dato il compito di recuperare i guadagni di produttività), trascurando il peso che esercitano sulla competitività le variabili macroeconomiche (in particolare le politiche monetarie e le politiche del tasso di cambio e di gestione della bilancia dei pagamenti). Più in generale si conferma un orientamento conservatore – che connette fortissime riduzioni del rapporto debito pubblico/Pil a programmi di nuove privatizzazioni – il quale non assume come preoccupazione centrale l’aumento della disoccupazione e, allo stesso tempo, avanza imperterrito nel suggerire tagli all’istruzione e allo Stato sociale.

Un’impostazione conservatrice e monetarista in tema di debito e di equilibri di finanza pubblica resuscita una filosofia neoliberista adattata alle circostanze: del resto, il neoliberismo non è mai esistito in forme pure, ma sempre in forme spurie [13]. L’ispirazione, esplicita e implicita, a ridurre il ruolo dello Stato e a privatizzare è fortissima: l’esempio maggiore è dato dallo spostamento dell’enfasi dal deficit al debito, cioè dai flussi agli stock, con una intrinseca spinta alla privatizzazione di patrimoni e funzioni della protezione sociale. Il trinomio «meno tasse, meno regole, meno Stato» ripropone una prassi di starving the beast («affamare la bestia» e la bestia sono i governi e le istituzioni pubbliche a cui vanno sottratte risorse), la quale lascia convivere tagli selvaggi alla spesa pubblica, privatizzazioni, decisionismo statalistico neocolbertiano al servizio di un rinnovato spirito pro business, comunitarismo endogamico ed esclusivo all’insegna del «meno Stato più società civile» e della big society. La riscoperta della big society vagheggiata dai conservatori inglesi è l’unica novità rispetto al neoliberismo formato ReaganThatcher-Bush junior. Rappresenta certo un avanzamento rispetto alla negazione perfino dell’esistenza della «società» declamata da Margaret Thatcher, ma essa, in realtà, è riscoperta del neoliberismo mascherato da arcaico «comunitarismo» localistico ed entropico, tanto è vero che i tagli del Regno Unito neoconservatore alle funzioni pubbliche, al welfare, alle politiche sociali sono i più devastanti.

Il ridimensionamento del ruolo pubblico torna, dunque, a essere sostenuto con rinnovata aggressività. Negli anni novanta la tesi del trade-off tra sviluppo economico e welfare state, tra sviluppo economico e meccanismi keynesiani di regolazione dell’occupazione e del mercato del lavoro era stata sostenuta per argomentare che all’origine delle difficoltà di molti paesi (specie europei) a generare occupazione e crescita vi fosse proprio il tipo di sviluppo sociale consentito dai welfare states e dai sistemi, a essi associati, di regolazione del mercato del lavoro. Nel primo decennio del Duemila e oltre è come se un rinnovato velo ideologico – basato sulla riproposizione dell’idea di un irrimediabile trade off tra efficienza ed equità, tra competitività e diritti, tra produttività e giustizia – cadesse sugli occhi dei governanti, pronti a operare, approfittando della crisi, quel retrenchement del welfare state che non era loro riuscito nel ventennio del dogma neoliberista sostenente lo spostamento di ogni cosa – anche della sicurezza sociale – dallo Stato al mercato.

Oggi come ieri il nesso di causalità viene rovesciato: non sono i problemi della disoccupazione e della povertà ad aver indotto, storicamente, le risposte rappresentate dagli istituti del welfare, ma, al contrario, sono questi istituti e le loro ispirazioni egualitarie che generano i problemi odierni di disoccupazione. Gli imputati sono sempre gli stessi: eccesso di tassazione, invadenza del settore pubblico, sovrabbondanza di regolamentazione, peso delle organizzazioni sindacali e della concertazione. Le medesime entità considerate responsabili del freno allo sviluppo nei modelli di «crescita endogena», per i quali basta detassare, tagliare la spesa (specie quella sociale), far arretrare la presenza pubblica perché i sistemi, endogenamente cioè spontaneamente, veicolino produttività e competitività nello slancio di una maggiore crescita. Rispunta anche l’adagio secondo cui sarebbero gli stessi salariati a portare la responsabilità più grande nell’evoluzione della disoccupazione, perché «l’egoismo dei garantiti» condurrebbe a dinamiche salariali eccessive, a spese di coloro che si trovano al margine del mercato del lavoro.

Al paradosso di un intervento pubblico che – dopo aver impiegato una mole immensa di risorse per salvare il sistema bancario e finanziario mondiale – si sottrae alle proprie responsabilità in materia di occupazione e di lancio di un nuovo modello di sviluppo, si aggiunge il paradosso di un modello sociale europeo che – dopo aver dimostrato tutta la sua superiorità su quello anglosassone agli esordi della crisi e nella sua fase cruciale – viene ora posto nuovamente in discussione. Eppure, la superiorità del modello sociale europeo – con i suoi universalistici sistemi di protezione sociale offerti dal pubblico – era apparsa chiara quando, nei primissimi mesi del 2009, l’Argentina era corsa a nazionalizzare i dieci fondi pensione privati con cui nel 1994 aveva privatizzato la propria social security, trovandosi i fondi pensione argentini (con la dilapidazione del risparmio previdenziale affidato ai mercati finanziari provocata dalla crisi) nell’impossibilità di erogare persino le pensioni in essere. E la superiorità del modello europeo era stata ribadita dall’esplicita ispirazione a esso che aveva guidato Obama nel concentrare enormi sforzi, nel primo anno del suo mandato, per dotare il popolo americano di una riforma di impianto universalistico.

È indubbio che operino scarti tra garanzie e opportunità e che il welfare vada ulteriormente riformato nel senso di accentuarne gli aspetti promozionali-attivi su quelli risarcitori-passivi. Ma il ragionamento – che fa il paio con il parossismo della contrapposizione giovani/anziani sul tema cruciale dell’«equità fra generazioni» – è troppo caricaturale per essere credibile. Esso condurrebbe, peraltro, a ritenere che nelle nostre società i classici conflitti distributivi (per l’appropriazione del surplus e degli incrementi della produttività) siano scomparsi, risucchiati entro un magma in cui sarebbero distinguibili solo conflitti fra corporazioni (posti tutti sullo stesso piano di legittimità o di illegittimità), lotta fra le generazioni, guerra fra i sessi.

In tutti i casi la ricetta economico-sociale che ne discende è brutale: per avere più crescita occorre più diseguaglianza, poiché solo una maggiore diseguaglianza è in grado di imprimere il necessario dinamismo alla società14. Il presupposto è che l’accentuazione della competizione in atto a livello mondiale ponga fine alla possibilità delle imprese di lasciar dirottare una parte del loro surplus verso i settori meno produttivi e verso impieghi a fini sociali. Non ci si chiede né quanto il surplus e gli incrementi di produttività siano in realtà crescenti, oltre che persistenti, e appropriati da profitti e da utili finanziari, né quanto ciò che chiamiamo globalizzazione corrisponda davvero a un’intensificazione della concorrenza o non piuttosto a quello che de Cecco [15] definisce un «rinnovato processo di ristrutturazione oligopolistica mondiale», il quale investe in modo assai profondo il continente europeo.

Tutto ciò spiega perché la parola eguaglianza – che pure figura, insieme a libertà e a fraternità, tra le categorie chiave della modernità – sia caduta così in disuso nel lessico contemporaneo, compreso quello della sinistra. Ma spiega anche perché attorno all’intreccio di questioni che la parola eguaglianza continua a evocare si sia riacceso un grande dibattito a livello internazionale [16], proprio in relazione al riequilibrio nei rapporti tra economie intrinseco alla globalizzazione, testimoniato dal succedersi di crisi in tutto il mondo dagli anni ottanta a intervalli di tempo sempre più ravvicinati. Cacciati dalla porta, il problema «eguaglianza» e quello «povertà» – della quale si dimentica che rappresenta una forma estrema di diseguaglianza – rientrano dalla finestra, ma prepotentemente, sulla «scena pubblica». Di nuovo, nelle sedi internazionali due opinioni si fronteggiano. L’una sostiene che per combattere la diseguaglianza e la povertà l’arma esclusiva è la crescita economica, non la redistribuzione del reddito tra ricchi e poveri, la quale sarebbe anzi dannosa in quanto l’ulteriore arricchimento dei ricchi aiuta più effettivamente i poveri; dunque, le politiche da seguire debbono essere ultraortodosse: tagli alle spese pubbliche (che impoveriscono i poveri e le classi medie) e riduzioni delle tasse (che arricchiscono i ricchi). L’altra opinione considera la crescita necessaria ma insufficiente a contrastare povertà e diseguaglianze, in assenza: a) di un cambiamento degli stessi modelli di crescita, regolando, ad esempio, diversamente quella mole enorme di flussi finanziari la cui deregolamentazione indiscriminata è all’origine di tante turbolenze odierne; b) di una consapevole redistribuzione del reddito e quindi di sistemi adeguati di sicurezza sociale.

Cosa ha da dire la sinistra rispetto a tutto ciò? Le teorizzazioni sulla «terza via», specie quella di Tony Blair, si sono rivelate non all’altezza della sfida. Esse hanno riflesso, piuttosto, uno spostamento dell’asse politico verso il centro tale da snaturare la configurazione stessa della sinistra e tale da sollecitare, dopo la fase «statalistica», forme di esaltazione acritica, e ingenua, del valore del mercato, quando non addirittura una ostilità pregiudiziale verso l’intervento pubblico.

Da anni Stiglitz lavora, con altri, a un approccio – quello dell’«economia dell’informazione» e delle «imperfezioni informative» – che cerca proprio soluzioni intermedie tra i due estremi dello «statalismo pianificatore» e dell’affidamento tout court agli «automatismi» di mercato. Questo approccio, infatti, muove dalla dimostrazione che ogni volta che ci sono asimmetrie informative e/o mercati incompleti, cioè quasi sempre, allocazioni efficienti da parte del mercato non possono essere raggiunte senza intervento dello Stato. La visione standard considera i fallimenti del mercato delle eccezioni (eccezioni alla regola generale che le economie decentralizzate portano a un’allocazione efficiente delle risorse). Il nuovo indirizzo analitico fa emergere esattamente il contrario: è solo in circostanze eccezionali che il mercato è efficiente.

Ma problemi di incompletezza e di imperfezione informativa riguardano il settore pubblico almeno tanto quanto il settore privato. Dunque, la questione non è identificare i fallimenti dell’economia di mercato, essendo questi endemici, ma riconoscere quei fallimenti dell’economia di mercato per i quali interventi dello Stato consentono un miglioramento del benessere collettivo, non essendo affatto detto né che lo Stato sia esposto a minori fallimenti, né che per ogni fallimento del mercato la soluzione appropriata sia un intervento pubblico. Il punto cruciale diventa non scegliere tra «intervento pubblico» e «mercato», ma riconoscere, tra le molte varianti dell’intervento pubblico e le molte varianti del mercato, la combinazione insieme più efficiente e più equa. A cominciare dalla creazione di anticorpi per evitare la cattura delle funzioni governative da parte di interessi privati, cattura che il neoliberismo – incurante dell’incoerenza con i suoi presupposti antistatalistici – ha spesso attivamente praticato, producendo i fenomeni del Developmental State [17] o quelli, ancora peggiori, del Predator State [18].

Oggi Stiglitz riprende questa elaborazione e va oltre. In primo luogo estende al mondo globalizzato una domanda che scaturiva già anni fa del tutto naturalmente dalla sua riflessione: se problemi di incompletezza e di imperfezione informativa riguardano tanto il settore privato quanto il settore pubblico, ciò rende più difficili, ma al tempo stesso più determinanti, analisi maggiormente approfondite sul ruolo e sul funzionamento sia dello Stato sia del mercato. Il nuovo approccio, cioè, nella misura in cui scaturisce da una visione ideologica e dello Stato e del mercato, rende più necessaria una «teoria dello Stato», in fondo superflua fino a che si accetta come indiscutibile il teorema – centrale nella scienza economica standard – secondo cui i mercati portano sempre ad allocazioni efficienti e nessun governo potrebbe migliorare le cose. Una «teoria dello Stato» che potrebbe fare tesoro degli stimoli contenuti in nuovi indirizzi economici collegati all’«economia dell’informazione»: i mercati non come luoghi statici di incontro tra domanda e offerta ma come luoghi dinamici di sperimentazione e di apprendimento, i mercati non come entità naturali ma come istituzioni essi stessi, l’«economia istituzionale» più in generale, la teoria delle «agenzie» e delle authorities, la teoria dei «contratti» ecc.

Il paradosso è che questa esigenza si è manifestata con assoluta chiarezza proprio quando in tanti si sbracciavano a decretare la fine dello Stato-nazione. Ma chi se non gli Stati-nazione hanno salvato l’intero mondo dal collasso nella crisi del 2007-2008? E, più in generale, se è indubbio lo scarto crescente tra Stato nazionale e dimensioni ottimali dei mercati, è altrettanto innegabile che le nuove condizioni di competitività connesse alla globalizzazione, mentre depotenziano di strumenti e di funzioni gli Stati nazionali – deprivati di sovranità o indotti a cedere sovranità verso livelli sovranazionali, come sta accadendo in Europa –, sovraccaricano di responsabilità gli Stati nazionali stessi e tale sovraccarico non trova ancora un’adeguata tematizzazione, una «teoria» in grado di interpretarlo e di trattarlo. Quando Stiglitz insiste nel definire il processo in atto come un processo ad hoc, di global governance senza global government, è questo che intende sottolineare: le conseguenze della mancanza di istituzioni adeguate a gestire il processo di globalizzazione, anche in termini di ricaduta sugli Stati nazionali e di erraticità che tale «adhocrazia» ha su fenomeni quali deregolamentazioni, privatizzazioni, liberalizzazioni, ristrutturazioni, gioco dei mercati finanziari e dei movimenti di capitale.
Seguendo le onde di questi fenomeni l’elaborazione è spinta ad arrivare al cuore dell’assetto della democrazia e delle sue imperfezioni. Stiglitz lo fa in un duplice senso. Il primo attiene alla effettività delle regole della democrazia, a partire dalla trasparenza e dalla corretta diffusione e circolazione delle informazioni, tanto più cruciali di fronte a fenomeni quali la stabilità o l’instabilità macroeconomica (e microeconomica) a livello internazionale, per cui un grande ruolo giocano gli imponenti flussi di capitale. Perché avere informazioni su alcuni movimenti di capitale e non su tutti? Perché non rendere trasparenti i centri finanziari offshore? Come possono istituzioni non trasparenti pretendere la trasparenza?

Ma l’assetto della democrazia viene interrogato anche in un senso che pone in causa i principi della giustizia. Nessuno negherebbe che di fronte a una crisi economica gravissima è prioritario salvare le banche, ma perché, nel caso della crisi del Sud-est asiatico del 1997-98, si trovarono 150 miliardi di dollari per soccorrere le banche e non si trovò un miliardo per i sussidi alimentari dei disoccupati? E perché nel caso della crisi globale esplosa nel 2008 si è impiegata una mole enorme di risorse per salvare il sistema finanziario internazionale e non se ne trova una quantità molto più modesta per combattere la jobless recovery?
Stiglitz sottolinea come i due sensi siano strettamente collegati: affinché una struttura di governo sia adeguata ad affrontare i problemi odierni, e quindi realmente democratica, deve incorporare principi di giustizia; ma i principi di giustizia richiesti dalle condizioni moderne possono essere raccolti e veicolati solo da strutture democratiche in grado di dare voce e rappresentanza, in misura eguale, a tutti gli interessi e valori in campo.

L’esplicitazione di questi interessi e di questi valori si conferma un cardine della dialettica democratica. Con ciò siamo ricondotti a interrogarci sulla fecondità – culturale e politica – dell’armamentario teorico a disposizione della sinistra. Rimane uno spazio enorme per il discorso politico, un discorso che proietti nel futuro la speranza di pensatori animati da una comune fiducia nell’energia evolutiva della democrazia, come Rawls, Dworkin, Habermas, Sen. E questo è vero soprattutto per la sinistra e il centrosinistra.
Il campo più ovvio entro cui questo discorso politico andrebbe praticato – una volta appurato che, piuttosto che la semplice dimensione quantitativa del budget statale o del personale pubblico, ciò che conta è la natura qualitativa e l’efficacia delle attività di governo – attiene a quali ruoli siano appropriati per i governi e a come si possa migliorare l’efficacia dell’azione del settore pubblico. Dall’esperienza delle riforme praticate, a partire dal reinventing government, si possono trarre vari insegnamenti. La retorica delle «reti» e del passaggio «from government to governance» e l’insistenza sulle tecniche del new management creano un più grande bisogno di coordinamento nel momento stesso in cui riducono l’abilità governativa di coordinare19. Analoghi problemi sono generati dalla «esternalizzazione» di molte funzioni dello Stato o dalla creazione di «quasi mercati», i quali peraltro hanno costi di regolazione e di «auditing» molto elevati e quasi mai chiaramente identificati.

Anche la partnership pubblico/privato non è un passepartout buono per tutte le circostanze e non di rado crea più problemi di quanti ne risolva. Il caso delle pensioni – non per nulla ad altissima reattività sociale – è emblematico. Stiglitz, nell’excursus che qui vi dedica – riprendendo quanto disse nel settembre del 1999 (alla vigilia delle sue dimissioni dalla Banca mondiale) in una critica [20], che ha fatto epoca, agli indirizzi privatistici in materia pensionistica della Banca stessa – le analizza come un esempio di lampante superiorità dell’offerta pubblica di copertura rispetto all’offerta privata, tanto sul piano dei costi finanziari quanto sul piano dell’efficacia. Pertanto, Stiglitz ce lo propone come un caso in cui va confermato il monopolio pubblico dell’offerta di protezione pensionistica di base e per il quale l’adozione di un modello a «tre pilastri» deve rafforzare il primato – quantitativo e qualitativo – del pilastro pubblico «a ripartizione» su quello privato «a capitalizzazione» (da adottare per soli motivi di ampliamento della flessibilità e delle opportunità), cosa che, invece, non avverrebbe se si effettuassero riduzioni di parti della contribuzione che oggi finanzia la previdenza pubblica (come si ostinano a proporre i governi di centrodestra) [21]. Non v’è chi non veda quale straordinaria conferma queste posizioni ricevano dalle gravissime difficoltà che la crisi economico-finanziaria del 2007-2008 ha riversato su tutte le forme di previdenza individuali, aziendali, complementari, essendo esse forme di previdenza che gestiscono il rischio non in un’arena pubblica ma nei mercati finanziari trasferendolo dalla collettività al singolo.

Fra gli argomenti utilizzati vanno segnalati i seguenti:
a) i mutamenti demografici attesi investiranno in eguale misura tanto i sistemi pubblici quanto i sistemi privati «a capitalizzazione» i quali, anzi, vedranno rafforzati i loro aspetti problematici, come la limitata indicizzazione all’inflazione, il costo in termini di maggiori contributi per avere diritto a benefici aggiuntivi, le difficoltà a svolgere funzioni redistributive e solidaristiche;
b) i vantaggi attribuiti alla capitalizzazione vanno drasticamente ridimensionati, poiché le assunzioni su elevati tassi di rendimento si confermano immotivate e irrealistiche (si pensi agli attuali andamenti di borsa), le motivazioni in termini di efficienza macroeconomica e microeconomica appaiono dubbie (anche per quanto riguarda la possibilità di elevare il tasso di risparmio e quello di accumulazione), i costi di gestione sono molto alti (fino al 40% dei benefici), così come elevati sono i rischi di «selezione avversa» e di probabilità di «soccorso pubblico» (o di preventiva garanzia pubblica, come è nella proposta di Modigliani) al settore privato, con i conseguenti ulteriori rischi di «azzardo morale».

Lo spazio del discorso politico, dunque, appare davvero molto dilatato, pervaso com’è da tensioni, contraddizioni, dilemmi che investono i fondamenti stessi della convivenza civile. È il caso del destino delle categorie fondamentali della modernità – libertà, eguaglianza, solidarietà – per le «società civili» contemporanee e per la «società civile globale», nelle quali l’affermazione del valore degli individui e delle individue e l’aspirazione alla realizzazione di sé convivono con forti tendenze alla frammentazione e alla divaricazione.
La destra contrappone la libertà all’eguaglianza e, infatti, tratta tali valori esclusivamente con la tecnica del tradeoff. La sinistra considera libertà ed eguaglianza valori interdipendenti e cerca, dietro i possibili trade-offs – non escludibili ottimisticamente a priori –, la composizione del «conflitto di giudizi di valore» sulle libertà che si ritengono importanti. La sinistra ha un’idea di libertà assai più ricca di quella della destra, non limitata alla pura e semplice facoltà di scegliere nel mercato, un’idea che la induce a parlare «delle libertà» al plurale e che la porta a mettere in rilievo un maggior numero di ostacoli, da rimuovere tramite l’azione collettiva, al loro completo dispiegamento. Infatti, se conta la libertà come strumento per raggiungere altre finalità, ma anche la libertà come valore in sé e la libertà secondo altre dimensioni, quali l’integrità e l’autonomia della persona – realizzabili grazie a «capacità», direbbe Amartya Sen –, solo l’esercizio di responsabilità collettive, e dunque pubbliche, può assicurare il perseguimento di questi tipi di libertà e del tipo di eguaglianza richiesto dalla «eguaglianza delle opportunità».

Ma è anche il caso del significato che possiamo oggi attribuire al paradigma della cittadinanza, cioè a ciò che valutiamo ci renda «cittadini» – e di che cosa – e a ciò che ci riconosciamo l’un l’altro come «concittadini»; il che fonda le relazioni appropriate tra individuo e collettività, non concretizzabili se non attraverso la mediazione di istituzioni pubbliche e statuali. La destra contrappone l’individuo allo Stato e l’iniziativa privata alla garanzia pubblica. Il centrosinistra ha una visione molto più articolata. Per esso, infatti, i governi non si limitano solo a regolare la vita delle persone. Fornendo le condizioni istituzionali senza le quali non potrebbero esistere né civilizzazione moderna né attività economica moderna, i governi sono sostanzialmente responsabili per il tipo di vita che i cittadini possono vivere. Perciò le questioni di legittimità politica si applicano a questo stesso quadro generale, oltre che al tipo di opzioni e scelte individuali che esso rende possibili.

Occorre radicalmente ripensare il rapporto pubblico/privato «nella» crisi, «dopo» la crisi. Occorre di nuovo porsi domande che sembravano superate: siamo di fronte a un’eclisse dello Stato-nazione o a un suo grande ritorno? Le disparità e l’opulenza che sono state generate sono giustificate? Quale impatto hanno, su salari e consumi, mercati del lavoro precarizzati? E un nuovo intervento pubblico può essere modellato dall’orientamento ai «beni comuni»? Possiamo pensare che i compiti immani di fronte a noi saranno affrontati, non dico dal «meno Stato e più società civile», ma anche dalla pur auspicabile polimorfia del tessuto sociale e dall’autoregolazione spontanea e molecolare di una pluralità di soggetti che pure è bene assecondare e favorire? Lungi dal rieditare versioni più meno edulcorate del neoliberismo, ci sarebbe bisogno di un grande slancio di riprogettazione innanzitutto culturale «to understand the disaster» [22], che rompa con l’inerzia della riproduzione degli stereotipi del passato e adotti a monte punti di vista alternativi, occhi e sguardi nuovi.

Oggi sono sfidati i paradigmi consolidati, a partire da quello della disciplina economica standard, se è vero che la fase che stiamo vivendo è una nuova Great Transformation analoga a quella che studiò Karl Polanyi negli anni a cavallo fra le due guerre mondiali, tale da richiedere, quindi, un analogo sforzo di produzione di pensiero, di categorie, di idee. Si ha un bel dire che «è da trent’anni che gli economisti studiano i fallimenti dei mercati finanziari, le bolle speculative, le asimmetrie informative che distorcono gli incentivi dei manager e degli intermediari finanziari, le crisi di liquidità» [23[. Il punto è quello presente a Stiglitz fin dalla giovinezza: tutte queste cose dagli economisti proni all’ortodossia dominante sono state studiate come imperfezioni, frizioni, deviazioni, shock esogeni di modelli di mercato – matematizzati all’estremo –, supposti endogenamente immunizzati da incertezza e instabilità e in grado di correggersi da soli. Il punto è, quindi, che a far trovare particolarmente sguarniti alla bisogna è la più complessiva marginalizzazione di punti di vista diversi e di programmi di ricerca alternativi provocata dal dogmatismo con cui l’ideologia neoliberista si è affermata nella scienza economica standard. E questo chiama in causa le responsabilità degli economisti ben al di là delle loro incapacità di previsione [24]: gli economisti vanno accusati, assai più che per non avere previsto la crisi, per avere costruito modelli nei quali la crisi non era contemplata perché intrinsecamente impossibile e quindi a priori sterilizzata.

Quello che va ripensato è il paradigma della main stream economics, la quale si è proposta, piuttosto che come «strumento d’interpretazione della realtà», come «supporto di visioni del mondo molto orientate», offrendo «modelli macroeconomici che escludono per costruzione fenomeni significativi di squilibrio e rendono difficile la comprensione del ruolo dei meccanismi finanziari» [25], modelli in cui i mercati sono supposti intrinsecamente stabili, con deviazioni solo temporanee, e in cui gli agenti economici agiscono come omogenei Robinson Crusoe, ignari tanto della profonda instabilità, quanto della larga eterogeneità e della estesa interazione tra attori proprie del mondo economico reale. Un gruppo di economisti niente affatto «bolscevichi» [26] lancia un manifesto di denunzia dell’irresponsabilità anche etica che nasce dalla pre-analytic belief in simili assunzioni e propone un riorientamento verso nuovi programmi di ricerca, differenziati perfino dal punto di vista epistemologico. In questione, infatti, è anche la metodologia – tutto tranne che umanistica – della dottrina economica standard, così basata su una matematizzazione puramente quantitativa e sul ricorso esasperato all’econometria da far tornare in mente il monito lanciato da Amartya Sen [27] già negli anni settanta del secolo scorso, sui pericoli della ipostatizzazione dello «sciocco razionale», in definitiva un «idiota sociale». Si rivela fallace il disegno di trasformare l’economia da «scienza sociale» in «scienza della natura», recidendo i legami che alle sue origini essa aveva con l’etica: dopotutto Adam Smith era un docente di filosofia morale.

Le questioni a cui bisogna offrire risposta – e che non ne troveranno con le politiche economiche di austerità – sono enormi: combattere la jobless recovery e dare vita a un nuovo ciclo di «piena e buona occupazione»; orientare la crescita verso un nuovo modello di sviluppo, il che vuol dire rilanciare la crescita, sì, ma anche cambiarne natura e struttura, riequilibrando verso la domanda interna e i consumi collettivi sistemi produttivi troppo export-led e concentrati sui consumi individuali [28].
Il modello di sviluppo neoliberista del recente passato si è basato su un vertiginoso incremento dei consumi individuali trainato da una crescita esponenziale dell’indebitamento. Il nuovo modello di sviluppo dovrà basarsi su un grande rilancio degli investimenti in due direzioni: a) riqualificazione ambientale dell’apparato produttivo; b) beni pubblici e beni comuni. Tutto ciò rende oggi centrale la problematica degli investimenti, specialmente sistemici e di lungo termine. Il che richiederà una nuova fase di «socializzazione» dell’investimento, lungo la linea di cui sono clamorosi esempi la Banca pubblica per le infrastrutture creata da Obama e le ben tre banche pubbliche a cui hanno dato vita nel Regno Unito i successori della Thatcher.

L’aspetto cruciale è che abbiamo bisogno di un nuovo intervento pubblico e che troppe poche energie sono dedicate a ridefinirlo. Si trascura che esso dovrà comunque configurarsi come mediazione istituzionale complessa, architettura ramificata, dilatazione e approfondimento della «sfera pubblica» alla Hannah Arendt. Sulle funzioni dello Stato ci si limita a sottolineare quelle di «regolazione», quando, invece, il suo ruolo modernizzante non potrà essere solo regolatorio, posto che le sue funzioni dovranno essere molteplici: presidiare la presenza riequilibratrice dei soggetti pubblici in economia, far valere gli interessi pubblici su quelli costituiti e delle élites, guidare attivamente ed efficientemente una estesa rete di rapporti e di istituzioni della società e dell’economia globalizzata, progettare, promuovere, indirizzare, controllare. Dovrebbe essere fortissima l’ispirazione alla creatività istituzionale che fu propria del New Deal di Roosevelt, alla sua capacità di mettere in gioco una pluralità di attori e di modalità: governo federale, governi locali, agenzie pubbliche, organizzazioni non governative, associazionismo.

Emerge, infatti, la necessità di spostare la composizione della domanda dai consumi individuali ai consumi collettivi. Ma emerge anche l’insufficienza di politiche della domanda – da sole – a rilanciare la crescita in fase di depressione e quando l’economia è segnata da squilibri nelle capacità produttive (in alcuni settori pari al 70% della capacità installata), a loro volta segnali di squilibri negli investimenti, e l’esigenza primaria consiste nel trasformare radicalmente il modello di sviluppo. Per questo occorrono sia politiche della domanda che politiche dell’offerta, le une e le altre volte ad alimentare la domanda interna, gli investimenti, l’innovazione.

La crisi economico-finanziaria non è un incidente di percorso: essa rimette in discussione un intero modello di sviluppo che con la crisi deflagra, e attizza il fuoco sotto problematiche che da tempo la globalizzazione rende esplosive, dalla crescita delle diseguaglianze agli squilibri territoriali, al depauperamento del capitale sociale e dei patrimoni infrastrutturali, alla dequalificazione dei sistemi educativi e delle strutture di welfare, al riscaldamento climatico e alle questioni ambientali generali. Si pongono problemi sia di domanda sia di offerta, e per ambedue i tipi di quesiti – i primi attinenti al cambiamento dei modelli di consumo, i secondi riguardanti le implicazioni in termini di trasformazioni tecnologiche – sono richieste misure non tradizionali. Green economy, beni sociali, «beni comuni» possono essere l’orizzonte strategico complessivo, i contenuti generali che sostanziano le singole politiche da adottare e verso cui veicolare l’innovazione, la ricerca scientifica, il progresso tecnologico. Green economy significa trasformare in mezzi con cui promuovere la crescita la riduzione dell’inquinamento e dell’emissione di gas nocivi, la lotta agli sprechi e all’uso inefficiente e ingiusto delle risorse naturali, il mantenimento della biodiversità, la riduzione della dipendenza energetica dai fossili e il rafforzamento delle fonti alternative. Beni sociali e «beni comuni» significano fare di spazi urbani, salute, intrattenimento, cura di sé, stimolo intellettuale e creatività, contatti e relazioni, benessere familiare, i campi di valorizzazione di una cospicua forza-lavoro sempre più qualificata, il cui apporto può rivelarsi fondamentale per lo sviluppo e per la crescita.

Dunque, la gamma degli interventi pubblici adeguata a sostenere appropriate responsabilità individuali e collettive è molto ampia e riguarda, in modo inestricabile, sia la sfera economica sia la sfera sociale. Essa, infatti, va dal sostenere una cittadinanza condivisa al promuovere un’istruzione permanente e assicurare buone condizioni di salute, ma coinvolge compiti come lo sviluppo delle tecnologie, la creazione e la regolamentazione dei mercati finanziari e così via. In definitiva, una gamma da cui risulta rafforzata la convinzione che non basta reclamare generici adeguamenti e ammodernamenti dei governi e delle amministrazioni: è sempre più importante riferire tali adeguamenti-ammodernamenti a idee forti delle funzioni pubbliche, volte a riproporsi la sinergia – oltre che il contemperamento – tra la difesa delle libertà economiche e l’approfondimento e l’estensione dei diritti, e dei doveri, di una cittadinanza anch’essa ormai sollecitata a ridefinirsi su scala globale.

NOTE

1 Cfr. G. Tremonti, Lo Stato criminogeno. La fine dello Stato giacobino, Laterza, Roma-Bari 1998. In La paura e la speranza. Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla (Mondadori, Milano 2008) Tremonti condisce l’avversione all’esercizio della responsabilità collettiva con neocolbertismo, decisionismo, comunitarismo.
2 Per vigorose argomentazioni in questo senso confronta P. Krugman, Meno tasse per tutti? Dagli Usa all’Italia: chi ci guadagna e chi ci perde, trad. it. di G. Barile, Garzanti, Milano 2001. Sulla tassazione si veda anche L. Pennacchi, L’eguaglianza e le tasse. Fisco, mercato, governo e libertà, Donzelli, Roma 2004.
3 J. E. Stiglitz, Il ruolo economico dello Stato. Un saggio, trad. it. di M. Da Rin, il Mulino, Bologna 1992. Qui Stiglitz sintetizza una produzione molto vasta che, ovviamente, sarà sviluppato anche dopo.
4 J. E. Stiglitz, I ruggenti anni novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell’economia, trad. it. di D. Cavallini, Einaudi, Torino 2004.
5 B. Eichengreen K. H. O’Rourke, A Tale of Two Depressions, Advisor Perspectives, 21 aprile 2009.
6 Per una ricostruzione generale si veda L. Pennacchi (a cura di), Pubblico, privato, comune. Lezioni dalla crisi globale, Ediesse, Roma 2010.
7 A. Glyn, Capitalismo scatenato. Globalizzazione, competitività e welfare, Brioschi, Milano 2007.
8 R. P. Dore, Finanza Pigliatutto. Attendendo la rivincita dell’economia reale, il Mulino, Bologna 2009.
9 J. E. Stiglitz, Bancarotta. L’economia globale in caduta libera, trad. it. di D. Cavallini, Einaudi, Torino 2011.
10 L. Gallino, The Economic Crisis as a Crisis of Civilisation (Consiglio d’Europa, «Trends in social cohesion», 2011, 22).
11 Vale la pena ricordare che agli inizi della crisi, nell’autunno del 2008, Stiglitz (con Roubini, Krugman e altri) sostenne che Obama non dovesse procedere con il piano Paulson di salvataggio ereditato dall’amministrazione Bush, ma nazionalizzare le banche in dissesto. Se questa strada fosse stata seguita oggi non ci troveremmo in una situazione in cui la finanza ha ripreso il suo business as usual e i titoli over the counter – il cui valore è pari a 12 volte il Pil mondiale – sono risaliti ai livelli del 2008.
12 J. P. Fitoussi F. Saraceno, Europe. How Deep Is a Crisis? Policy Responses and Structural Factors Behind Diverging Performances, in «Journal of Globalization and Development», 2010, 1.
13 Si veda L. Pennacchi, La moralità del welfare. Contro il neoliberismo populista, Donzelli, Roma 2008.
14 Per critiche, sia teoriche sia empiriche, si veda, fra gli altri, A. Atkinson, The Changing Distribution of Earnings in Oecd Countries, Oxford University Press, Oxford 2008.
15 M. de Cecco, L’oro d’Europa. Monete, economia e politica nei nuovi scenari mondiali, Donzelli, Roma 1998.
16 Si veda Pennacchi, La moralità del welfare cit.
17 Si veda F. Block, Swimming Against the Current. The Rise of a Hidden Developmental State in the United States, in «Politics & Society», 2008, 2.
18 Si veda J. K. Galbraith, The Predator State. How Conservatives Abandoned the Free Market and why Liberals Should too, Free Press, New York 2008.
19 Una critica ante litteram molto circostanziata è in R. A. W. Rhodes, The Governance Narrative, Economic & Social Research Council, mimeo, London 1999.
20 Questa critica è stata pubblicata in M. L. Mirabile L. Pennacchi, Il pilastro debole. I sistemi previdenziali misti, Ediesse, Roma 2001; si veda, nel volume, oltre ai saggi di Barr, Burtless e altri, L. Pennacchi, Dietro la tirannia dei luoghi comuni: previdenza a ripartizione e previdenza a capitalizzazione a confronto.
21 Tali riduzioni provocherebbero: a) vuoti di gettito contributivo per pagare le prestazioni pensionistiche in essere (e, quindi, costi aggiuntivi per la finanza pubblica); b) contrazione delle prestazioni di coloro che andranno in pensione in futuro. Questi ultimi, in particolare, per avere la stessa prestazione finale totale (somma della componente a ripartizione e della componente a capitalizzazione) dovrebbero pagare gli stessi ammontari o come contribuzione pubblica o come premio agli intermediari privati (o come combinazione dell’una e dell’altro).
22 R. M. Solow, How to Understand the Disaster, in «The New York Review of Books», LVI, 2009, 8.
23 G. Tabellini, Il mondo ritorna a correre, l’Italia non si fermi, in «Il Sole 24 Ore», 24 giugno 2010.
24 A. Leijonhufvud (Out of the Corridor. Keynes and the Crisis, in «Cambridge Journal of Economics», 2009, 33) considera la Old Neoclassical Synthesis, la New Neoclassical Synthesis, la Dynamic Stocastic General Equilibrium Theory altrettante «frodi intellettuali la cui ampia accettazione ha inibito per decenni la ricerca sull’instabilità sistemica».
25 R. Artoni, Poco scientifici e molto dogmatici, in «Il Sole 24 Ore», 26 novembre 2008.
26 D. Colander, H. Follmer, M. Goldberg, A. Haas. K. Juselius, A. Kirman, T. Lux, B. Sloth, The Financial Crisis and the Systemic Failure of Academic Economics, mimeo, 2009.
27 Si veda A. K. Sen, Rational Fools. A Critique of the Behavioural Foundation of Economic Theory, in «Philosophy and Public Affairs»,
1977, 6 (Scelta, benessere, equità, trad. it. di F. Delbono, a cura di S. Zamagni, il Mulino, Bologna 1986).
28 R. Skidelsky, Interesse privato e bene pubblico. Capitalismo e moralità, in «Micromega», 2009, 1.

Folli, fortissimamente folli

‎”Questo messaggio lo dedichiamo ai folli. A tutti coloro che vedono le cose in modo diverso. Potete citarli. Essere in disaccordo con loro. Potete glorificarli o denigrarli, ma l’unica cosa che non potete fare è ignorarli. Perché essi riescono a cambiare le cose. E mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi ne vediamo il genio. Perché solo coloro che sono abbastastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, lo cambiano davvero.” (Gandhi)

I verbi al futuro

Ben altro infatti è il sonno che ci tormenta. Il sonno della passione. Non che la ragione saltelli garrula nelle teste di certi mostri, che si nutrono ormai soltanto di luoghi comuni. Ma la ragione è la macchina: viene dopo. Prima ci vuole la benzina per metterla in moto. E la benzina è la passione, quell’energia del cuore che sa coniugare i verbi al futuro. Massimo Gramellini disegna un futuro credibile: avere il coraggio, la capacità e l’onestà di coniugare i verbi al futuro.

Gente migliore che già c’è

Questo pomeriggio ho partecipato (su invito di Pippo) all’incontro dei ragazzi di Prossima fermata: Italia. Ed è stata una pulsione ricca di idee senza proteste e ricca di proposte. Perché la linea arancione ha già rotto gli steccati e ha già disegnato una zona che chiede solo di avere la possibilità (e qualche volta è una questione di dignità) di costruire. Tutti parlano di un grande cantiere della sinistra ma non tutti hanno l’occasione di avere un secchio, un po’ di cemento e una mezza cazzuola. Spendere le idee che sono già in circolo da tempo e che oggi sono legittimate dalla gente: questo è lo sforzo. Senza perdersi nemmeno troppo a convertire gli inconvertibili che litigano sulle briciole fingendosi cambiati e invece sono semplicemente cangianti.

Ha vinto lui. E adesso?

Mentre tutti festeggiano, l’analisi dei risultati elettorali di Napoli ci dice che ha vinto Luigi. Da solo. E’ che la politica si fa insieme e nessuno sembra avere il tempo di raccogliere quel vento e plasmarlo in contenuti, azioni e qualcosa di credibile su scala nazionale. Perché se decidiamo di non modellarci su quel cambiamento significa che accettiamo di sperare nella provvidenza per pescare credibilità o, peggio, di attaccarci alle persone piuttosto che alla coltivazione di buone pratiche: ed è la cosa che abbiamo sempre contestato. Chi prenderà per primo in mano il cambiamento (che inizia dagli elettori e non finisce con gli elettori) almeno potrà aver detto di averci provato. Per la Politica, mica per altro.