Il pacchista
Giro l’Italia per lavoro. Mangio spesso in Autogrill (il Camogli è una costante della mia vita, insomma). Nel sottobosco delle stazioni di servizio ogni tanto mi perdo ad osservare tipi umani che mi fanno volare via per la loro sfacciata e cocciuta perseveranza da bisbigliatori sui gradini: i pacchisti.
Il pacchista (o paccaro o ogni altro nome prenda con declinazione regionale) sta all’ingresso o all’uscita, di solito ha la gamba destra sul gradino superiore, fuma una sigaretta sempre fumata troppo fino in fondo, discute con un suo compare dei seni e dei sederi turisti che scendono in comitiva dai pullman del parcheggio e hanno un sussulto meccanico per bisbigliare l’offerta del giorno a chiunque rientri nel suo raggio d’azione. Non ha fremiti, il pacchista, non propone con la luce negli occhi come i televenditori o gli ispirati per professione, no, sussurra l’oggetto in vendita con le parole tronche e spente in coda, sempre calante “signò, aifòn”, “signò, aipàd, galacsì, tomtò”.
Mi sono sempre chiesto cosa opprima così ferocemente la voglia di vivere e di vendere il pacchista: se sia forse quella postura che occlude l’arteria della vitalità o quel compare o la nostalgia dei bei tempi quando si rubavano le autoradio con i pomelli e si andava a casa presto. Poi ho capito: il pacchista ha la tristezza di chi sa che può riuscire ad ingannare solo gente di cui non ha stima. Il pacchista ha l’occhio clinico per individuare coloro che potrebbero cascarci, li avvicina quasi infastidito dalla creduloneria dei suoi potenziali clienti e dopo avere rifilato il pacco dice al suo compare che in fondo se lo meritava il pacco quello lì che pensava di comprare l’aifòn a così poco. E ricomincia.
Il pacchista odia i suoi clienti, vive nel terrore di essere fregato per primo e non ha stima di coloro che riesce a convincere.
Ecco, ci ho ripensato oggi aprendo la lettera del rimborso IMU che mi promette Silvio Berlusconi.