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Fare come i razzisti, ma al contrario

È una storia che va raccontata quella dell’aggressione a Beatrice Ion, atleta della nazionale italiana paralimpica di basket e di origine rumena. Bisogna raccontare il razzismo tutti i giorni così che diventi un’emergenza

«Vivo in Italia da 16 anni, ho la cittadinanza italiana e ho fatto qui tutte le scuole. Sto continuando gli studi all’Università, gioco a basket in carrozzina con la Nazionale italiana e mi considero in tutto e per tutto italiana. Eppure sono stata aggredita. Mio papà è in ospedale probabilmente con uno zigomo rotto perché a detta loro siamo stranieri del ca**o che devono tornare al loro paese. Tralascio le offese che mi sono presa perché sono disabile. Io e mamma eravamo dentro e un tipo ci urlava di uscire. Papà stava tornando dalla sua consueta passeggiata e non è riuscito quasi a parlare, colpito da una testata e altro. Urlava anche davanti ai carabinieri: ho un curriculum criminale, a tua figlia handicappata la becco per strada e mi faccio fare un lavoretto… Sono stati davvero brutti momenti. E non mi dite che il razzismo in Italia non esiste. L’ho vissuto oggi dopo 16 anni che vivo qui e fa molto male. A chi ci ha aggredito dico di vergognarsi, saremo anche stranieri ma abbiamo più dignità di loro e chi ha guardato tutto senza fare nulla si dovrebbe vergognare ancor di più».

A raccontare questa storia è Beatrice Ion, stella della nazionale italiana paralimpica di basket, italiana da ben 16 anni e di origine rumena. Beatrice ha incontrato il modello di razzista perfetto: quello che odia gli stranieri, odia i disabili e che riesce addirittura a vedere dei privilegi riservati ai deboli che lui non riesce a sopportare. È una storia significativa perché di fronte al razzismo e alla ferocia ci racconta che non basta nemmeno l’intervento di un genitore, della famiglia ma il razzismo è un liquido velenoso che ha bisogno che tutti si facciano argine per non permettergli di infilarsi dappertutto.

Ma è una storia che va raccontata. Ci ho pensato, mi sono detto che forse era una storia ormai vecchia di qualche giorno e che forse era un caso isolato e poco paradigmatico poi ho pensato che invece queste storie andrebbero raccontate tutte, una per una, tutti i giorni, tutte le volte, ripeterle sui giornali, per strada, al bar, con la stessa ostinazione con cui i razzisti giocano perfidi al sottile gioco di ripetere una bugia per farla diventare parvente verità.

Bisogna fare come loro, al contrario: raccontare il razzismo tutti i giorni così che diventi un’emergenza, qualcosa di cui ci stanchiamo di parlare e di sentire parlare, un atteggiamento troppo ripetuto per poter essere sostenibile. Una cosa così.

E allora, cara Beatrice, sappi che sono in molti a difenderti, moltissimi.

Buon mercoledì.

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«Non riesco a respirare»

Eric Garner, George Floyd, Riccardo Magherini, Federico Aldrovandi… Sono morti che rimangono ai bordi delle strade, riemergono quando l’indignazione scoppia e poi vengono riseppellite di nuovo.

Il 17 luglio 2014, a Staten Island, l’agente Daniel Pantaleo afferrò per il collo fino a soffocare Eric Garner. «Non riesco a respirare», urlava disperato Garner. Morì senza respiro. George Floyd ha ripetuto «non riesco a respirare» negli otto minuti e 46 secondi in cui il poliziotto Derek Chauvin gli premeva il ginocchio sulla gola. I due si conoscevano, erano stati colleghi come buttafuori in un nightclub. Anche questa volta c’è un video che lascia pochi dubbi e che mostra i fatti. Poi c’è la macchina giudiziaria e quella, quando si tratta di forze dell’ordine, si inceppa in declinazioni mostruose: “Non ci sono elementi fisici che supportano una diagnosi di asfissia traumatica o di strangolamento”, dice il referto dell’autopsia, “gli effetti combinati dell’essere bloccato dalla polizia, delle sue patologie pregresse e di qualche potenziale sostanza intossicante nel suo corpo hanno probabilmente contribuito alla sua morte”. Alla fine sarà morto di droga. Sembra una storia già vista, eh?

I neri vengono ammazzati, preferibilmente se adolescenti: nel 2012 il 17enne Trayvon Martin in Florida, nel 2014 il 18enne Michael Brown a Ferguson, Missouri, finisce sempre così: i poliziotti assassini sono assolti, scoppiano le rivolte razziali, arriva la Guardia nazionale e comincia il coprifuoco. Secondo uno studio della National Academy of Sciences in Nord America la sesta causa di morte tra gli uomini di età tra i 25 e i 29 anni è un arresto di polizia per gli appartenenti a uno stesso nucleo etnico: rispetto ai bianchi, gli uomini afroamericani sono 2,5 volte più a rischio, le donne 1,4 volte. Per i nativi uomini, il rischio è di 1,2-1,7 volte maggiore, mentre per le donne tale fattore è compreso tra 1,1 e 2,1. Per gli uomini latini, infine, la probabilità cresce di 1,3-1,4 volte rispetto ai bianchi.

Ma non è tutto. Fatal Encounters è un sito fondato e diretto dal giornalista D. Brian Burghart che attraverso un’accurata rassegna stampa anche di testate minori e locali, ha raccolto in un database gli estremi di oltre 24.000 uccisioni effettuate dalla polizia dal 1° gennaio 2000 ad oggi: alla data del 6 gennaio 2019 venivano elencate 1810 vittime della polizia colpite tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2018. Questo significa che la polizia, prima ancora di un processo, ha ucciso 72 volte più persone di quante ne siano state messe a morte a seguito di una procedura giudiziaria.

Poi c’è il resto: un presidente incendiario che con il sorriso di Nerone osserva le proteste blindato nel suo ufficio spargendo parole di odio e di fuoco. Il mandante morale e morbido dello scontro ha gli occhietti iniettati di Trump.

Poi ci sono gli italiani che si dimenticano i nostri morti che non riuscivano a respirare: «mio figlio Federico è morto nello stesso modo di George Floyd. Schiacciato sotto le ginocchia e il peso di un poliziotto mentre chiedeva aiuto e diceva “non riesco a respirare”», ha scritto Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovrandi. Urlava la stessa frase Riccardo Magherini, morto la notte del 3 marzo 2014 quando venne fermato dai carabinieri.

Sono morti che rimangono ai bordi delle strade, riemergono quando l’indignazione scoppia e poi vengono riseppellite di nuovo.

Buon lunedì.

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Caso Cucchi: dove tocchi trovi merda. Il pm al processo: “I carabinieri avevano una relazione segreta precendente all’autopsia”

Spunta anche una relazione medica del 30 ottobre 2009, finora tenuta segreta, che sarebbe stata realizzata prima dell’autopsia di Stefano Cucchi, di cui il Comando provinciale dei Carabinieri di Roma sarebbe stato a conoscenza.

E’ la novità emersa oggi in apertura di udienza al processo bis in corte d’Assise per la morte del geometra romano, avvenuta nell’ottobre del 2009 sul filone dei depistaggi. Nel documento secretato, ricostruisce il pm Giovanni Musaro’, veniva evidenziato che la lesivita’ delle ferite non consentiva di accertare le cause del decesso. Mentre nelle relazioni dell’Arma veniva esclusa la possibilita’ di un collegamento tra le fratture rilevate e il decesso del giovane avvenuta nello stesso giorno.

Una prima analisi mai emersa finora i cui risultati erano completamente diversi da quelli scritti nell’autopsia che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari infatti, che vennero negati anche all’avvocato della famiglia Cucchi, si parlava di due fratture e non precedenti, oltre a un’insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. “Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?” ha sottolineato Musarò in aula parlando della relazione preliminare all’autopsia di Stefano Cucchi.

“I legali di Cucchi nel 2009 – ha aggiunto – avrebbero fatto richiesta invano di quel documento. Il dottor Tancredi in quella relazione preliminare spiegò che c’erano due fratture e non fratture precedenti alla morte. Inoltre non faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e al fatto che Stefano Cucchi era morto per una serie di cause ancora da accertare. Nel verbale dei carabinieri invece – ha concluso – si sosteneva che non c’era un nesso di causalità delle ferite con il decesso”.

 “Non so dirvi per quale ragione la predetta relazione preliminare non fu messa a disposizione delle altre parti fin dall’inizio delle operazioni” spiega  il dottor Dino Mario Tancredi nel corso della sua audizione come persona informata sui fatti del 6 marzo scorso, come si desume dal verbale. “Per pervenire a delle conclusioni – ha aggiunto – io successivamente fui affiancato da una serie di specialisti. Scrivere la relazione in 5 mesi non fu facile perche’ c’erano tantissimi aspetti da valutare e una enorme mole di documenti.
Le operazioni per la consulenza collegiale iniziarono il 9 novembre 2009″.

Quanto al contenuto della relazione, secondo Tancredi il documento “contiene un parere preliminare che e’ del tutto orientativo perche’ e’ poi necessario compiere gli approfondimenti e le valutazioni del caso. Per questo il pubblico ministero ci concesse 60 giorni”.

(fonte)

«Trova sexy le divise?»: il medioevo piomba sul processo delle ragazze stuprate a Firenze

Dodici ore e 22 minuti sotto un fuoco di fila di domande. Le studentesse Usa di 20 e 21 anni che a settembre a Firenze hanno denunciato di essere state violentate da due carabinieri in servizio, tre mesi fa sono tornate in Italia per ripetere le loro accuse davanti a un giudice. Nell’aula bunker, separate dai legali, hanno risposto su quella notte, quando dopo una serata in discoteca hanno incontrato due carabinieri in divisa che si sono offerti di accompagnarle a casa. I carabinieri hanno ammesso il rapporto sessuale sostenendo che c’era il consenso delle ragazze. Le analisi hanno confermato che le ragazze erano ubriache. I difensori dei militari avevano annunciato 250 quesiti per ogni ragazza. Il giudice, il solo che poteva parlare con loro e doveva fare da filtro, ne ha ammesse molte meno: ecco la sintesi dell’interrogatorio
(Antonella Mollica)

Il giudice Mario Profeta spiega le «regole» dell’udienza alle due ragazze: «Verrete ascoltate oggi e poi non sarete più disturbate, se si farà il processo quello che verrà detto oggi varrà come prova. La legge non consente che le testimoni vengano offese, non sono consentite domande che attengono alla sfera personale, che offendono e che ledono il rispetto della persona».

Avvocato Cristina Menichetti (difensore del carabiniere Marco Camuffo): «Prima di arrivare al rapporto sessuale non si era scambiata nessuna effusione con Camuffo, effusioni consensuali e reciproche?». Avvocato: «Durante questo rapporto il carabiniere l’ha mai minacciata, ad esempio urlando o con le mani?».
Risposta: «Nessuna minaccia esplicita però mi sentivo minacciata dal fatto che lui porta un’arma».
Avvocato: «Quindi ha usato la forza per sottometterla?».
Giudice: «Cosa intende per forza avvocato?».
Avvocato: «Se ha dovuto forzarla, esercitare una certa pressione, se è un gesto violento con una certa vis impressa nel gesto». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Non ha lottato fisicamente? Volevo sapere se Camuffo ha esercitato violenza…». (A questo punto il legale scende nei particolari della presunta violenza sessuale, ndr).
Giudice: «Che brutta domanda avvocato. Sono domande che si possono e si devono evitare nei limiti del possibile, perché c’è un accanimento che non è terapeutico in questo caso… Non bisogna mai andare oltre certi limiti. È l’inutilità a mettere in difficoltà le persone, non si può ledere il diritto delle persone».
Avvocato: «Lei trova affascinanti, sexy gli uomini che indossano una divisa?». Giudice: «Inammissibile, le abitudini personali, gli orientamenti sessuali non possono essere oggetto di deposizione».
Avvocato: «Lei indossava solo i pantaloni quella sera? Aveva la biancheria intima?». Domanda non ammessa.
Avvocato Giorgio Carta (difensore del carabiniere Pietro Costa): «In casa avevate bevande alcoliche? Lei ha bevuto dopo che i carabinieri sono andati via?». (L’avvocato cita nuovamente in modo esplicito la presunta violenza sessuale, ndr).
Giudice: «Non l’ammetto, non torno indietro di 50 anni».
Avvocato: «Alla sua amica hanno sequestrato tutti i vestiti compresi slip e salvaslip, voglio capire se lei ha nascosto qualche indumento alla polizia». Domanda non ammessa.
Giudice: «Si fanno insinuazioni antipatiche, perché si dovrebbe nascondere alla polizia degli indumenti?».
Avvocato: «Penso che qualcuno abbia finto un reato, io non voglio sapere come lei circola, con o meno gli indumenti, voglio sapere se ha dato tutto alla polizia».
Giudice: «Ricorda il momento in cui le hanno sequestrato gli indumenti?».
Ragazza: «No».
Avvocato: «Io non ci credo che non lo ricorda».
Giudice: «Non possiamo fare la macchina della verità».
Avvocato della ragazza: «Giudice, vorrei sapere a che punto siamo delle 250 domande annunciate dall’avvocato».
Giudice: «Se sono come le ultime sono irrilevanti, andiamo avanti. Se stiamo cercando la spettacolarizzazione avete sbagliato canale».
Avvocato: «La ragazza si è sottoposta a una visita ginecologica sulle malattie virali. Possiamo sapere l’esito di questa visita?».
Giudice: «Sta scherzando avvocato? Questo attiene alla sfera intima non è ammesso questo genere di domande. Ripeto: non torno indietro di 50 anni, non lo consento a nessuno».
Avvocato: «Si può sapere se ha una cura in corso?».
Giudice: «No».
Avvocato: «È la prima volta che è stata violentata in vita sua?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Quando era in discoteca ha dato una o due carezze ad un carabiniere?». Domanda non ammessa.
Più avanti, rispondendo a un altra domanda, la ragazza racconta: «Non mi ricordo tutto, ero ubriaca, però mi ricordo che ci siamo baciati e che lui mi ha tirato giù la maglietta. Mi ricordo che ha cercato di toccarmi nelle parti intime, che ha tirato fuori il pene e io ero assolutamente in choc. Ero così sconcertata, però, ero talmente ubriaca, mi sentivo indifesa non avevo la forza di dire o fare qualcosa. Mi ricordo che gli dissi di no, non volevo avere un rapporto con lui. Dopo non ricordo più niente. So che abbiamo avuto un rapporto».
Giudice: «Allora come fa a dire che ha avuto un rapporto? Glielo chiedo con rispetto ma questo aspetto deve essere chiarito».
Ragazza: «Perché sentivo fastidio alle parti intime».
Avvocato: «Quando è entrata in Europa ha dichiarato che aveva soldi in contanti? Alla dogana ha dichiarato i soldi?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Ha un fidanzato?».
Giudice: «Cosa ci interessa avvocato?».
Avvocato: «Voglio sapere se ha un fidanzato, se è un poliziotto ecc…».
Avvocato: «È stata arrestata dalla polizia negli Stati Uniti? Ha precedenti penali?».
Giudice: «Domanda non ammessa. Non si può screditare un teste sul piano della reputazione, lo si può fare sul contenuto delle dichiarazioni. Se un teste non è una persona sincera lo dobbiamo rilevare dal contenuto delle dichiarazioni».
Avvocato: «A che titolo risiede negli Stati Uniti? (la ragazza è di origine peruviana, ndr). Era preoccupata per il suo titolo di permanenza negli Usa?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Ha mai visitato un negozio di divise a Firenze?».
Giudice: «Ma che ci interessa! Non è rilevante!».
Avvocato: «Ha mai fotografato il volantino di questo negozio?».
Giudice: «Non è rilevante».
Avvocato: «Ha scambiato il numero di telefono con il carabiniere quella sera? Ha promesso a un militare di rivedervi nei giorni successivi? Prima che le venisse sequestrato il telefono ha cancellato una telefonata?».
Avvocato: «Lei ha bevuto durante il tragitto dentro la macchina dei carabinieri?».
Avvocato: «Non le è sembrato strano che i carabinieri accompagnassero a casa le persone?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Il carabiniere si è accorto che lei era ubriaca?».
Giudice: «Non va bene avvocato, stiamo chiedendo a una persona ubriaca, affermazione senza offesa visto che l’ha detto lei, se avesse la capacità di rendersi conto del suo interlocutore».
Avvocato: «Ha mai detto al carabiniere che non avrebbe voluto fare sesso con lui?». Domanda non ammessa e riformulata.
Ragazza: «Dopo che lui ha tirato giù il top volevo che smettesse». Avvocato: «Il carabiniere ha insistito per avere contatti con lei? Ha insistito silenziosamente, con gesti e parole, perché uno insiste a un no…».
Giudice: «Ha manifestato questo non gradimento con comportamenti espliciti?».
Ragazza: «No, non avevo forza nel mio corpo».
Giudice: «E con questa risposta non accetto più domande così invadenti».
Avvocato: «Perché dobbiamo privarci di scoprire la verità, la ragazza muore dalla voglia di dire la verità, sentiamola se è salita a piedi…».
Giudice: «Che ironia fuori luogo, ora sta andando oltre il consentito. C’è una persona che secondo l’accusa ha subito una violazione così sgradevole e lei fa dell’ironia? Io credo che non sia la sede».
Avvocato: «Avevate alcolici a casa? Ha bevuto alcolici dopo che i carabinieri erano andati via?».
Avvocato: «Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina?»
Avvocato: «Cosa diceva esattamente la sua amica quando urlava? Erano urla di parole o semplicemente urla di dolore?».
Giudice: «No, fermiamoci qui, il sadismo non è consentito».

(fonte)

Le donne da vittime a imputate. Anche in tribunale.

A proposito delle due ragazze americane che hanno denunciato di essere state stuprate a Firenze e a proposito del mostruoso processo di rivittimizzazione Cristina Obber ne ha scritto su Lettera Donna:

 

A Firenze si è svolto l’incidente probatorio per le due ragazze americane che hanno denunciato di essere state stuprate da due carabinieri la notte tra il 16 e il 17 settembre 2017. L’Ansa specifica che «la difesa ha insistito sulla tesi di un rapporto consenziente, che le ragazze hanno negato decisamente per tutta la deposizione, tra pianti e malori».

Sette e cinque le ore consecutive di interrogatorio per le due ragazze. Tra pianti e malori, appunto. Una violenza che si chiama rivittimizzazione e che significa ritrovarsi da vittime a imputate anche nei luoghi preposti a darci giustizia. Una violenza perpetua, cristallizzata. I nostri tribunali sono ancora fermi al Processo per stupro, lo storico documentario che a fine Anni ’70 filmò un processo per stupro a Latina in cui era appunto evidente come a ritrovarsi sul banco degli imputati fosse la vittima, incalzata dalle domane degli avvocati sulla sua vita privata, domande volte a screditarne la credibilità.

Una cultura che non cambia e che nella narrazione degli stupri si concentra sempre sull’abbigliamento della vittima, le sue relazioni, le sue abitudini, la sua vita sessuale. Come se ci fosse qualche pertinenza. Come se indossare gli shorts o andare in giro dopo mezzanotte equivalesse ad andarsela a cercare, a una qualche corresponsabilità della vittima. Come se in caso di rapina fosse il rapinato ad essere processato per essersi incamminato in una via deserta, per aver istigato il ladro a delinquere, offrendogliene l’occasione.

D’altronde il sindaco di Firenze Dario Nardella, dopo la notizia sugli stupri aveva messo l’accento sull’abitudine degli studenti a sballarsi, allo stesso modo in cui lo pseudo-quotidiano Libero raccontava che le ragazze americane quella sera «barcollavano e non si reggevano in piedi». Eppure nelle aule dei tribunali approfittare della incapacità della vittima di difendersi magari proprio perché ubriaca, costituisce un’aggravante del reato. Ma le ragazze spesso non lo sanno, e per questo non denunciano, si sentono addirittura in colpa. Anche nei miei incontri nelle scuole superiori mi è capitato di sentirmi dire «Se una è strafatta non può pretendere che non le accada nulla», oppure: «Se una ti butta in faccia le tette poi non si può lamentare se si trova in un angolo».

 

(continua qui)

Inchiesta sui carabinieri a Lunigiana: le “poche mele marce” sono 37 cc indagati

(ANSA) – MASSA (MASSA CARRARA), 6 OTT – Sono 37 i carabinieri indagati per presunti abusi, ai danni di cittadini stranieri, avvenuti nelle caserme di Aulla e Licciana Nardi, due comuni in Lunigiana, provincia di Massa Carrara. E’ quanto si legge negli atti di chiusura delle indagini della procura di Massa Carrara, notificati nei giorni scorsi ai militari, interessati nel complesso da 189 capi di imputazione.

Brigadieri, marescialli, appuntati, ma tra gli indagati, sebbene per “episodi marginali”, ci sono anche il tenente colonnello Valerio Liberatori, già comandante provinciale di Massa Carrara e il comandante della compagnia di Pontremoli, Saverio Cappelluti, entrambi accusati di favoreggiamento, per aver “aiutato i carabinieri indagati ad eludere le investigazioni dell’Autorità”. Nelle carte della Procura si parla di atti intimidatori e vessatori, soprattutto nei confronti di cittadini extracomunitari. Un giovane marocchino sarebbe stato costretto a subire atti sessuali “senza ragione alcuna se non razziale”.

Scrive il gip di Firenze che è «estremamente verosimile» che le due studentesse americane siano state stuprate

Il giudice per le indagini preliminari di Firenze Mario Profeta ha rifiutato la richiesta di interdizione per un anno fatta dalla procura per i due carabinieri accusati dello stupro di due studentesse americane, ma ha anche detto che è «estremamente verosimile l’ipotesi che i rapporti sessuali siano stati consumati contro la volontà o comunque senza un consapevole valido e percepibile consenso delle due ragazze». Nel documento con cui ha rifiutato la richiesta di interdizione, Profeta ha anche praticamente escluso «l’ipotesi di una macchinazione» organizzata dalle due ragazze, dando un primo e importante giudizio sulla loro attendibilità. Profeta comunque ha deciso di non far interdire i carabinieri – una misura che in questo caso probabilmente prevedeva la rimozione dal servizio dei due uomini – perché «il clamore internazionale della vicenda» probabilmente impedirà per molto tempo il loro rientro in servizio (attualmente sono stati solamente sospesi).

(fonte)

La toppa peggio del buco: avete letto le scuse dell’Arma dei Carabinieri sul presunto stupro di Firenze?

Ecco qua:

 

«L’Arma dei Carabinieri chiede scusa a queste due ragazze e speriamo di recuperare con loro e con le loro famiglie»: lo ha detto sabato mattina ad Omnibus su La7 il capo ufficio stampa dell’Arma dei Carabinieri, colonnello Roberto Riccardi riguardo l’episodio che si è svolto a Firenze ai danni di due studentesse americane da parte di due carabinieri in servizio e in divisa. Riguardo alle accuse di maschilismo che sono state fatte nei confronti dell’Arma, Riccardi ha spiegato che «per noi è una novità relativamente recente l’ingresso delle donne nei nostri ranghi», avvenuto dal 2000, e «questo ci sta aiutando molto a vivere in modo completo il rapporto con l’altra metà del cielo: essere a contatto per lavoro, uscire di pattuglia insieme, avere responsabilità comuni, avere un comandante donna è istruttivo da questo punto di vista. Il maschilismo è sempre in agguato per chiunque ma spero che non sia un problema per l’Arma dei Carabinieri o delle Forze Armate in genere».

 

Ecco. Io, davvero, non so cosa dire.

“Profugo? Una randellata nel muso”: la legge secondo i carabinieri di Aulla

Ecco qua:

«I negri sono degli idioti, sono delle scimmie». «Profugo? Io ti do una randellata nel muso se non stai zitto». «Minchia, le botte che hanno preso quei due neri». «Lo abbiamo preso, lo saccagnavamo di botte perché non voleva entrare in macchina… quante gliene abbiamo date». «Come siamo caduti in basso! Questa (parlano di Alessandra Mussolini – ndr) dice: “Tagliate i capelli al negro clandestino”. Il nonno tutte saponette ha fatto. Cioè, vuoi mettere la differenza proprio di utilità di sta gente? Ha capito tutto tuo nonno, te non capisci un c…». Conversazioni a ruota libera fra i carabinieri in servizio in Lunigiana. Intercettate dalle microspie piazzate nelle auto di servizio nel corso dell’inchiesta della procura di Massa costata l’arresto a quattro di loro e l’allontanamento dalla provincia di altri quattro, mentre ulteriori 18 militari e 4 civili sono indagati. L’inchiesta documenta decine e decine di reati, fra cui almeno cinque brutali pestaggi subìti nell’ultimo anno da un clochard polacco e da immigrati nordafricani, uno dei quali sbattuto a terra, la faccia schiacciata con una scarpa contro l’asfalto, la canna della pistola in bocca, pugni e calci in tutto il corpo. Emergono anche condotte non così violente ma spregevoli, come fare pipì sui materassi sui quali dormivano degli extracomunitari.

«Se i nostri vertici volessero veramente che smettono con i furti… ci danno carta bianca. Per un mese… tu nel giro di un mese debelli il 90% dei delinquenti. Carta bianca però ci vuole, eh! Guarda anche senza uccidere… Tutti i marocchini che ci stanno qua, che spacciano, che cosano… li prendi una volta al giorno, li carichi in macchina… tutti i giorni e li gonfi di botte. Gli devasti la casa, gli devasti tutto quello che c’ha. Un po’ di sana violenza, vedi che nel giro di un mese già le cose son cambiate da così a così».

E come fare a impedire alla gente di andare a comprare droga? Una scarica di multe per violazioni del codice della strada, inventando eccessi di velocità o il mancato uso delle cinture di sicurezza. «Bisogna cominciare a seminare il terrore tra quelli che comprano (droga – ndr)! Via soldi, punti, patenti, via!».

Poi se qualche auto aveva il contrassegno dell’assicurazione scaduto, bastava bucare le gomme. Punizione toccata anche a una sarta colpevole di fare prezzi troppo alti.

È come se Aulla e l’intera Lunigiana fossero una sorta di Far West, con tanto di sceriffi giustizieri armati fino ai denti. Agli indagati sono stati sequestrati alcuni taser, storditori elettrici con cui – diceva uno di loro – «ogni tanto damo una scaricatella a qualcuno». E poi manganelli, pugnali, coltelli a serramanico, un’ascia, che gli indagati tenevano in casa, in auto e anche in caserma. Alcuni erano arrivati a immaginare di uccidere in caserma un marocchino per far finire nei guai un maresciallo colpevole di aver avviato un procedimento disciplinare contro uno di loro. Secondo loro, nell’Arma tutti si dovevano sostenere. «La regola madre per fare il carabiniere è che quello che succede qua non se deve venì a scoprì. È cosa nostra. Proprio come la mafia». E la pm che ha “osato” indagare su di loro «deve morire, e male anche».

Il gip Ermanno De Mattia sottolinea la propensione alla violenza e l’intenso odio razziale che anima molti degli indagati. A proposito del brigadiere Alessandro Fiorentino, da mercoledì in carcere, scrive: «L’imponente mole di elementi indiziari ne dimostra un impressionante abituale ricorso alla violenza». E aggiunge: «Non è in grado di svolgere la sua attività di Carabiniere senza commettere numerosi e frequenti delitti… E, soprattutto quando si trova a interagire con extracomunitari o con persone socialmente emarginate, è privo di qualsiasi capacità di autocontrollo».