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carlo giuliani

G8 di Genova: la verità è resistenza

Non è rimasto sangue solo sui muri della scuola Diaz a Genova, in quel 2001 che è stato l’anno delle prove generale del mondo che poi è stato. Bisognerebbe partire dalla considerazione che il sangue, tossico, ha inquinato una narrazione che non riesce a svicolare dal pregiudizio. Tutto quello che crediamo di sapere su Genova è falsato dalla miopia. Carlo Giuliani e piazza Alimonda, ad esempio, sono figli di una perversione disinformata: basterebbe prendersi il tempo di leggere l’inchiesta “L’orrore in piazza Alimonda” per avere coscienza di una millanteria diventata storia.

Ma perché eravamo in piazza a Genova in quel 2001? Il cosiddetto movimento “no global” altro non era che l’inizio di quel largo sentimento anti establishment che oggi è maturato e attraversa l’Europa. Dietro lo slogan “un altro mondo possibile” c’era il desiderio di un movimento transnazionale che puntasse alla giustizia sociale senza i condizionamenti sciacalli delle multinazionale. Oggi, 15 anni dopo, la lobby è delineata e riconoscibile: la finanza, nelle sue forme più malate, è la fotografia della multinazionale che tiene i fili del mondo.

Forse varrebbe la pena ricordare che lo spettro della globalizzazione che aleggiava su Genova già nel 2001 aveva le sembianze del Fondo Monetario Internazione e del WTO. Ancora una volta la Storia rimette le questioni a posto e gli allarmisti diventano profeti. A Genova le istanze che stavano in piazza (osteggiate dai manganelli facili al servizio del potere) oggi sono diventate un vento politico. Nonostante le botte.

La giornalista canadese Naomi Klein (autrice di quel libro, No Logo, che è un manifesto) e l’intellettuale americano Noam Chomsky oggi sono i testimonial mainstream degli stessi principi che si concentrarono a Genova quindici anni fa. Nonostante gli sforzi della retorica del potere nelle strade della capitale ligure non c’erano “giovani balordi e incappucciati”; a Geniva sfilarono l’Arci, le miti Acli, i sindacati con la FIOM in testa, Legambiente, il WWF, diverse associazioni religiose, la rete Lilliput e il mondo della cooperazione internazionale e molte altre realtà volutamente estromesse dalla memoria. I cosiddetti “antagonisti” (altra definizione cara all’inquinamento della memoria) erano le più importanti realtà associative del Paese.

Così mentre oggi ci si riaccapiglia ancora su spari, pietre e estintore sarebbe il caso di resistere ripristinando la verità, se non la giustizia.

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Solo un’intervista

La mia intervista rilasciata per gli amici di Tivoli Liberatutti:

11265401_875148892556424_1075474428854141994_ndi Davide Fabi 

Attore, politico, cantastorie, scrittore, attivista in prima linea contro la mafia e tanto altro.
Ma forse meglio di lui nessuno può presentarlo: “Io sono di sinistra. Della sinistra che sta nell’idea che preserva il suolo, l’ambiente, l’acqua e l’aria come bene comune. Che crede nell’impegno dell’uguaglianza: uguaglianza di possibilità, uguaglianza sociale e uguaglianza nei diritti e nei doveri. Della sinistra che trova inaccettabile questo paese come laboratorio del totalitarismo moderno. Che crede nel valore della laicità e vigila sulla libera professione delle fedi, che coltiva la ricchezza delle differenze, che pretende dignità nel lavoro, che crede nelle leggi come opportunità di convivenza e di tutela, che condanna lo sfruttamento e il mercimonio e che ha una storia di persone e di valori. Così, tanto per chiarire.”

Ci ha risposto a qualche domanda.

 

Iniziamo dall’EXPO. L’evento è iniziato da pochi giorni ed è già tempo di bilanci. 

14 Miliardi di euro. 

Il 5,4 % di quanto viene speso in un anno per le pensioni italiane. 

3,2 Miliardi di euro solo per la costruzione dei padiglioni. 

Il Padiglione ITALIA doveva costare 63 milioni di euro, ora ne costerà 92.”

Questi sono alcuni dati dell’EXPO. Ma s’è l’è giocata veramente così male l’Italia l’organizzazione di quest’evento?

Ci sono, secondo me, due considerazioni importanti: l’esborso economico, in primis, non mi pare in linea con la situazione economica italiana (ma diciamo pure europea) e ovviamente la politica “fa politica” nel momento in cui decide come destinare i soldi. Credo che il problema sia come quei soldi avrebbero potuto essere utilizzati altrimenti per cogliere nel pieno lo spirito dell’evento che fin dall’inizio dichiaratamente era di proporre un modo etico e nuovo per nutrire il pianeta. Certo è che solo alla conclusione di Expo si potranno tirare le somme, considerando non solo le “entrate economiche” ma anche e soprattutto se davvero si sarà riusciti a formulare una nuova cultura del cibo. E su questo mi arrogo il diritto di essere pessimista.

Poi c’è la sfida internazionale di riuscire a raccontare un’Italia che riesce ad affrontare un grande evento senza incappare in mafia e corruzione. Ebbene, nonostante l’impegno di Cantone e le promesse dei vari amministratori a tutti i livelli mi sembra che si possa serenamente dichiararsi sconfitti. Senza elencare gli innumerevoli micro casi basti pensare che tra gli indagati (con evidenti prove a carico) c’è il collaboratore più stretto di Giuseppe Sala. Può bastare?

Lotta alla criminalità organizzata. “La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.” queste parole sono di Giovanni Falcone, di cui pochi giorni fa è stato l’anniversario della morte. E’ vivo il tuo impegno contro le mafie, non solo quelle che operano nei ben noti territori del Meridione ma anche quelle che si spostano al Nord Italia passando per Roma, e si confondono dietro appalti truccati e infinite colate di cemento. Quanto è grave il problema delle mafie nelle zone in cui si crede non sia presente?

Al nord si è riusciti nella disdicevole impresa di convincerci che mafie e corruzione siano due fenomeni distinti e quindi ha avuto gioco facile chi si è appoggiato alla retorica della coppola e della lupara per negare l’esistenza del fenomeno. La pervasività delle mafie è larga ovunque lo Stato perda sul campo dei servizi e delle rassicurazioni sul futuro rispetto alla criminalità organizzata: credo che su questo versante il nostro Paese sia abbastanza unito. Ora, dopo la fase della presa di coscienza, mi auguro che si passi all’analisi e alla costruzione di chiavi di lettura collettive: questo è compito anche della scuola, della politica oltre agli operatori culturali.

Il Teatro. Hai fondato nel 2001 la “Bottega dei Mestieri Teatrali”, dalla tua biografia (https://www.giuliocavalli.net/chi-sono/) ti dipingi come un cantastorie, cosa ti ha spinto a raccontare a teatro tanti avvenimenti della storia italiana recente?

Forse per una mia stortura credo che la contemporaneità sia un dovere morale per chi ha il privilegio di fare il mio mestiere. Farsi ascoltare è cosa talmente rara che non si può sprecare raccontando storie che non siano utili per leggere meglio il presente.

Le storie/1. Tra i tanti temi trattati, hai portato a teatro la tragica storia di Carlo Giuliani e di quel luglio genovese. Il 7 aprile 2015, in merito ai fatti della scuola Diaz, i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno condannato all’unanimità lo Stato Italiano per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”) ritenendo che l’operato della Polizia di Stato “deve essere qualificato come tortura. Che ricordo hai di quei giorni caldissimi?

La mia esperienza con le forze dell’ordine deriva da un angolo di osservazione piuttosto atipico: sono sempre stato “vicino” a molti movimenti di protesta (per un mio vecchio vizio di prendere posizione, parteggiare appunto) e allo stesso tempo ho un rapporto quotidiano con le forze dell’ordine che mi proteggono. Io credo che in un Paese democratico le critiche agli abusi e alle prepotenze (soprattutto se perpetrate da forze pubbliche) siano l’unico reale rispetto che si possa avere. Quindi non sopporto i “difensori” per postura e allo stesso modo i “colpevolisti” per pregiudizio.

In questa posizione dico che Genova (parlo della Diaz e di Bolzaneto) è stato uno dei momenti più bassi di democrazia. Anzi, concordo in pieno nella definizione di “sospensione della democrazia” ed evidentemente, come succede spesso in Italia, hanno pagato solo i pesci più piccoli. In quei giorni (come avviene ancora oggi) la criminalizzazione dei manifestanti sparata a cannonate dai principali network televisivi ed editoriali è riuscita nell’impresa di nascondere le reposnabilità e addirittura i fatti.

Le storie/2. È in corso un progetto di autofinanziamento per il tuo prossimo spettacolo “L’amico degli Eroi” (https://www.produzionidalbasso.com/pdb_3875.html). Lo spettacolo, scritto diretto ed interpretato da te e con le musiche di Cisco Bellotti, è “liberamente ispirato alla vita di Marcello Dell’Utri”. 

Come sta andando la raccolta fondi? Cosa puoi dirci di più sullo spettacolo?
Quanto influirà ancora questo modo di intendere la Politica? Per quanto ancora pagheremo lo scotto di aver permesso e concesso a questi personaggi di avere il potere?

Dopo aver lavorato su Giulio Andreotti (con un libro e con uno spettacolo) era inevitabile scivolare sull’andreottismo moderno portato avanti da Marcello Dell’Utri nella sua doppia veste di servitore imprenditoriale e servitore politico. Ricordo che Gian Carlo Caselli, eravamo ancora all’inizio della stesura de “L’innocenza di Giulio”, predì che il passo successivo avrebbe dovuto essere uno studio su Dell’Utri. Io non temo tanto Andreotti o Dell’Utri, sia chiaro, quanto l’andreottismo e il dellutrismo che hanno proposto un metodo di gestione del potere in cui le mafie vengono trattate come soggetti autorevoli per il confronto, lo scambio e l’eventuale convergenza di obiettivi.

Questa volta poi abbiamo deciso di organizzare una “produzione sociale” che mettesse insieme tanti piccoli coproduttori piuttosto che amministrazioni pubbliche e fantomatici bandi: credo che il metodo di produzione di uno spettacolo sia una caratteristica fondamentale dell’etica di preparazione del prodotto culturale e trovare così tanti sostenitori tra il mio pubblico e i miei lettori inevitabilmente mi responsabilizza molto di più tenendomi tra l’altro ben saldo con i piedi per terra piuttosto che perdere energie e tempo in assurdi, patafisici rapporti politici con amministratori troppo spesso incompetenti nel campo culturale. Siamo vicini al raggiungimento della quota che ci permetterà di andare in scena e di dare alle stampe il libro con il copione e le informazioni giudiziarie del processo di Dell’Utri a Palermo. Io credo che finché non riusciremo a riconoscere i “dellutrismi” oltre a Dell’Utri non saremo capaci di disinnescare questo stillicidio di politici indegni.

PS Siamo in dirittura d’arrivo del nostro crowdfunding per il mio prossimo spettacolo e libro. Se volete darci una mano potete farlo qui. E passatene parola. Se potete e se volete. Grazie.)

 

20 luglio 2001. Perché?

Non riesco più a commemorarlo Carlo Giuliani e quella Genova del 2001. Non riesco nemmeno a rivedere le immagini. Non sopporto le barricate che ancora dopo undici anni si levano ogni anno.

Che poteva starsene a casa.

Che Genova è stata messa a ferro e fuoco da quattro scalmanati.

Che la sospensione della democrazia è un’esagerazione perché lo Stato deve difendersi.

Tutte queste altre cose qui.

E nessuno, dico nessuno, che risponde a questi perché.

Perché?

Le due giustizie di Genova 2001

C’è una giustizia che assolve e addirittura promuove De Gennaro e una giustizia che condanna per devastazione e saccheggio. Ma il punto è politico e di memoria collettiva. Per questo ho firmato l’appello di 10×100 che ha un senso di memoria e libertà.

APPELLO ALLA SOCIETÀ CIVILE E AL MONDO DELLA CULTURA

La gestione dell’ordine pubblico nei giorni del G8 genovese del luglio del 2001, rappresenta una ferita ancora oggi aperta nella storia recente della repubblica italiana.

Dieci anni dopo l’omicidio di Carlo Giuliani, la “macelleria messicana” avvenuta nella scuola Diaz, le torture nella caserma di Bolzaneto e dalle violenze e dai pestaggi nelle strade genovesi, non solo non sono stati individuati i responsabili, ma chi gestì l’ordine pubblico a Genova ha condotto una brillante carriera, come Gianni De Gennaro, da poco nominato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

Mentre lo Stato assolve se stesso da quella che Amnesty International ha definito “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, il prossimo 13 luglio dieci persone rischiano di diventare i capri espiatori e vedersi confermare, in Cassazione, una condanna a cento anni di carcere complessivi, in nome di un reato, “devastazione e saccheggio”, che rappresenta uno dei tanti detriti giuridici, figli del codice penale fascista, il cosiddetto Codice Rocco.

Un reato concepito nel chiaro intento, tutto politico, di perseguire chi si opponeva al regime fascista. Oggi viene utilizzato ipotizzando una “compartecipazione psichica”, anche quando non sussiste associazione vera e propria tra le persone imputate. In questo modo si lascia alla completa discrezionalità politica degli inquirenti e dei giudici il compito di decidere se applicarlo o meno.

E’ inaccettabile che, a ottant’anni di distanza, questa aberrazione giuridica rimanga nel nostro ordinamento e venga usata per condannare eventi di piazza così importanti, che hanno coinvolto centinaia di migliaia di persone, come le mobilitazioni contro il G8 a Genova nel 2001.

Non possiamo permettere che dopo dieci anni Genova finisca così, per questo facciamo appello al mondo della cultura, dello spettacolo, ai cittadini e alla società civile a far sentire la propria voce firmando questo appello che chiede l’annullamento della condanna per devastazione e saccheggio per tutti gli imputati e le imputate.

Per una battaglia che riguarda la libertà di tutte e tutti.

Firma l’appello.

Genova, 20 luglio 2001, secondo Erri De Luca

Anche quest’anno ho letto molto per l’anniversario di Genova. Le diverse posizioni, più o meno condivisibili, che tutti gli anni ciclicamente escono con affetto o con bile, con lucidità o con strumentale ignoranza. Non ho riguardato i filmati. Quest’anno no. Mi si crea un dolore e un disgusto che non riesco a dissimulare. Quest’anno ho letto, tra le tante cose, tanti verbi al passato, come se quella Genova non fosse la madre abusata di nuovo che ha partorito le vicende recenti, dalla Val di Susa fino ad ogni piazza dove si confonde volutamente la richiesta con la rabbia, il diritto con la ribellione e l’ordine pubblico con la desertificazione sistematica della manifestazioni di idee. Poi ho trovato questo pezzo di Erri De Luca. E mi ci sono ritrovato a nuotare dentro pensando che una buona memoria si può provare a ripulire, a martellare, a costruire. Almeno per noi.

20 luglio 2001 di Erri De Luca

Un proverbio persiano dice: «Se vuoi farti un nome,

viaggia o muori». Lui non voleva un nome,

quel mattino di luglio voleva andare al mare.

La strada era già un mare,

le ondate di migliaia dietro migliaia dentro le piazze,

i vicoli, nei viali, allagavano Genova città.

Pensò ch’era Venezia, liquida di canali.

Cercò di navigarla, però l’alta marea

di molta umanità se lo portava via nella corrente.

Più logico seguirla. Era lo stesso una giornata al mare.

 

Montava il terzo giorno di acqua alta, a Genova e di luglio,

tre giornate di onde di persone.

 

C’era l’appuntamento di otto presidenti

con la scorta delle gendarmerie assortite,

pure le guardie forestali e di penitenziario.

C’erano i paracadutisti e i palombari.

A parte queste frotte, Genova conteneva

la formula migliore di popolo riunito dalla rosa dei venti.

Su qualunque mezzo, compreso nave, bicicletta e a piedi:

evviva i viaggiatori, sudati, intransigenti, lieti.

 

Quel giorno terzo il cretino al potere, incretinito appunto dal potere, scagliò la truppa addosso all’alta marea. Era marea di quelle che non possono defluire a mare. Nella città compressa tra la collina e il porto non aveva uscita, sfogo, scappamento. Aggredita, si riformava ovunque, scossa e scombinata dal suo stesso formato innumerevole. Sbatteva contro i muri, i manganelli, i calci in faccia e gli insulti della truppa arroventata dal sole e dal cretino.

 

Lui si mischiò dentro l’acqua agitata.

Pensò che il mare non andava preso a calci.

Il mare quando è fatto di persone, va ascoltato e basta.

Il mare quando è pieno di sale di ragione, va in salita

scavalca dighe e moli. Oggi io sono il mare,

pensò all’ingresso del piccolo slargo di piazza Alimonda,

nome che finisce con un’onda.

Gli venne il sorriso veloce di quando scorgeva

la strizzatina d’occhio di una coincidenza.

 

Amava il latino, traduceva Catullo stordito d’amore,

Ovidio spedito in esilio, Virgilio col biglietto

per visitare l’aldilà, il gran museo dei morti.

Amava il latino. Nel mazzo di carte da studio un ragazzo

ci vuole vedere in qualcuna il suo settebello.

Mare: in latino al plurale fa mària.

Decise quel giorno e quell’ora che avrebbe sposato

una di nome Marìa e le avrebbe spiegato perché.

 

Su piazza Alimonda il sole batteva a tamburo,

la luce bruciava negli occhi.

Un carabiniere coi calci

sfondò il vetro del suo quattroruotemotrici.

Di solito i vetri si rompono da fuori.

Quello si ruppe da dentro. Il carabiniere

tolse così l’ostacolo alla mira e la sicura all’arma.

Lui pensò di dover raccogliere i vetri,

non vanno lasciati sul fondo del mare.

Chinato a levarli, un estintore gli rotolò vicino.

Lo prese, gli venne l’impulso di gettarlo via,

s’accorse del carabiniere, del vetro sfondato, del braccio,

con l’arma, col dito. Che fai disgraziato?

Non vedi che io sono il mare?

 

Il mare lanciò l’estintore con tutta la forza

del braccio e dell’onda di piazza Alimonda.

In volo incrociò la pallottola calibro nove.

Cadendo pensò che il mare così abbatte le sue ondate

addosso alla scogliera e quando si sollevano gli spruzzi

vengono giù e l’onda non c’è più.

Il mare nell’urto da azzurro si rompe nel bianco.

Gridarono le ali e le lenzuola stese,

gridò lo zucchero, la farina, il sale,

il marmo, la pagina e la schiuma delle onde vicine,

gridò il bianco dell’uovo e delle voci.

 

Pensò: non è così che sposerò Maria.

Un accento si sposta e si scombina il legittimo destino,

può darsi che c’entri il latino,

o un giorno violento di luglio, lo scambio di un mare per l’altro.

Pensò ch’era arrivato a riva,

dove il mare riabbraccia la sua onda schiantata

e la riassorbe. Pensò al respiro di sua madre, il mare.

Poi scivolò sul fondo, senza peso di vita.

 

Dice il proverbio persiano: «Se vuoi farti un nome,

viaggia o muori». Dieci anni più tardi il suo nome viaggia

insieme alle onde che sono la maggioranza del mondo.

Parole chiare. Grazie Pisapia.

Giuliano Pisapia: “Dieci anni fa moriva Carlo Giuliani, un ragazzo di 23 anni, con le speranze e le paure di tanti suoi coetanei. Era un ragazzo che sognava un futuro migliore per il nostro Paese e per il mondo, cui sentiva di appartenere e che desiderava più giusto, più libero, più democratico. Nel decimo anniversario dell’uccisione sono vicino ai suoi genitori, Heidi e Giuliano. A loro è stato sempre negato il diritto a un pubblico dibattimento, l’unico che avrebbe potuto fare piena luce sulla dinamica di quei tragici avvenimenti che resteranno per sempre dolorosamente impressi nella nostra memoria e nella storia d’Italia”.