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casa bianca

«Escort». E tutti giù a ridere

Su Rai Uno l’offesa pesante a una donna viene considerata goliardia?

Dunque Alan Friedman ospite della trasmissione Uno mattina mercoledì 20 gennaio per commentare l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, ha voluto regalarci una perla di maschilismo travestito da analisi politica dicendo: «Donald Trump si mette in aereo con la sua escort e vanno in Florida». Poi si è corretto, come si correggono i pessimi comici che non fanno ridere e ha detto «moglie».

La escort in questo caso era Melania Trump, moglie dell’ex presidente degli Usa. Si è levato giustamente un coro di indignazione ma poco, meno di come avrebbe dovuto essere. Perché? Perché in fondo offendere la compagna del proprio nemico politico è considerato meno grave per chi usa la difesa delle donne semplicemente come roncola, come l’ennesima arma da portarsi nell’agone politico.

Eppure offendere la moglie di un avversario per colpire lui è proprio un comportamento maschilista fatto e finito. Forse sarebbe il caso di difendere i principi e i valori indipendentemente dal fatto che ci tornino utili per attaccare quelli che non ci stanno a genio. Sì, è vero che fa ridere ascoltare Salvini che si indigna, proprio lui che ha portato sul palco una bambola gonfiabile paragonandola a Laura Boldrini. Ma questo non è il punto, ora. Il punto è difendere la dignità di Melania Trump, in quanto donna oggetto di attacchi maschilisti. Questo ci interessa.

Anche perché Friedman si è giustificato dicendo che non era una parola “voluta” e che stesse traducendo dall’inglese. «La parola che volevo dire era ‘accompagnatrice’», dice Friedman. Beh, caro Friedman, una moglie non è l’accompagnatrice del proprio uomo, non esiste solo in quanto portatrice dell’identità del suo marito o compagno. E poi sorge una domanda spontanea: Friedman è corrispondete dall’Italia dal 1983, davvero è ancora così indietro con la sua capacità di linguaggio? Dai, non scherziamo, su. Chiamare “gaffe” una frase sessista non si può sentire, no.

Ma andiamo avanti: la conduttrice rimprovera a Friedman la sua pessima uscita e lui dice che «Melania non è una vittima ma è razzista come Trump». Quindi il buon Friedman siccome voleva attaccare Melania Trump non le ha dato della razzista ma le ha dato della escort. Peggio di prima. Passano alcune ore e ieri Friedman scrive «ho fatto una battuta infelice, chiedo scusa». E niente, non riescono proprio a dire “ho fatto una battuta sessista e me ne scuso”. È più forte di loro.

Immaginate se quella stessa frase fosse stata rivolta alla moglie di Biden o peggio alla moglie di Obama: sarebbe scattato l’inferno. Dai, facciamo i seri e difendiamo i principi che vanno difesi senza farsi inquinare dal tifo. L’onestà intellettuale è una forma di rispetto per se stessi e in questo caso anche delle donne.

Buon venerdì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Caso Navalny: la lezione della Merkel al mondo e l’imbarazzante silenzio del Governo italiano

Che brutto silenzio che tira dalle parti del governo italiano sulla vicenda di Alexei Navalny, l’oppositore russo di Putin che secondo gli esperti militati tedeschi sarebbe stato avvelenato da Novichok, un veleno che vale come una firma e che è legato alla storia della Russia quando ancora era Unione Sovietica. Il governo tedesco (che dopo un lungo tira e molla è riuscito a fare trasferire Navalny in Germania) ha confermato “senza alcun dubbio” che il leader dell’opposizione russa è stato avvelenato e Angela Merkel ha usato parole durissime: “È chiaro che Navalny è vittima di un crimine ed è stato messo a tacere”, ha detto, condannando con “la massima fermezza possibile” quanto accaduto e auspicando “una reazione congiunta appropriata” nei confronti della Russia in accordo con Nato e Unione Europea.

Sempre a proposito di reazioni, leggetevi le parole della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: “Un atto spregevole e codardo. I responsabili devono essere assicurati alla giustizia”. Addirittura anche la Casa Bianca parla di “riprovevole avvelenamento” senza dubbi. Una bella fetta di mondo insomma parla, prende posizione, critica, accusa, pretende spiegazioni e richiama il presidente Putin alle sue responsabilità chiedendo che venga fatta il prima possibile luce sull’accaduto. Da lontano, flebile, arriva invece la voce del governo italiano: l’unica nota ufficiale sta malinconicamente scritta in cinque righe sul sito del ministero degli Esteri, in cui si esprime “profonda inquietudine ed indignazione” e si chiede “che la Federazione Russa chiarisca con rapidità e trasparenza le responsabilità dell’accaduto”.

Avete visto una dura presa di posizione del ministro Luigi Di Maio? Qualche frase di circostanza, obbligatoria, e poco altro. Per non parlare del centrodestra, che con Putin gozzoviglia da anni, che sembra non essersi nemmeno accordo dell’accaduto. Però su proposta di Di Maio, intanto l’Italia ha insignito dell’Onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della ”Stella d’Italia” il primo ministro di Putin Mikhail Mishustin, proprio uno degli esponenti politici messo sotto accusa da Alexei Navalny per gli eccessivi guadagni non giustificati (790 milioni di rubli guadagnati dalla moglie solo negli ultimi 9 anni). Il premier Conte invece ha avuto una conversazione telefonica con Putin in cui il presidente russo aveva parlato di “inammissibilità di accuse frettolose e infondate”. E l’Italia inchinata alla Russia sembra qualcosa di più di una semplice sensazione.

Leggi anche: 1. Berlino: “Navalny avvelenato, prove inconfutabili. Mosca spieghi” / 2. Novichok: cos’è, e che effetti ha sul corpo, l’agente nervino usato per uccidere l’ex spia russa Skripal / 3. Russia, il video in aereo dell’oppositore di Putin che grida di dolore: “L’hanno avvelenato” / 4. Russia, approvata la riforma della Costituzione: Putin potrà governare fino al 2036 / 5. L’ascesa della Russia di Putin non passa solo dalla Siria

L’articolo proviene da TPI.it qui

L’uguaglianza secondo Obama

Tanto per notare le differenze:

Obama va alla guerra delle tasse: imposte più alte sui ricchi (colpiti i «capital gain», non i redditi da lavoro) da redistribuire al ceto medio in difficoltà sotto forma di sgravi fiscali per le famiglie con figli e misure di sostegno sociale: soprattutto il college gratis per quasi tutti gli studenti e l’aspettativa di paternità pagata. Deciso a non passare alla storia come il presidente che ha stabilizzato e rilanciato l’economia Usa dopo una crisi gravissima, ma poi non è riuscito a evitare una frattura nella società col drammatico impoverimento del ceto medio, il leader democratico proporrà domani sera al Congresso e all’America una ricetta economica con la quale infrange il tabù dell’aumento dei tributi.

Lo farà nell’occasione più solenne: il discorso sullo Stato dell’Unione, che viene pronunciato ogni anno in diretta tv davanti alle Camere riunite. La sicurezza e la lotta al terrorismo saranno sicuramente temi centrali, ma, entrato nell’ultimo biennio alla Casa Bianca, la sua eredità politica Obama se la gioca soprattutto sulle questioni interne. In America, poi, è già iniziata la campagna per le presidenziali del 2016 al centro della quale ci sarà il malessere assai diffuso in un Paese che, pure, ha ripreso a creare molti posti di lavoro. Ma la globalizzazione dell’economia e i processi di automazione hanno favorito una progressiva polarizzazione dei redditi, mentre i nuovi lavori sono concentrati nella fascia alta delle professioni creative più remunerative o in quella bassa della manodopera non qualificata che spesso non arriva nemmeno a mettere insieme il reddito minimo di sopravvivenza del nucleo familiare. In mezzo, un ceto medio sempre più schiacciato.

E’ soprattutto per questo che Obama ha visto la sua popolarità declinare negli ultimi anni. Mentre la «sconfitta annunciata» alle elezioni di «mid term» di novembre si è trasformata in débâcle, nonostante Pil e occupazione in forte crescita. Col Congresso ora totalmente controllato dalla destra, la Casa Bianca ha pochi margini di manovra, ma il presidente ha deciso ugualmente di lanciare una controffensiva: «State of the Union» diventa così il punto d’arrivo di un percorso fatto di annunci di interventi sociali a sostegno del ceto medio.

Fino a ieri Obama aveva puntato soprattutto sull’istruzione e il welfare: asili nido, i primi anni dell’università pagati dallo Stato, i permessi di paternità retribuiti. Ma ora il team del presidente fa sapere che domani Obama romperà gli indugi anche sul fronte del Fisco. Tre le misure che dovrebbero essere proposte dal lato delle entrate: 1) l’aumento, dal 23 al 28 per cento, della tassa su dividendi e «capital gain» di chi ha un reddito superiore al mezzo milione di dollari l’anno. 2) L’estensione del prelievo fiscale ai «trust» che oggi vengono usati dalle famiglie più facoltose per trasmettere la loro ricchezza agli eredi evitando ogni tributo. 3) Un maggior prelievo su banche e finanziarie di grandi dimensioni (oltre 50 miliardi di dollari di patrimonio) concepito in modo da colpire chi fa un ricorso maggiore all’indebitamento. Una manovra consistente ma non gigantesca né radicale: 320 miliardi di dollari in dieci anni (parliamo di circa 27 miliardi di euro l’anno) senza aumenti delle aliquote sui redditi da lavoro o riduzione di sgravi oggi molto generosi come quelli sui mutui-casa. Un gettito, comunque, più che sufficiente a coprire i costi del piano di interventi sociali che Obama si accinge a proporre. 60 miliardi serviranno per il college gratis. Poi ci sono da coprire i costi dell’aspettativa pagata per i padri, ma il grosso della manovra (235 miliardi, sempre in dieci anni), andrà ai sostegni economici alle famiglie. Qui il presidente vuole aumentare a 3 mila dollari il contributo annuo erogato per ogni figlio fino all’età di 5 anni, più 500 dollari versati a ogni famiglia con un reddito inferiore ai 210 mila dollari nella quale entrambe i coniugi lavorano.

E’ improbabile che tutte queste misure entrino in vigore: Obama può realizzare solo alcuni interventi marginali utilizzando i poteri presidenziali. Per il resto dovrà affidarsi al voto del Congresso dove alcuni repubblicani hanno già bocciato le sue proposte. Ma la destra deve stare attenta: Obama punta su misure condivise in passato anche da esponenti conservatori e le inserirà nel bilancio che presenterà il 2 febbraio. A dire no su tutto i repubblicani rischiano di finire in rotta di collisione col ceto medio.

(clic)

La Guerra alla droga. E il suo fallimento.

me16Questo è un Paese in cui il coraggio veramente progressista nell’affrontare i problemi arriva sempre con qualche decennio di ritardo: succede per i diritti civili, succede per le leggi finanziarie, succede per la lotta (vera) alla mafia e succede per la questione “droga”. Verrebbe da pensare che sia fondamentale “allarmare” per poi finalmente aprire un dibattito e (nel migliore dei casi) intervenire a livello legislativo. Eppure i numeri del proibizionismo della droga sono numeri che dovrebbero fare riflettere e che dovrebbero essere raccontati almeno per potere formulare un giudizio consapevole e, ci auguriamo tutti, una soluzione al passo con i tempi e con i fallimenti passati. Magari prima del Governo del 2030, verrebbe da dire:

La storia della Guerra alla droga inizia dunque nel giugno 1971, con la scelta di Nixon di impegnarsi in un conflitto più grande, e ancor più difficile e folle, di quello in Vietnam. La droga, dice l’allora presidente in un discorso, è il nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti. Nonostante la politica anti-criminalizzazione di Jimmy Carter, che porta, nel 1979, la depenalizzazione in 10 stati, Ronald Reagan torna sui passi di Nixon, e torna con lui la tolleranza zero. Uno dei protagonisti di Breaking the taboo è Robert DuPont, ex responsabile della propaganda anti-droga della Casa Bianca dal 1973 al 1977, sotto i presidenti Nixon e Ford. Oggi, è uno dei principali oppositori alla guerra. Giustifica il suo passato, in parte, così: «Il governo era completamente impreparato all’esplosione del problema della droga. We totally misunderstood cocaine».

Nel 1989 negli Usa il presidente è George H. W. Bush (Senior), e Forbeselegge Pablo Escobar, 40 anni, settimo uomo più ricco del pianeta, con un patrimonio stimato in 25 miliardi di dollari. Escobar trasportava 15 tonnellate di cocaina al giorno nei soli Stati Uniti. Tra i protagonisti del doc c’è anche César Gaviria, presidente della Colombia dal 1990 al 1994, gli anni d’oro del più grande narcotrafficante del mondo. Inizialmente la Colombia era il paese dove si processava la droga, che veniva coltivata in Bolivia e Peru. Quando anche la produzione arrivò a Medellin, nacquero i grandi cartelli. «La gente» spiega Gaviria «aveva paura di Escobar». Forse. Ma fu proprio quando Stati Uniti e Colombia decisero di sfidare il potere del suo cartello che esplose una vera e propria guerra che portò 50.000 morti in due anni. Le immagini, a questo punto del documentario, mostrano piantagioni in fiamme e attacchi chimici su campi coltivati, da parte di aeroplani. La Colombia è l’unico paese al mondo in cui fu utilizzata questa tecnica, chiamata affumicazione aerea, che spesso colpiva e uccideva, però anche raccolti “innocenti” e circostanti. Facile, in queste situazioni, immaginare la spontaneità con cui le popolazioni locali simpatizzassero con i narcos. «Non puoi fare una guerra alla droga» aggiunge Ruth Dreifuss, ex presidente svizzera, «senza fare una guerra al popolo».

Dall’inizio del Plan Colombia nel 1999, l’iniziativa studiata dall’allora presidente sudamericano Pastrana e da Bill Clinton (un altro dei “pentiti”) per fermare la guerriglia colombiana e l’esportazione di cocaina, il numero dei paesi “coltivatori” passò da otto a ventotto. Oggi il traffico di droga mondiale ammonta a 320 miliardi di dollari l’anno, il più grande mercato clandestino del pianeta. Senza leggi a regolare questo traffico, come dice Morgan Freeman, armi e violenza sono i metodi di controllo più efficaci.

Andrade si sposta poi in Brasile, accompagnato da Fernando Cardozo, anche lui, manco a dirlo, ex entusiasta della Guerra alla droga. Le immagini parlano di sparatorie, ragazzi che si nascondono dietro macchine e riprendono il fuoco, pallottole che si sentono ma non si vedono, adulti e bambini che scappano nel panico. Si concludono con il pianto dei superstiti su alcune vittime, sdraiate in una strada e coperte da una plastica gialla trasparente, qualcosa che richiama, insieme, un imballaggio da banco frigo di un supermercato e una “panetta” di droga.

Si passa al Messico, alle spese dell’ex presidente Calderon nella Guerra (un miliardo di dollari solo nel 2008), ai 400.000 omicidi legati alla droga registrati dal 2006 a oggi, un dato che è difficile da quantificare esattamente, di primo acchito. È necessario rifletterci per un attimo, e tentare di stabilire le esatte dimensioni di 400.000 esseri umani (mi ha ricordato l’interminabile elenco di morte di Roberto Bolaño in 2666, o la popolazione dell’intera città di Bologna). E dopo il Messico, il primo piano di Bush Senior, sibillino e minaccioso: «If you do drugs, you will be caught. And when you’re caught, you will be punished. Some think there won’t be room for them in jail. We’ll make room». Realista: la Guerra alla droga è anche e soprattutto domestica. Circa 2 milioni e mezzo sono i detenuti negli Stati Uniti, un numero più alto di quelli cinesi. Erano 330.000 nel 1970. a Baltimora, una delle città più “problematiche” della nazione, su 600.000 persone, nel 2007, ci furono 100.000 arresti. Si è calcolato che la popolazione che fa uso di droga nel mondo (anche saltuariamente) è di 230 milioni di persone; di queste, il 90% non è “problematic”. In Italia (paese europeo leader nel consumo di droghe leggere) il 20,9% della popolazione compresa tra i 15 e i 35 anni fa uso di marijuana; in Olanda è il 9,5%. Siamo il secondo mercato oppiaceo del continente, il terzo per quanto riguarda la cocaina, e il 31% degli arresti del 2011 sono legati alla droga (dati dell’International Narcotics Control Strategy Report, marzo 2012). Intanto, negli Stati Uniti, nel 2009 si registrarono 1,6 milioni di arresti legati alla droga; 1,3 per il solo possesso; 800.000 legati alla sola marijuana.

Si passerebbe, poi, all’Afghanistan, alle esportazioni di eroina che farebbero impallidire Escobar. Si passerebbe all’Olanda, al Portogallo, alla Svizzera, ai vantaggi della depenalizzazione e della legalizzazione (che rimangono, comunque, concetti estremamente diversi). Si passerebbe (si dovrebbe passare) ad altri articoli, altri dati, un’informazione più vasta: uno su tutti, il dato della spesa militare statunitense per la Guerra alla droga. Erano cento milioni di dollari la prima volta, nel 1971, sono quindici miliardi quelli del 2012. E poi c’è una ricorrenza importante, che dà ancora più senso al documentario e alla sua esistenza, gratuita e pubblica: quest’anno sarà l’ottantesimo anniversario dal 1933, l’inizio del proibizionismo americano. Non esattamente un bel ricordo per il mondo.

(da Rivista Studio)