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La satira secondo il PD

Sergio Staino ha detto sulla vignetta di Charlie Hebdo: «Neanche un ubriaco o il pazzo di quartiere farebbe una cosa simile, che senso ha? Quando ti metti al tavolo per disegnare qualcosa o c’è un senso in quello che fai o meglio non farlo tanto per offendere qualcuno. E’ tempo speso male. Ripeto, sarebbe meglio non parlarne. Altrimenti si fa il loro gioco.». Lo potete leggere qui.

Poi ha disegnato la vignetta qui sopra per perculare la Raggi e il M5S. Ecco. Appunto. Vedere per credere.

 

Aristofane e Charlie Hebdo

Galatea l’ha scritto come non si sarebbe potuto dire meglio:

«Aristofane era uno stronzo.

Non faceva satira. Almeno non sempre. Quando se la prese con Socrate, per esempio, mica se la stava prendendo con il potere. Aveva potere, Socrate? Ma quando mai. Era un filosofastro con le pezze al sedere, che manco era chiaro come campasse, forse facendosi mantenere sotto banco dai suoi discepoli, più probabilmente arraffando qua e là a scrocco ai banchetti uno spritz e i salatini.

Era un poveraccio, buffo e facile da prendere in giro, per giunta noto per essere tollerante. Uno che non avrebbe querelato, e nemmeno avrebbe mandato a casa di Aristofane qualche amico potente a minacciare. Era un poveraccio, Socrate, ma di buon carattere e inoffensivo.

Aristofane lo prese a bersaglio. Ci scrisse sopra una intera commedia, presentandolo come uno svampito intrallazzone. Fu feroce, e cattivo. Gratuitamente.»

Il suo post è qui.

Analfabeti funzionali, analfabeti sentimentali e satirofobi

Succede sempre così: se il mondo che ci circonda non corrisponde alla nostra idea di mondo ci impuntiamo come patetici indignati telecomandati.

Se Charlie Hebdo sfancula l’Islam (che odiamo poiché lo temiamo) allora tutti che reclamano la libertà di satira. In realtà scrivono “libertà di satira” ma intendono un fantomatico diritto di piasciare smargiassi sui propri nemici. La satira, in quel caso, è intesa come diritto di sottendere schifo verso gli altri. Se la satira attacca noi (la religione e in questo caso il traballante Paese che si sbriciola ogni terremoto) allora ci invertiamo: “e no, e non si può, e ci vuole rispetto!”. Qualcuno in queste ore addirittura scrive “hanno fatto bene a sparargli, a questi di Charlie Hebdo”.

Che brivido il conformismo benpensante. Che pena il sindaco di Amatrice che non ci spiega della ricostruzione della sua scuola e si indigna per la vignetta. Che pena questa rivolta sui social che non s’è accorta di un condannato nella squadra nominata a ricostruire Amatrice (basta leggere qui), che ha dimenticato gli “inciampi” di Errani (eccoli qui), che abita spesso sotto cemento mafioso depotenziato, che è convinta che L’Aquila sia stata ricostruita e si coagula invece intorno a una vignetta. Un’orda di rabbia vendicativa che ha lo stesso conato degli integralisti. Islamici, italiani, ipercattolici: le mandrie indignate che non riuscendo a cambiare il mondo pretendono di non essere disturbate dal mondo.

Tutti alla ricerca di un luogo in cui non dovere fare fatica, in cui essere sempre d’accordo. Il pensiero unico come sogno della nuova borghesia morale. E poi ci si lamenta di avere una classe dirigente riducibile a piazzisti, pubblicitari e comunicatori turbospinti.

E nessuno si accorge che la vignetta ha funzionato. Un’altra volta ancora.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai.

Da leggere Igiaba Scego, fino in fondo:

«Ma qui in occidente ogni musulmano è potenzialmente colpevole, ogni musulmano è considerato una quinta colonna pronta a radicalizzarsi. Il fatto non solo mi offende, ma mi riempie anche di stupore. Sono meravigliata di quanto poco si conosca il mondo islamico in Italia. L’islam è una religione che conta più di un miliardo di fedeli. Abbraccia continenti, paesi, usanze diverse. Ci sono anche approcci alla religione diversi. Ci sono laici, ortodossi, praticanti rigorosi, praticanti tiepidi e ci sono persino atei di cultura islamica. È un mondo variegato che parla molte lingue, che vive molti mondi. Andrebbe coniugato al plurale.

Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.

Not in my name, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.

Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.»

(fonte)

Sottomissione e il coraggio di farci cambiare

UnknownHo appena finito di leggere  Sottomissione di  Michel Houellebecq e devo dire che pur avendolo acquistato sull’onda emotiva dei fatti di Charlie Hebdo è un romanzo che vale la pena di leggere e vale la pena lasciare decantare. Houellebecq è innanzitutto un grande romanziere e quindi non è difficile appallottolarsi sotto il calore della sua scrittura ma nella Parigi di un indeterminato futuro in cui il protagonista del libro vive l’ascesa al governo del partito musulmano ci sono molti tratti dell’europa di oggi. Sì, dell’Europa piuttosto che l’Islam, perché Sottomissione è soprattutto un romanzo sulla nostra ignoranza del cambiamento, sull’essere maleducati nel cogliere le differenze di un ambiente che ci modifica sotto traccia, infidamente liquido, portandoci alla sensazione di una naturale accettazione del corso degli eventi. In fondo anche a noi (come a François, studioso di Huysmans e protagonista del libro) è capitato in questi ultimi anni di impegnarci a cambiare il mondo senza mai avere imparato a farci cambiare dal mondo, sempre fissi sulle nostre convinzioni tradendo un ostinazione come compiacente virtù piuttosto che una sclerotizzazione delle nostre antenne che ascoltano là fuori. E forse davvero anche noi siamo finiti per riconoscere (senza avere il coraggio di confidarlo a nessuno) che la sottomissione, nostra e delle nostre aspirazioni, ha qualcosa di vergognosamente comodo e confortante. Mancanza di responsabilità, ecco, come condono sempre valido.

Il libro lo potete comprare qui

“Il successo del terrorismo dipende dalle conseguenze che innesca”

L’editoriale particolarmente ispirato dell’amico Lorenzo Fazio:

No, non siamo in guerra, non siamo in guerra con nessuno. Invece, dopo quanto successo a Parigi, sembra che tutti diano per scontato che l’esercito della libertà e della democrazia sia già schierato  contro l’esercito del fondamentalismo sanguinario islamico. Siamo caduti in trappola. La parola guerra scappa di bocca a tutti, dal difensore più disciplinato dell’ordine occidentale all’opinionista più illuminato e aperto. Persino comici, vignettisti, attori, e chi con la libertà ci lavora, non rinuncia  a evocare quella parola. La guerra è data per inevitabile e necessaria, “fermare la barbarie” è l’unica missione per le nuove generazioni chiamate a “conquistare la pace”.

La circolare inviata dall’assessore all’istruzione della regione Veneto, Elena Donazzan, ai presidi delle scuole in cui si chiede ai musulmani di condannare i fatti di Parigi e di aderire ai valori occidentali, rivela il clima in cui siamo precipitati. Tutti gli stranieri sono potenziali nemici, devono dimostrare di non esserlo. In spregio a qualsiasi principio liberale.

Come editore che da diversi anni si batte contro le verità del potere e come tutti coloro che hanno a cuore la parola e il pensiero, credo che bisogna spezzare questo discorso sulla “guerra necessaria” in nome della libertà. Un contro senso che poggia sull’idea che solo noi siamo i buoni e che gli altri, loro, sono i cattivi, dimenticando tutti gli orrori e i morti che abbiamo provocato.  Se non riusciamo a sradicare questo pregiudizio andremo incontro a nuove tragedie. Il compito di noi editori che operiamo nel settore dell’informazione è cercare di smascherare tutte le falsità che ogni guerra comporta (ricordate i finti arsenali di Saddam?) e difendere a ogni costo la nostra libertà di critica, sempre, soprattutto  quando, in nome della sicurezza, lo Stato, attraverso la polizia, aumenta il suo potere repressivo, come accade dopo ogni evento terroristico.

Quanto accaduto a Parigi è un episodio e come tale va valutato, un episodio che poteva essere previsto, e che si somma ad altri episodi avvenuti in varie parti del mondo sempre a opera di integralisti islamici contro islamici non integralisti.  Non è una guerra. Non facciamoci vincere dall’isteria. Anche gli islamici sono vittime dei fondamentalisti, aiutiamoli, stiamogli vicino, non alimentiamo noi stessi il loro odio nei nostri confronti. Il bambino che sta per lanciare la bomba contro gli americani a Falluja, ritratto nel film American sniper di Clint Eastwood, nella vita reale potrebbe diventare un terrorista pronto a uccidere in nome di Allah.

Se seguiamo la strada della guerra ovunque nel mondo, aiuteremo solo i fabbricatori di armi, l’equilibrio fondato sul terrore e la paura, che porta a più repressione, all’innalzamento di nuove barriere e a minori libertà. Il dissenso è difficile da gestire, per il partito unico del capitale qualsiasi occasione è buona per limitarlo.  Già si parla di ristabilire le frontiere in Europa, Le Pen propone la pena di morte in Francia, Salvini approfitta per criminalizzare tutti gli islamici in Italia. Il partito della paura è il più forte di tutti, nessuno rinuncia ad arruolarvisi. Chi rimane fuori rimane solo. Bersaglio facile come Charlie Hebdo.

“Il successo del terrorismo dipende dalle conseguenze che innesca” scrive Simon Jenkins su “The Guardian”.  I terroristi non vogliono altro che questo: che diventiamo come loro. Che vinca la violenza e l’odio, in nome della libertà. Un paradosso atroce.

D’altra parte siamo campioni nel proclamare la libertà e negarla appena c’è qualcuno che la usa contro di noi. Non è un caso che la satira in Italia non esista quasi più. In casa nostra non c’è bisogno di fondamentalisti, la libertà ce la togliamo da soli.

direttore editoriale di Chiarelettere e membro del cda del Fatto quotidiano

Quelli che sì, ma…

img1024-700_dettaglio2_Copertina-del-Charlie-Hebdo-dopo-lattentato-ReutersIn questi anni ci siamo sentiti un po’ soli nel tentativo di respingere a colpi di matita gli insulti e le sottigliezze pseudo-intellettuali scagliate contro di noi e contro i nostri amici che difendevano la laicità: islamofobi, cristianofobi, provocatori, irresponsabili, attizzatori di fiamme, ve-la-siete-cercata… Sì, condanniamo il terrorismo, ma. Sì, minacciare i vignettisti di morte non va bene, ma. Sì, dare fuoco a un giornale è brutto, ma. Ne abbiamo sentite di tutti i colori. Spesso abbiamo cercato di riderci su, visto che è la cosa che ci riesce meglio. Adesso però ci piacerebbe molto ridere di altro. Perché stanno già ricominciando.

(Gerard Biard, Charlie Hebdo)

 

L’intelligenza sta (forse) nel dubbio: “Nous sommes Charlie ma noi siamo anche i genitori dei tre assassini”.

Mai come in questi ultimi giorni ho imparato quanto siano pericolose le persone senza dubbi: fedeli a se stessi riescono a vivere i propri luoghi comuni come un dogma incrollabile. La categorizzazione di questi giorni, ad esempio, propone dei tipi umani costruiti banalmente sull’educazione religiosa come se non esistessero le mille sfumature di una socialità umana che si perde in mille rivoli. Per questo credo che valga la pena leggere la lettera tradotta da Claudia Vago che pone (per chi ama coltivare dubbi e farsi domande non accomodanti) quesiti interessanti:

Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso. Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere. Questo discorso ci rassicura, a causa della sua ipotetica coerenza razionale, e il nostro status sociale lo legittima. Quelli di Charlie Hebdo ci facevano ridere; condividevamo i loro valori. In questo, l’attentato ci colpisce. Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti. Noi siamo Charlie per questo.

Ma facciamo lo sforzo di un cambio di punto di vista, e proviamo a guardarci come ci guardano i nostri studenti. Siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, siamo al di là di quelle contingenze materiali che fanno sì che noi non sbaviamo sugli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri studenti: se non li possediamo è forse anche perché potremmo avere i mezzi per possederli. Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte. Consideriamo un dato acquisito che La libertà che guida il popolo e Candido fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ci direte che l’universale è di diritto e non di fatto e che molti abitanti del pianeta non conoscono Voltaire? Che banda di ignoranti… E’ tempo che entrino nella Storia: il discorso di Dakar ha già spiegato loro. Per quanto riguarda coloro che vengono da altrove e vivono tra noi, che tacciano e obbediscano.

Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia. Questi due assassini sono come i nostri studenti. Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili. Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici che ammirano il nostro impegno quotidiano. Ma che nessuno qui venga a dirci che con tutto quello che facciamo siamo sdoganati da questa responsabilità. Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani, noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse, noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo, noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo, noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc. : noi siamo responsabili di questa situazione.

Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna.

Allora, noi diciamo la nostra vergogna. Vergogna e collera: ecco una situazione psicologica ben più scomoda che il dolore e la rabbia. Se proviamo dolore e rabbia possiamo accusare gli altri. Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi?

Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità. Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia. Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio.

Intellettuali, pensatori, universitari, artisti, giornalisti: abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri. Quelli che li hanno uccisi sono figli della Francia. Allora, apriamo gli occhi sulla situazione, per capire come siamo arrivati qua, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera, più uguale, più fraterna.

« Nous sommes Charlie », possiamo appuntarci sul risvolto della giacca. Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto. Noi siamo anche i genitori dei tre assassini.

Catherine Robert, Isabelle Richer, Valérie Louys et Damien Boussard

A proposito: e i mafiosi in nome di Dio?

Non so se i “cattolici moderati” abbiano mai chiesto scusa per i mafiosi di ogni specie che (come ci dicono tutti i verbali di perquisizione) vengono “combinati” o “punciuti” per entrare nell’organizzazione criminale (cosa nostra, ‘ndrangheta et similia) con un “santino” in mano e in nome di Dio.

'Ndrangheta: blitz Ps-Fbi, 'famiglia' anche nel Beneventano

#JeSuisCharlie con il culo degli altri

Ultimamente non mi capita spesso ma trovo perfetto questo articolo di Marco Travaglio:

Eppure non è poi così difficile capirlo che difendere la libertà di espressione non significa condividere tutto quello che pensano, dicono, scrivono e disegnano quelli che se ne avvalgono. Non è poi così difficile capire che difendere la satira senza limiti non vuol dire che chi la fa non possa avere limiti (tutti ne abbiamo, e sono unici al mondo: dipendono dallo stile, dalla cultura, dall’educazione, dalla sensibilità, dall’eventuale fede di ciascun individuo). Vuol dire che quei limiti non possono e non devono essere fissati per legge, con tanto di sanzione a chi li viola: fermo restando il Codice penale per punire chi commette violenze, o istiga a commetterle, ma non chi esprime un pensiero, foss’anche il più bieco e ributtante.

Giovedì a Servizio Pubblico e venerdì sul Fatto ho ricordato come i nostri politici e i loro servi hanno risolto in Italia il secolare dibattito sulla satira: abolendola dalla Rai. Ieri un poveretto con le mèches che scrive su Liberomi ha accusato di aver fatto «senza vergogna» un «odioso paragone tra l’editto islamico e quello bulgaro», cioè di aver messo sullo stesso piano «la vostra industrietta macinasoldi e le vostre barzellette sporche» con «la satira vera, quella degli ammazzati di Parigi». Poi ha ripetuto la vecchia barzelletta dei programmi di Luttazzi e di Sabina Guzzanti «morti da soli» perché «non facevano ascolti» (uahahahahahah). Se ogni tanto capisse ciò che legge e ascolta, il tapino scoprirebbe che non ho fatto alcun paragone («quella di Parigi è una tragedia, in Italia siamo sempre alla farsa», ho detto).
Ho semplicemente sbeffeggiato l’ipocrisia di una classe politica e giornalistica, con e senza mèches (questa sì “macinasoldi”, e pubblici), che ha passato la vita a praticare e giustificare le peggiori censure, salvo poi strillare «Je suis Charlie» e difendere la satira senza limiti, ma solo in Francia e dopo che l’hanno ammazzata. Ieri ho citato un articolo di Pigi Battista sul Corriere nel 2006: diceva – capita persino a lui – cose condivisibili e liberali. E cioè che «non sarà superfluo un supplemento di attenzione per scorgere qualcosa di repellente in quelle vignette di cui pure deve essere libera la circolazione». Cioè criticava delle criticabilissime vignette, ma al contempo metteva in guardia chiunque osasse anche soltanto pensare di vietarle per legge o di chiudere i giornali che le pubblicavano.
È la stessa critica che faceva Vauro, sulla reazione violenta che certe vignette sul Profeta potevano innescare, senza citare Charlie Hebdo né invocare censure o chiusure: quindi è ridicolo che oggi Battista additi Vauro al pubblico ludibrio. La satira scortica tutto e tutti, ci mancherebbe che pretendesse l’immunità dalle critiche. Perciò è sciacallesca l’operazione del Giornale, che sbatte Vauro in prima pagina accusandolo di versare «lacrime di coccodrillo» sui giornalisti e i vignettisti assassinati. Come se chi ha criticato una vignetta su Maometto bombarolo fosse un complice dei macellai islamisti. Ciascuno è libero di ritenere sbagliata o anche repellente una vignetta, un articolo, un libro, un programma tv, un film. Ciò che nessuno può fare è proibirli o chiuderli (come s’è fatto ripetutamente in Italia, con buona pace dei servi di regime), in nome di un “limite” che nessuno ha il diritto di fissare.Cantava Lucio Dalla: «È chiaro: il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce, anzi è un pesce, e come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare, com’è profondo il mare. Certo, chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche: il pensiero, come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare…». A me, personalmente, non verrebbe mai in mente di pensare o di scrivere che “il Corano è merda”, come dice una delle vignette incriminate di Charlie Hebdo. Perciò, se ci arrivasse una vignetta così gratuita sul Corano, sul Vangelo, sul Talmud o sul libro sacro o sul simbolo di qualsiasi altra religione, anche noi che ospitiamo più satira di tutti gli altri ci penseremmo un bel po’ prima di pubblicarla.

In nome di un limite che è chiaro e dichiarato: la sensibilità dei lettori, fossero anche soltanto uno o due quelli che potrebbero offendersi. Un quotidiano libero di informazione non è la buca delle lettere né Hyde Park Corner, ma un servizio ai propri lettori. Al contempo, è giusto e liberatorio che esistano giornali come Charlie Hebdo (ne avevamo anche in Italia, pensiamo al Male e a certe fasi di Cuore), interamente consacrati alla satira più libertina, che non hanno né debbono avere limiti. E, se qualcuno tenta di zittirli, chiudendoli o addirittura decimandone la redazione a raffiche di kalashnikov, le pagine di questo giornale libero sono a loro disposizione per ospitarli. A scatola chiusa.Ronald Reagan, ancora in piena guerra fredda, raccontava questa barzelletta: «Un giornalista americano dice a un collega sovietico: “La differenza fra i nostri paesi è che io posso scrivere che Reagan è uno stronzo e non mi succede niente, perché noi siamo una democrazia”. E il sovietico: “Ma pure noi! Infatti anch’io domani posso scrivere che Reagan è uno stronzo”…». È facile per gli integralisti cattolici, protestanti, ebrei solidarizzare con la satira, ora che è stata colpita da tre islamisti sanguinari: bisognerebbe farlo sempre contro ogni censura (non contro ogni critica), anche quando nel mirino c’è la propria religione.

Invece era tutt’altro che scontata la condanna degli stragisti parigini da parte degli ultraradicali di Hamas e di Hezbollah. La satira ha questo di bello: il suo linguaggio immediato e scioccante illumina e spalanca i cervelli. Chissà, forse il sacrificio dei ragazzacci di Charlie non è stato inutile.

(Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2015)