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cinzia mangano

Di padre in figlia: Cinzia Mangano

“Noi non abbiamo bisogno di presentazioni”. Diceva così Cinzia Mangano, figlia del boss Vittorio – lo ‘stalliere’ di Arcore – per fare capire a chi le stava davanti chi era e cosa rappresentava. La donna, arrestata con altre sette persone il 24 settembre del 2013, è stata condannata con rito abbreviato sei anni e quattro mesi di reclusione per associazione a delinquere. Con lei sono state condannate dal giudice per l’udienza preliminare a pene fino a otto anni altre cinque persone. Il giudice ha ritenuto che a loro carico non fosse configurabile l’associazione a delinquere di stampo mafioso, ma solo l’associazione semplice.

L’inchiesta era incentrata su una rete di cooperative di servizi che, secondo l’accusa, riciclavano denaro illecito anche per aiutare i familiari degli arrestati e i latitanti. L’organizzazione, secondo gli inquirenti, era una sorta di succursale della mafia siciliana a Milano, attiva già negli anni ’90 e rimasta operativa fino agli arresti. Secondo la Dda di Milano gli arrestati erano in contatto e avrebbero sostenuto l’ex assessore alla Casa della Giunta lombarda, Domenico Zambetti, il quale era invece stato arrestato nell’ambito dell’inchiesta per voto di scambio e presunti legami con la ‘ndrangheta.

Un’associazione a delinquere semplice, anche se dall’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Milano Stefania Donadeo, su richiesta dei pm Marcello Tatangelo e Alessandra Dolci, emergeva una storia criminale che andava dai mandamenti di Pagliarelli e Porta Nuova, cui apparteneva Vittorio Mangano, fino all’eredità raccolta per conto delle cosche di Cosa Nostra dalla figlia Cinzia, dal marito dell’altra figlia Loredana, Enrico Di Grusa, e da Giuseppe Porto ”tra coloro – come scrive il gip – che portarono la bara di Mangano” nel 2000.

”Noi non dobbiamo dimostrare niente, non abbiamo bisogno di presentazioni”, diceva intercettata la Mangano. E questo perché, come spiegava il gip, bastava ”l’autorevolezza del nome” Mangano per esercitare ”l’intimidazione” mafiosa e non c’era bisogno della ”violenza fisica” perché’ le vittime – tra loro tanti ”imprenditori lombardi” – sapevano ”bene chi sono e cosa rappresentano Pino Porto, Cinzia la figlia di Vittorio” e il genero. A ciò, secondo gli inquirenti, si dovevano aggiungere i rapporti stretti con la ‘ndrangheta dei Morabito, da decenni ormai stanziata a Milano. Tanto che, scriveva il gip, Alberto Chillà, uno degli arrestati, ”non parla delle sue societa’ o di quelle di Pino Porto” ma, intercettato, usa l’espressione la ”nostra roba” coinvolgendo negli affari ”anche Salvatore Morabito”.

Inoltre, ”pur non essendovi tra gli scopi contestati all’associazione” mafiosa anche il voto di scambio, osservava il gip, ”sono emersi rapporti tra Pino Porto e diversi soggetti che, in vista delle elezioni, a lui si rivolgono per ottenere un aiuto nelle imminenti consultazioni elettorali”. Relazioni che, secondo il gip, sono ”una sorta di investimento che porterà l’esponente politico a essere riconoscente per l’aiuto richiesto e ottenuto”. Così erano saltati fuori i contatti tra Porto e Gianni Lastella, ex finanziere, candidato consigliere Pdl per il Comune di Milano nel 2011 (non eletto) e ex consulente per il Ministero per l’attuazione del programma di Governo. Poi il ”sostegno” anche a Domenico Zambetti nelle regionali lombarde del 2010: Zambetti che diventerà assessore alla Casa nella Giunta Formigoni e sarà arrestato in un’altra inchiesta per voto di scambio con la ‘ndrangheta e concorso esterno in associazione mafiosa è stato rinviato a giudizio. Porto in pratica, secondo il gip, nelle ”elezioni ragionali del 2010” avrebbe svolto proprio la ”funzione di collettore” e ”procacciatore” di voti.

(fonte)

La mafia e i cavalli di Mangano. Ancora.

La Direzione distrettuale antimafia di Milano colpisce la mafia in ciò che le sta più a cuore: il denaro. E lo fa con il maxi sequestro di 124 immobili, tre società e 81 conti correnti gestiti, per l’accusa, da due professionisti: i fratelli Rocco e Domenico Cristodaro, 47 e 43 anni, di origine calabrese, che gli investigatori ritengono i ‘contabili’ della famiglia Mangano.

L’operazione, condotta da guardia di Finanza, squadra mobile e carabinieri, è la diretta conseguenza di quella che nel settembre scorso portò all’arresto del genero e della figlia di Vittorio Mangano e all’iscrizione dei due professionisti per associazione a delinquere di stampo mafioso. Così gli investigatori hanno eseguito un sequestro a fini di confisca di appartamenti, denaro, ma anche orti, appezzamenti di terreno, frutteti, maneggi e un’azienda agricola a Crema, la ‘Fazenda Rocco’. Qui, i finanzieri, oltre a scoprire ampi uffici arredati in modo lussuoso con stile spagnolo, hanno trovato una sorta di zoo: cammelli, zebre, lama, antilopi, oltre ad animali comuni che erano tenuti nella massima cura. E, in un locale, alcune magnifiche carrozze antiche.

I fratelli Cristodaro sono titolari di due studi di consulenza contabile a Milano e in provincia di Cremona e sono appunto sospettati di essere i reali proprietari e gestori del patrimonio accumulato nel corso degli anni grazie all’attività del clan dei Mangano.

Il provvedimento di sequestro è stato emesso dalla sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Milano, su richiesta del procuratore aggiunto Ilda Boccassini, a capo della Dda, e dal pm Alessandra Dolci ed ha portato al sequestro di beni a Milano e in provincia di Biella per un ammontare di oltre cinque milioni di euro.

I due fratelli Cristodaro erano già finiti nel mirino di indagini condotte da varie forze di polizia, tra le quali i finanzieri della tenenza della guardia di Crema. I militari cremaschi aveva individuato un reticolo di società riconducibili ai due professionisti che erano state usate per una frode fiscale da 128 milioni di euro di base imponibile evasa e fatture false per oltre 94 milioni. Operazioni che, secondo gli investigatori, servivano per riciclare il denaro che proveniva dalle attività illegali e che poi era nuovamente messo a disposizione delle organizzazioni criminali.

Del resto, sottolineava il gip nell’ordinanza che portò in carcere Cinzia Mangano, la figlia del boss defunto, in Lombardia siamo di fronte a una “mafia imprenditoriale”. “L’associazione contestata corrisponde alla mafia imprenditoriale – scriveva il magistrato – cioè  a un’associazione che si avvale della forza dalla storia e dalla fama della realtà criminale a cui appartiene… non per realizzare in via esclusiva evidenti azioni illegali, bensì per entrare nel tessuto economico della zona d’appartenenza e trarne un beneficio economico”.

(link)

Domani torno a Cosa Nostra

Domani sera sarò all’Arci di Lodivecchio, alle ore 21, in via Giosuè Carducci. Nel lodigiano, insomma: a casa mia. Mi ero ripromesso di non fare più nulla per due motivi: perché nel lodigiano troppe cose devono ancora essere spiegate (e indagate) su ciò che mi è successo e come è stato gestito e perché nonostante la mia ostinazione non amo vivere un territorio che mi ha ferito e con cui fatico a fare pace.

Domani però torno con alcune novità: torno con un’indagine aperta sulle convergenti versioni di due diversi collaboratori di giustizia (avete letto bene: almeno due) su di me e la mia eliminazione. E questa certo non è una grande notizia ma è l’inizio di molte cose, sicuro. E poi torno con arresti eccellenti e molto lodigiani: i nomi che escono dall’ordinanza (ovviamente sono ipotesi, eh, non do la soddisfazione di farmi anche querelare oltre che minacciare) sono molto più lodigiani di quello che “timidamente” è stato scritto. Sono a Lodivecchio, a Tavazzano e sono anche i proprietari a Lodi di un’edicola proprio in Piazza e ex proprietari di una nota pasticceria di Corso Roma nonché di un panificio pasticceria (vi ricordate quando dicevo che l’omicidio del carabiniere Sali era avvenuto in un quartiere “ricco” di criminalità organizzata e tutti si erano straniti? Beh, è proprio lì a 100 passi, per dire). Insomma è vero che il giudizio di un GIP è solo l’inizio di un iter giudiziario che deve decidere colpevoli o no ma l’inopportunità di certi atteggiamenti è un fatto che può anche essere giudicato moralmente e i fratelli Catanzaro (che compaiono nell’ordinanza) hanno un modus operandi che dovrebbe aprire domande. Subito. Urgentemente. E senza paura.

Si legge nell’ordinanza (a pagina 521) e in un bell’articolo di Cesare Giuzzi sul Corriere della Sera che:

Vale la pena di prernettere un breve excursus cronologico in ordine alia presenza sui territorio lodigiano dei fratelli CATANZARO
I fratelli CATANZARO Stefano ed Ignazio giungono al Nord provenienti da Palermo tra !a fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 in stato “dichiarato” di poverta, tanto da usufruire dei sussidi comunali.

lnizialmente avviano un panificio, poi un bar nella centrale via Roma di Lodi ed infine, dopo aver ceduto tutte le attivita commerciali, si dedicano in via esclusiva aile costruzioni edili, per poi tornare ad occuparsi di attivita commerciali, mantenendo attivi entrambi i settori.
Nel1985, Catanzaro Stefano, in concorso con altre persone di origine palermitana viene arrestato per rapina nei confronti di un gioielliere di Lodi. Qualche anno prima era stato denunciato per un furto in un cantiere.

Evidentemente, dopo tali condotte penalmente rilevanti, sfociate in denunce per reati contro il patrimonio. Stefano CATANZARO inizia Ia ascesa economica operando ininterrottamente per un lungo periodo nel settore della edilizia ,fino ad assumere una posizione di spicco nella zona di Lodi e di Massalengo, luogo nel quale le irnprese edilizie individuali di Stefano ed lgnazio CATANZARO hanno costruito diverse unita abitative , co!tivando i rapporti con le banche del luogo.

Ad oggi sono tutti in attesa di giudizio, certo. Ma i dettagli intanto pongono dubbi, domande. Non spetta a noi dare risposte, ma ci spetta coltivare e custodire le domande. Almeno questo.

L’evento su facebook è qui.