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classe dirigente

Una normalizzazione mafiosa e anche sociale (editoriale per “I Siciliani giovani”)

La discussione in corso sul ruolo della magistratura e sugli argini permessi ai magistrati nell’esprimere giudizi politici è la ciclica riproposizione di uno scontro che sembra essere diventato inevitabile in Italia. Un campo di battaglia tra favorevoli e contrari, una tribuna (spesso televisiva) di tifosi delle diverse fazioni che si esibiscono nella continua delegittimazione l’uno dell’altro e ha portato alla banalizzazione di fondo da cui sembra così difficile uscire: ci si dice che in questo Paese esistano poteri buoni e poteri cattivi, dimenticandosi le persone che li interpretano. E il risultato è fatto: giustizialismo contro il partito antiprocure, antipolitica contro politicismi e, quando il gioco sembra farsi duro, complottisti contro innocentisti. E sotto spariscono i fatti, le persone, i riscontri e alla fine la verità.

Ricordo molto bene una mia discussione qualche anno fa quando mi capitò di essere “accusato” da alcuni colleghi teatranti di scrivere spettacoli con giornalisti di giudiziaria e giudici, “è compito degli intellettuali la cultura, mica dei giudici” mi dissero. Erano colleghi che stimo, gente che scrive spettacolo preferendolo all’avanspettacolo, che ha un senso alto dell’arte e della cultura, per dire, ma quello che mi aveva colpito era l’eccesso di difesa legittimato dalla presunzione di un’invasione di campo che non poteva e non doveva essere tollerata. Confesso anche che il concetto di intellettuale oggi, nel 2012 in un’Italia culturalmente berlusconizzata alle radici, è un tipo che mi sfugge perché si arrotola troppo sugli scaffali o nei salotti televisivi di una certa sinistra piuttosto che tra le idee della gente. Un nuovo intellettuale imborghesito e bolso che mostra il suo spessore nel “l’avevo detto” piuttosto che anticipare i tempi come quei belli intellettuali che si studiavano a scuola. C’è la mafia a Milano, l’avevo detto, c’è la massoneria tra le righe del Governo, ve l’avevo detto, c’è l’Europa antisolidale, ve l’avevo detto e via così come una litania di puffi quattrocchi che svettano come giganti per il nanismo degli avversari.

C’è un momento storico negli ultimi decenni che ha svelato l’arcano: 1992-93, le bombe, Falcone e Borsellino, la mafia, Palermo che si ribella, la Sicilia che rialza la testa e per un momento si sente abbracciata da una solidarietà nazionale come non sarebbe più successo. La gente che decide di non potere stare a guardare e la magistratura che cerca la vendetta con la verità: due mondi così distanti, con regole e modi così diversi, spinti dallo stesso sdegno e uniti nella stessa ricerca. Ma non comunicanti. Il popolo con la fame dei popoli, quella tutto e subito, per riempire la pancia di quel dolore e avere almeno una spiegazione e la magistratura ingabbiata tra i veti, la politica, i depistaggi e i falsi pentiti e le leggi che non lasciano spazio all’urgenza democratica. Forse gli intellettuali ci sono mancati proprio lì. Chi poteva avere il polso di quegli anni così caldi e aveva gli occhi per metterci in guardia dai demoni che si infilano nei grandi cambiamenti storici: sono rimasti isolati, inascoltati o morti ammazzati. E tutto intorno un allineamento rassicurante, come chiedeva il popolo sotto le mura; come se la “normalizzazione” non sia stata solo mafiosa ma anche e soprattutto sociale. La rassicurazione normalizzante è stata l’ultima chiave di lettura collettiva. Poi la frantumazione, prima composta come quando si saluta per tornare a casa fino al cagnesco muso contro muso degli ultimi vent’anni.

Per questo mi incuriosisce ascoltare il dibattito sui modi e le parole della magistratura che non tiene conto del percorso che ci ha portato fino a qui, della polvere che si è appoggiata su verità che cominciano a mancare come un lutto piuttosto che un viaggio. Tutto condito con un’etica slegata dalla storia, dagli interpreti della classe dirigente che abbiamo dovuto digerire e dai protagonisti che ci siamo trascinati legati al piede da quegli anni. Non esiste un modus operandi decontestualizzato dal mondo, non sarebbe concepibile nemmeno per un filosofo utopista con fiducia illimitata negli uomini. C’è un tempo per alzare la voce, dopo anni di latitanza degli intellettuali asserviti troppo spesso al padrone di turno, un buco da colmare per tenere in piedi i pilastri della democrazia. Come dice bene Gian Carlo Caselli ci sono stagioni che impongono la parola. E ci vuole la schiena diritta per portarla in tasca, la parola.

(pubblicato per I SICILIANI GIOVANI, il numero è scaricabile dal sito)

E se?

E se non fosse più il tempo delle blandizie centriste? Se non fosse più il momento dell’equilibrismo autoreferenziale, dei salotti, dei caminetti? Se non avessero più senso né la sicumera catastrofista di certi economisti dell’alta finanza né l’egocentrismo mediatico di lillipuziani segretari di partito? Se non fosse più il tempo della favola liberista (e liberticida)?

Se il mantra della crescita fosse solo un abbaglio? Se non servisse più accettare supinamente patti di stabilità, strette del credito, svendite, privatizzazioni? Se non fosse più eticamente accettabile dimenticare non solo i nomi dei morti ammazzati, ma anche quelli dei responsabili; i nomi e i cognomi di chi con ostinazione ancora infligge a questo Paese la pena più grave, quella dell’incoscienza? Se non volessimo chiedere consigli a oracoli ottuagenari, figli (se non padri) di una classe dirigente grigia e vergognosamente colpevole?

Se fosse giunto il momento della resa dei conti? Se fosse l’ora di parlar chiaro e parlarci, magari dando le spalle all’ombroso miraggio di confusi papocchi? Se provassimo a unire anziché dividere; a difendere un’idea invece di tramortirla e vivisezionarla per poi seppellirne le spoglie in qualche cimitero del diritto castale?

Per favore leggete qui Claudio oggi su Non Mi Fermo. Perché non è così difficile.

Il piglio dei saputelli. E vorrebbero essere classe dirigente.

Non se ne esce. Ogni tanto si ha la sensazione di stare in un imbuto dove il restringimento è il sentiero stretto di chi non è più abituato a discutere e mettersi in discussione. Il problema non è del PD, il problema è culturale in uno scollegamento che sembra una lacerazione definitiva. La politica che non si mette in discussione è la politica che agisce senza discutere. Delle scelte da adottare a testa bassa e pancia a terra. Quella che non porta buoni risultati nemmeno allo stand delle salamelle. Ma la forma mentis che impera è quella del piglio da saputelli di una classe dirigente che pretende di avere il diritto di non esprimere una direzione. Una freccia spuntata che non vuole ingorghi. E nemmeno immaginazione. Lo scrive bene oggi Irene Tagli su La Stampa:

Non importa se poi Berlusconi cambierà di nuovo idea o se il Pd farà davvero le primarie aperte dentro al partito: quello che colpisce di queste dichiarazioni è il tono e il messaggio che lanciano. E’ il modo con cui questa classe dirigente, che ci accompagna da decenni e che ci ha portato sull’orlo del disastro economico e sociale, si ripresenta di fronte ai cittadini col piglio di chi è il padrone assoluto della vita politica del Paese, e che quindi si riserva il diritto di decidere se, quando e come un rinnovamento sarà concesso.

Una spocchia che denuncia non solo una visione della politica ma anche del rapporto intergenerazionale e dei processi di rinnovamento completamente distorta. Una mentalità perfettamente sintetizzata dal segretario del Pd Pierluigi Bersani quando qualche mese fa, replicando a distanza al sindaco di Firenze Matteo Renzi, dichiarò che il partito era apertissimo ai giovani, purché si mettessero «a servizio». Un’immagine terribile, che evoca i giovani come materiale ad uso e consumo dei dirigenti e delle logiche di partito. Berlusconi, che ama definirsi uomo di fatti più che di parole, non ha fatto dichiarazioni del genere ma ha semplicemente agito seguendo questa stessa logica quando ha indicato Alfano come suo successore, per poi buttarlo in un angolo pochi mesi dopo e riproporsi egli stesso in prima linea. E non danno esempi migliori le alte dirigenze di partiti più piccoli come la Lega Nord o l’IdV.

Al di là delle ripercussioni che questa situazione politica ha sulla nostra immagine e credibilità internazionale, non va sottovalutato l’effetto che esso ha al nostro interno. Atteggiamenti e dichiarazioni di questo genere, infatti, non solo mortificano i cittadini e la loro voglia di cambiamento, ma anche tutte le migliaia di persone giovani e meno giovani che da anni si battono con passione all’interno dei partiti per un loro rinnovamento, per un ricambio di idee e di persone vero e profondo.

Fino a un paio di anni fa si diceva che la colpa era delle giovani leve, che non erano abbastanza critiche, indipendenti, che non avevano il coraggio di sfidare i propri leader, di discutere, di proporre, di lanciare messaggi chiari. Ma negli ultimi anni di giovani indipendenti e determinati abbiamo cominciato a vederne, in entrambi gli schieramenti. Le elezioni amministrative, per esempio, sono state occasioni in cui alcune di queste figure «rinnovatrici», più o meno giovani, hanno saputo mettersi in gioco ed affermarsi con successo. Ciascuno di questi successi avrebbe dovuto lanciare un segnale chiarissimo ai vertici nazionali dei partiti. E invece niente.