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colletti bianchi

E anche Beppe Grillo scoprì cos’è il giustizialismo

Caro Beppe Grillo, ti do una notizia: tutti gli accusati, anche quelli dei crimini peggiori, anche quelli che subiscono processi che durano anni e che poi finiscono in niente, perfino quelli che vengono arrestati e subiscono detenzioni che poi si dimostrano ingiuste, tutti hanno un padre, molti sono padri, esattamente come accade a te con tuo figlio Ciro.

Caro Beppe Grillo, ti do un’altra notizia: in un Paese che avrebbe di che occuparsi per le malefatte compiute personalmente da politici e governano che (con sentenza definitiva) sono stati ritenuti colpevoli di deprecabili azioni che hanno danneggiato l’amministrazione pubblica e quindi il Paese e i cittadini, già da qualche anno si è presa l’abitudine di rovistare anche nelle colpe dei figli, dei genitori e perfino degli amici per reati che non hanno niente a che vedere con il loro ruolo.

Forse di questo te ne ricordi perché, mentre c’erano tutti gli elementi legittimi per costruire una critica (anche feroce) politica contro certi leader di partito, si è preferito invece rovistare nel casellario giudiziario dei loro congiunti.

E guarda, caro Grillo, te lo scrive uno che è tutt’altro che garantista peloso, di quel garantismo che viene troppo spesso sventolato per proteggere i colletti bianchi: eppure ho sempre creduto che ci siano evidenze giudiziarie talmente importanti su un Berlusconi (per dirne uno qualsiasi) che alla fine ho avuto la sensazione che occuparsi dei suoi presunti reati minori (come le sue abitudini sessuali) fosse un favore che gli abbiamo concesso mentre il suo braccio destro è condannato definitivo per mafia.

Io non so se tuo figlio, caro Beppe Grillo, sia innocente o colpevole. Mi auguro che sia innocente e mi auguro che possa risolversi il dolore dei presunti assassini come quello della presunta vittima.

Comprendo anche il tuo dolore da genitore, ma vivo in un Paese in cui credere nella Giustizia è elemento fondante per la tenuta democratica: lo avete ripetuto anche voi per anni, lo scrivono tutti i giorni i giornalisti che ti sono più vicini.

Forse il tema vero su cui varrebbe la pena riflettere è che, prima o poi, nella vita potrebbe capitare di essere sotto accusa o terribilmente fragili e hai ragione quando dici che fa schifo usare tutto questo come clava per fare politica.

Il tuo sfogo è comprensibile, umanissimo ma sei sicuro di non avere contribuito al clima da bastonatori irridenti degli sfoghi degli altri? Non è un’accusa, sia chiaro: è una riflessione politica. Ah, hai ragione, questa speculazione fa schifo.

Leggi anche: Beppe Grillo: “Mio figlio non è uno stupratore. Allora arrestate me”

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Prima ha depredato la Sanità lombarda, ora gli restituiscono anche il vitalizio

Il più grave danno al garantismo, quello che dovrebbe essere assicurato in uno Stato di diritto e che è sancito chiaro chiaro nella nostra Costituzione, è proprio il garantismo quando diventa peloso, quando serve per condonare i potenti e soprattutto quando viene utilizzato non come metodo universale ma solo per alcune categorie.

Il fatto che Roberto Formigoni stia pagando i suoi debiti con la giustizia è la normale conseguenza di un giusto processo che ha stabilito delle responsabilità penali. Il fatto che si pretenda l’oblio per un danno erariale di 47,5 milioni di euro di soldi pubblici per il caso Maugeri in Lombardia e che ci si aspetti che nessuno si permetta più di scrivere che la sua rete di amicizie e il suo “mercimonio della propria funzione” (lo scrive la sentenza di Cassazione) abbiano devastato la Sanità lombarda pare, invece, davvero un po’ troppo.

E allora la vicenda del suo vitalizio da 7mila euro al mese che il “Governo dei migliori” gli sta apparecchiando forse assume una prospettiva nettamente diversa: è etico che una persona condannata per reati gravissimi (che ne hanno comportato anche l’esclusione politica e che sono diventati sentenza definitiva) possa godere degli stessi benefici di chi ha svolto con moralità il proprio ruolo?

È normale e accettabile che esistano ruoli e cariche che beneficino di trattamenti diversi rispetto ai normali lavoratori? Conoscete qualcuno che, dopo essere incappato in una grave condanna che certifichi un suo danneggiamento verso l’azienda per cui lavorava, possa godere comunque di una pensione e un vitalizio?

La delibera Grasso-Boldrini fu approvata nel 2015 in Parlamento non per “punizione” ma per garantire uguaglianza tra i parlamentari e i “normali” lavoratori: qui il punto non è il garantismo ma decidere se abbia un senso che gli italiani continuino a mantenere una persona che li ha danneggiati.

E non c’è solo Formigoni: il ricorso dell’ex presidente di Regione Lombardia sblocca la situazione di Silvio Berlusconi, di Ottaviano Del Turco e perfino di Marcello Dell’Utri.

Infine, sorge un dubbio: ma Salvini e Meloni – quelli che “butterebbero le chiavi” quando si tratta di punire (per loro: vendicarsi) un povero disgraziato che commette un reato (seppur odioso) – non hanno niente da dire con i criminali grossi e potenti quando sono loro amici?

Tintinnano le manette per i ladri di polli e poi si diventa garantisti per i colletti bianchi condannati in via definitiva? Lo chiamano garantismo e invece è solo “essere amici degli amici”.

Leggi anche: Salvini contro i vaccini ai detenuti in Campania e Lazio, ma dimentica che va così anche nelle Regioni leghiste (di Giulio Cavalli)

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L’ex senatrice leghista e quell’idea malsana di una mafia “coraggiosa e sensibile”

Sapete chi da sempre porta avanti la narrazione della mafia “buona” e che “aiuta i più deboli” e che “non fa male ai bambini” e tutta quella serie di cretinate che ogni tanto ci vengono propinate per romanticizzare un fenomeno che non è nient’altro che una montagna di merda? I mafiosi. Sono i mafiosi che si sono inventati la mafia “per bene” e sono i colletti bianchi che spesso nel corso della storia si sono ingegnati per farcela passare come qualcosa che sostituisse lo Stato in mancanza di Stato.

Perché la mafia, tutte le mafie, è per natura la contraddizione di una democrazia: nelle mafie conta l’appartenenza, nelle mafie l’essere soggiogati a qualcuno di più potente è una condizione naturale, nelle mafie si usano i bisogni per trarne profitto e per stringere nuove servita.

Una mafia coraggiosa e sensibile è un’idea talmente malsana che si potrebbe trovare trascritta solo nelle intercettazioni di qualche banda di picciotti che chiacchierano tra loro. Per questo la frase dell’ex parlamentare leghista che dal palco della manifestazione “Io sto con Salvini” è particolarmente grave ma è anche la sindone di un certo modo di intendere le cose. Ha detto Angela Maraventano: “La nostra mafia che ormai non ha più quella sensibilità e quel coraggio che aveva prima. Dove sono? Non esiste più. Perché noi la stiamo completamente eliminando… Perché nessuno ha più il coraggio di difendere il proprio territorio”.

E basterebbe solo soffermarsi sulle parole iniziali: quel “nostra mafia” che dovrebbe indicare una mafia di appartenenza e una mafia contraria, come se ci fossero mafie con cui si è avuto a che fare. E che l’assoggettamento di un intero territorio (che è quello che fanno le mafie) venga considerato un modello di difesa mostra in tutta la sua sconcertante naturalezza come l’autorità per Maraventano sia qualcosa che cuce le bocche, che uccide le persone e che controlla le economie.

Questa, segnatevelo, è la stessa che ha urlato contro il governo “abusivo” e contro “l’invasione del Paese”. Roba da pelle d’oca. Come tutti gli altri leghisti mentre interveniva dal palco Angela Maraventano indossava una maglietta con scritto “processate anche me” e dopo averla ascoltata viene da pensare che se esistesse il reato di favoreggiamento culturale alla mafia di sicuro ci sarebbe da istruire un processo. Chissà che ne pensano i famigliari delle vittime di mafia di una mafia “coraggiosa e sensibile”. Perché il prossimo comizio non lo fanno davanti a loro? E intanto continuiamo così, scivolando verso l’abisso.

Leggi anche: 1. Catania, ex senatrice shock sul palco di Salvini: “La vecchia mafia difendeva il nostro territorio” /2. Salvini e quei follower sospetti su Facebook: uno su 5 ha nome straniero e non risponde ai messaggi

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La mafia dei Riina e dei Provenzano sarebbe stata debellata da un pezzo

Si offre una narrazione delle vicende di mafia che è estremamente semplificata – ha detto a Rainews il Procuratore di Caltanissetta. – Da una parte ci sono Falcone, Borsellino e gli uomini di Stato uccisi per l’affermazione della legalità. Dall’altra parte ci sono i Riina, i Provenzano, ex villici, che vengono rappresentate come icone assolute della mafia. Ma dove li mettiamo i colletti bianchi che sono capi organici della mafia? Parlo di architetti, medici, ingegneri…che sono collusi. Ma ci sono anche uomini dello Stato dei quali è stata accertata con sentenza definitiva la complicità con la mafia. Parlo di presidenti del consiglio, vertici dei servizi segreti, capi della polizia, assessori regionali. Io credo che senza questi colletti bianchi e senza gli uomini di Stato collusi, la mafia dei Riina e dei Provenzano sarebbe stata debellata da un pezzo. Non possiamo distorcere la verità e raccontare ai giovani che la mafia è solo estorsioni e spaccio, bisogna raccontare il fenomeno nella sua complessità – ha aggiunto Scarpinato. – Se noi non li aiutiamo a capire, rischiamo di fargli subire ancora la mafia, che si evolve sempre di più ed è componente del potere”.

Roberto Scarpinato

Io temo i grigi

I toni bianchi e i toni neri sono lampanti, saltano all’occhio e hai tutto il tempo per decidere quale dei due vuoi scegliere come compagni di viaggio. I grigi invece stanno lì, in mezzo  tutto il resto, e sono invitanti spaventando con moderazione. Credo che dovremmo cercare di affezionarci ai grigi nelle nostre narrazioni, nelle testimonianze, nello studio e nella scrittura senza questa atavica paura di offendere i buoni per antonomasia che siano magistrati, giudici o forze dell’ordine. Uscire dal paradigma delle professioni cominciando davvero ad interrogarsi sulle persone, prendendo coscienza di un fenomeno come quello mafioso che attecchisce nonostante tutto e quindi nonostante il mestiere di chi ne è coinvolto.

Per questo vale la pena leggere l’articolo di Luca Rinaldi sull’operazione “araba fenice” che ha portato a 47 arresti:

Per gli inquirenti gli uomini delle cosche e i professionisti sarebbero tutti coinvolti sotto il tetto della stessa holding criminale, attiva in particolare nel settore dell’edilizia privata. Situazione resa ancora più grave e inquietante vista la vicinanza, come risulta dalla indagini, tra gli uomini delle cosche, politici e uomini di Stato, dove fanno capolino le talpe interne alle Forze dell’ordine e, come nel caso di Francesca Marcello, pure gli amministratori giudiziari nominati dal tribunale che hanno il compito di gestire beni confiscati, ma che avrebbero preso decisioni sotto l’influenza dei boss. Per gli inquirenti, Marcello, custode della Euredil confiscata all’imprenditore Liuzzo, avrebbe consentito allo stesso di continuare liberamente nella gestione della stessa Euroedil, ottenendo in cambio favori e vantaggi personali.

Il coraggio di denunciare, finalmente: Stefano Rizzo

Un articolo da incorniciare del solito Davide Milosa per una Lombardia che lancia segnali confortanti: una notizia che è il punto di partenza per immaginare davvero un’altra storia, un’altra normalità e una quotidianità di schiene diritte non spacciate per eroismo. Una buona novella domenicale.

la-mafia-non-esisteNovate Milanese la nebbia rimonta velocemente dai campi. Le 13 del 25 gennaio 2012. In via Francesco Baracca già i contorni delle case scompaiono. La strada scappa via, mentre il giallo dei lampioni rimbalza sulla calotta grigia di acqua e smog. In questo lembo di periferia, Stefano Rizzo ci arriva a bordo della sua auto. Pugliese di Trinitapoli, in riva al Naviglio sale da ragazzino. Vita dura la sua, a faticare e vivere tra le strade di Quarto Oggiaro. Rizzo, però, è un pugliese tosto. Sotto al Duomo, vuole arrivare. Arriverà. Perché in quell’inverno, quando la sua auto si ferma davanti allacarrozzeria Veneta, Rizzo è un imprenditore affermato nel campo dell’edilizia. Ha 48 anni, una moglie e due figli. La sua è una storia esemplare. Che, però, da lì a pochi minuti andrà a sbattere contro il muro della ‘ndrangheta. Sì perché in quel pomeriggio di fine gennaio, l’imprenditore ha un appuntamento con Maurizio Massè, luogotenente di Enrico Flachi, fratello di Giuseppe, boss alla milanese e volto storico delle cosche calabresi che da tempo hanno lanciato un’opa mafiosa alla politica e all’impresa lombarda. In quel periodo, però, il padrino si trova in carcere. Arrestato nella primavera del 2011 assieme a una manciata di presunti boss, picciotti e colletti bianchi. E’ l’indagine Caposaldo. Una storia di mafia, politica e violenza che da tempo va in scena alla settima sezione del tribunale di Milano, rappresentando un quadro inedito per l’ex capitale morale d’Italia:la paura e l’omertà delle vittime nel denunciare i propri estortori mafiosi. Capita così che davanti ai magistrati i commercianti raccontino una verità, dopodiché in aula, con i boss dentro al gabbione, ritrattino, inciampando in esplicite reticenze. Altra pasta per Rizzo che, incassata la minaccia della ‘ndrangheta, non ci pensa due volte, denuncia tutto e fa arrestare sia Massè che il fratello di don Pepè Flachi. Una vicenda a lieto fine. Ma coraggiosa come mai la cronaca ha registrato in questi ultimi anni in terra di Lombardia.

AMBASCIATE MAFIOSE E LA MINACCIA AI FIGLI
Ecco, allora, cosa mette a verbale l’imprenditore. “Massè mi disse che loro, inteso i Flachi, non ragionano, che avevano già fatto i sopralluoghi, sapevano dove abitavo, dove andavano a giocare i miei figli”. Perché una tale minaccia? Per capire bisogna tornare indietro di qualche settimana, quando Rizzo, parlando con un suo operaio infedele, viene a sapere che la ‘ndrangheta è entrata in prima persona nella gestione di un credito che lo stesso imprenditore vanta nei confronti diDomenico Di Lorenzo, proprietario del ristorante 1958 in via Amoretti a Milano. Tempo prima, infatti, Rizzo ha ristrutturato il locale per 300mila euro. Lavori sui quali il titolare ha avuto da ridire. La discussione finisce in tribunale. I giudici danno ragione a Rizzo. Di Lorenzo deve pagare. Lo farà, ma solo in parte. All’appello, infatti, mancano 55mila euro. E’ su questa cifra che interviene il clan. I boss inviano messaggi. E lo fanno attraverso Antonino Benfante, pregiudicato siciliano, assunto dallo stesso Rizzo.

L’ambasciata è chiara: il ristorante 1958 è diventato in parte di proprietà di don Pepè e dunque, l’imprenditore deve rinunciare a quel denaro. “Altrimenti sarebbe stato difficile continuare a lavorare con le sue società sul territorio”. Con il passare dei giorni la situazione si chiarisce ulteriormente. Ancora prima di iniziare i lavori, Di Lorenzo aveva chiesto ai Flachi un prestito da 200mila euro. Un bel tesoretto che però il ristoratore non era stato in grado di onorare. Motivo: il debito contratto con Rizzo. Annota il gip Alessandro Santangelo nelle 24 pagine di ordinanza di arresto: “Di Lorenzo di fatto aveva chiesto un loro (dei Flachi,ndr) intervento finalizzato alla risoluzione dei debiti di Rizzo”.

IL CORAGGIO DELLA DENUNCIA
Per giorni, gli uomini del clan fanno la posta davanti all’impresa di Rizzo. Massè, addirittura, entra e chiede di parlare con il titolare che però non si fa trovare. L’appuntamento, però, è solo rinviato al 25 gennaio davanti alla carrozzeria Veneta di Novate Milanese. Durante quel colloquio e davanti alle esplicite minacce ai suoi bambini, Stefano Rizzo vacilla e fa capire al suo interlocutore di voler rinunciare al denaro. Il travaglio psicologico dell’imprenditore è enorme. Il giorno dopo, su insistenza di Massè, l’incontro con Enrico Flachi. L’appuntamento è fissato ai tavolini dell’Officina della Birra di Bresso, storico luogo di ritrovo della ‘ndrangheta, i cui titolari, però, non sono mai stati coinvolti nelle indagini. Racconta Rizzo: “Dopo circa 15 minuti è arrivato Enrico Flachi a cui ho raccontato la genesi e lo sviluppo del mio credito a Di Lorenzo (…) Mi ha anche detto che apprezzava molto il fatto che io avessi promesso di rinunciare ai 55mila euro (…) e che qualsiasi cosa di cui avessi avuto bisogno avrei potuto rivolgermi a loro”.

“L’ESTORSIONE E’ TUTTA DA PROVARE”
Rizzo, però, ci ripensa. In fondo, la mentalità di quei personaggi ha imparato a conoscerla vivendo a Quarto Oggiaro. Sa che dopo quei 55mila euro sarebbero arrivate altre richieste. Decide e forse compie un azzardo. In un altro incontro con Massè rivela (mentendo) di essere stato chiamato da magistrati e carabinieri per chiarire i motivi delle visite di Flachi e dei suoi uomini. L’altro ci casca e diventa remissivo. “Dice che il suo intervento e quello dei suoi amici era solo funzionale a ristabilire buoni rapporti tra Rizzo e Di lorenzo”. Dopodiché, però, mostra tutta l’essenza di quella trattativa. Racconta Rizzo: “Subito dopo mi ha detto: tanto devono provarla l’estorsione e mi devono portare davanti chi l’ha detto, io non ho fatto niente”. Tanto basta. Il pm della Dda di Milano Paolo Storari chiede al giudice l’arresto di Massè e Flachi. Per i due le manette scattano il 23 novembre 2012. L’accusa: estorsione aggravata dal metodo mafioso.

UN’OCCASIONE PER LE ISTITUZIONI MILANESI
L’operazione coordinata dal Gico di Milano, però, resta tra le pieghe della cronaca. Il giorno dopo, infatti, i quotidiani e sono impegnat a raccontare il tentativo (riuscito in pieno) della cosca Belloccodi conquistare l’ennesima impresa lombarda: la Blue call di Cinisello Balsamo. Eppure, la storia di Stefano Rizzo vale più di tanti arresti. Prima di tutto perché soddisfa, finalmente, quella sete di denuncia sempre sbandierata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini (“Davanti al mio ufficio non c’è certo la fila di imprenditori che vuole denunciare”). E soprattutto apre uno squarcio nel velo di omertà che recentemente ha costretto il giudice Aurelio Barazzetta a ricorrere alla cosiddettalegge anti-omertà per aggirare le reticenze in aula. Capita, guarda caso, per il processo alla cosca Flachi. Qui, davanti a quattro commercianti che ritrattano, il tribunale ha deciso di utilizzare il quarto comma della legge 500 del codice di procedura penale. La norma prevede di fare entrare nel processo le prime dichiarazioni delle vittime al pubblico ministero. Un escamatoge, per nulla abusato, che permette di aggirare il timore provocato dalla presenza dei boss nel gabbione. La stessa legge è stata invocata dalla Corte di Cassazione che l’agosto scorso ha bocciato (con rinvio) la sentenza d’Appello del processo Cerberus sulle infiltrazioni mafiose della cosca Papalia a Buccinasco. Anche in quel processo (concluso nel maggio 2011), imprenditori e commercianti in aula hanno negato, ritrattato o addirittura stravolto i contenuti dei primi verbali. Anche in quel processo, come per Caposaldo, il giudice era Barazzetta che minacciò le presunte vittime di indagarle per falsa testimonianza. La storia di Stefano Rizzo doveva ancora essere raccontata. Ma oggi, che la denuncia sta scritto nero su bianco, ci si aspetta che le istituzioni milanesi (prime a dover essere imputate di omertà nei confronti della ‘ndrangheta lombarda) escano dal loro torpore per dare lustro e visibilità a questo imprenditore coraggioso.