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colpe

La dignità dell’errore. E delle scuse

Filippo Chiarello aveva 38 anni, due bambini piccoli e un intervento da fare alla colecisti in laparoscopia. Nell’ospedale Santa Sofia di Palermo ci è entrato con l’idea di doverne uscire in pochi giorni, pronto ad affrontare una di quelle operazioni che di questi tempi sono routine. E invece è morto. E fino a qui sembrerebbe l’ennesima storia di malasanità pronta a finire sui giornali (locali, perché la sanità è sempre argomento molto poco pop) e ad aprire una sequela giudiziaria tra cartelle cliniche, scarichi di responsabilità e assicurazioni trincerate in difesa.

Invece qui le porte della sala operatoria si sono aperte davanti alla faccia addolorata di un medico che si è dichiarato colpevole di un errore: «Ho spalancato le porte della sala operatoria, ho allargato le braccia e ho detto che era colpa mia. Mi sono sentito morire dentro, sulle facce dei parenti ho visto la disperazione – racconta il medico che ha fatto l’intervento – e mi assumo la responsabilità ma ci tengo a far sapere che non ero distratto, ero concentrato. La verità è che può capitare e i rischi degli interventi in laparoscopia sono dietro l’angolo».

 

(continua su Left)

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai.

Da leggere Igiaba Scego, fino in fondo:

«Ma qui in occidente ogni musulmano è potenzialmente colpevole, ogni musulmano è considerato una quinta colonna pronta a radicalizzarsi. Il fatto non solo mi offende, ma mi riempie anche di stupore. Sono meravigliata di quanto poco si conosca il mondo islamico in Italia. L’islam è una religione che conta più di un miliardo di fedeli. Abbraccia continenti, paesi, usanze diverse. Ci sono anche approcci alla religione diversi. Ci sono laici, ortodossi, praticanti rigorosi, praticanti tiepidi e ci sono persino atei di cultura islamica. È un mondo variegato che parla molte lingue, che vive molti mondi. Andrebbe coniugato al plurale.

Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.

Not in my name, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.

Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.»

(fonte)

Le colpe dell’antimafia

Un articolo condivisibile in toto e coraggioso dei ragazzi del Gruppo Antimafia Pio La Torre. Perché anche le riverenze antimafiose rischiano di essere un brutto ottundimento:

La vicenda legata alle dichiarazioni del sindaco di Brescello, contenute nell’ottima video-inchiesta realizzata da Cortocircuito, si può riassumere tutta qui: una comunità si mobilita a sostegno del sindaco – accusato di aver negato la presenza mafiosa nel territorio – con uno slogan dal sapore assolutorio, “Contro tutte le Mafie”appunto.

Una situazione che ha del paradossale, se si pensa allo stereotipo con cui vicende analoghe in altre parti d’Italia vengono commentate al “Nord”; in parole povere, sempre i “soliti” solidarizzano con il politico X accusato di essere connivente con un’organizzazione criminale, quelli che dipendono dalle sue sorti per favori e prebende clientelari. Quando accade lo stesso in Emilia-Romagna, invece, è la comunità che si mobilita a fianco dell’amato sindaco, infangato nella sua onorabilità per una piccola gaffe.

Se succedono fatti simili – in cui non si vuole mettere in gioco la malafede dei manifestanti, sia chiaro – non è solo colpa, però, degli stereotipi sulla comunità forte e sana, temprata da anni di convivenza pacifica e solidale, la quale si trova sorpresa e sgomenta davanti agli arresti di esponenti della criminalità organizzata. La colpa è anche e soprattutto dell’antimafia da corteo (fatta di taluni – non tutti per fortuna – politici e da sedicenti organizzazioni antimafia più o meno conosciute in ambito nazionale). Quella che si mobilita giustamente con forme di mutualismo nei confronti dei territori più in difficoltà, ma che poi a casa propria non sa trarre le conseguenze necessarie da comportamenti e dichiarazioni deprecabili. Non è la prima volta, peraltro, che incidenti simili accadono in Emilia Romagna; a Rimini, difatti, l’ormai ex-assessore regionale Melucci era inciampato sull’ennesima buccia di banana della presenza mafiosa in Riviera, in particolare della camorra nel settore alberghiero.

Da un lato questo tipo di antimafia sembra rifiutarsi di studiare il territorio, la storia delle infiltrazioni mafiose e il successivo radicamento in zone ben precise dell’Emilia-Romagna (sembra quasi superfluo ricordare che per la provincia di Reggio Emilia, il termine colonizzazione mafiosa è tutt’altro che esagerato e, anzi, riflette abbastanza fedelmente lo sviluppo di alcune ’ndrine nella zona). Dall’altro quel poco di analisi viene fatta spesso approssimativamente e attraverso ritagli di giornale, con articoli scritti da persone tutt’altro che preparate in materia e in cui il sensazionalismo dei titoli (“C’è la camorra”“La Dia certifica: c’è la mafia” ecc …) è inversamente proporzionale alla assennatezza del contenuto.