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complessita

La trasparenza non esiste

(A proposito di fake news e educazione alla complessità ritorna sul punto Pier Aldo Rovatti)

 

La nostra vista viene sempre più alterata da quella pratica della bugia che oggi passa soprattutto attraverso il web e che ha preso il nome di fake news. Tutti pensiamo di sapere che cosa si intende per “falso” e perciò siamo disposti a combattere contro le falsità che inquinano la comunicazione pubblica, danneggiando la visibilità degli eventi e la credibilità dei singoli protagonisti. Di conseguenza, tutti siamo d’accordo che è urgente battersi perché si diradino le nebbie delle fake news e si riaffermi una condizione di piena trasparenza delle affermazioni che leggiamo e delle immagini che le accompagnano o le sostituiscono.

C’è però un “ma”. Se appare abbastanza semplice difendersi dall’idea di falsità, non sembra altrettanto facile maneggiare quella di verità, fino ad arrivare al paradosso che sappiamo bene che cosa è falso ma non abbiamo un’analoga chiarezza su ciò che possiamo o addirittura dovremmo considerare vero. Ci spingiamo verso la supposta verità, adoperiamo agevolmente l’idea di verosimile, ma poi, quando vogliamo esercitare davvero un pensiero compiuto, dobbiamo arrestarci dubbiosi.

 

Cosa c’è che non funziona? Da sempre la filosofia si è arrovellata sulla questione se la verità sia raggiungibile oppure no, e insieme alla filosofia ovviamente anche le religioni, anzi il pensiero filosofico ha spesso combattuto contro la “trascendenza” dell’idea religiosa di verità una battaglia culturale che si è via via attutita senza però spegnersi mai, come possiamo attualmente osservare. Qui, però, stiamo parlando di verità fattuali, estremamente concrete, che riguardano la vita normale di ogni giorno, sulle quali magari si costruiscono liti furibonde, in cui ciascuno si dichiara certo di quel che afferma o di quello che si ricorda, ed è disposto a “giurarlo” secondo una pratica che riproduce il rituale della testimonianza in un’aula di tribunale dichiarando, appunto sotto giuramento, di dire “tutta la verità”. Esiste davvero qualcosa di simile a “tutta la verità”? Quante sono le verità e di quanti pezzi è composta una verità cosiddetta fattuale?

 

Circola, proprio in questi giorni di preoccupazione contro il dilagare delle fake news, l’ipotesi che sia poco opportuno (e perfino che si tratti di un pensiero che anziché aiutarci aumenta le nostre difficoltà) servirsi di uno schema mentale (e culturale) di tipo binario: due valori contrapposti che si escludono, o il falso o il vero. Se restiamo incastrati in questa alternativa rigida, come il senso comune ha sempre fatto e continua universalmente a fare, ingabbiamo il problema appunto in una rigidità senza uscita, dove ogni posizione rimane immobile e conseguentemente la verità rischia ogni volta di diventare un obbligo autoritario.

 

Nella fattispecie attuale questa polarizzazione – ci si domanda – aiuterebbe a sconfiggere le notizie false? Con buone ragioni, si sospetta che presumere l’esistenza di ciò che viene oggi tecnicamente chiamato l’“algoritmo della verità” sia un incentivo alla diffusione stessa delle fake. Bisognerebbe dunque aprirsi un’altra strada, costruire qualche schema più dialettico senza il terrore che, se mettessimo in dubbio l’idea tradizionale e rigida di verità, sarebbe un disastro, quasi spalancassimo il portone della stalla e tutti i buoi scappassero fuori.

 

(continua qui)

Educarsi alla complessità, ad esempio

(rimetto qui il mio buongiorno per Left di qualche giorno fa perché il dibattito che ne è seguito è vivace e importante, quindi vale la pena riprenderne le fila)

Non è questione di post-verità, ministeri della verità o giudici popolari per il giornalismo: siamo un Paese disabituato alla complessità. Ed è un analfabetismo coltivato scientemente e chirurgicamente da chi, nel corso di tutti questi ultimi anni, ha lavorato duramente per banalizzare tutto ciò che si poteva banalizzare.

Una semplificazione ossessiva che consente a chi tiene le redini del gioco di ritrovarsi raramente a dovere dare delle spiegazioni: in epoca di turbobanalizzazione o si è a favore o si è contro perché il dibattito è solo un’inutile perdita di tempo e i tifosi bramano il goal o il prossimo fallo da dietro per falciare l’avversario.

Eppure la solidarietà, l’accoglienza del nuovo e del diverso, l’ascolto dei bisogni periferici e la gestione delle paure (anche quelle più insensate, che comunque hanno dignità quando non sono strumentali) richiedono l’abitudine alla complessità, la voglia (e l’alfabetizzazione) di scorgere le sfumature e l’amore per lo studio.

Ma ci vogliono tempo e coraggio: bisogna preferire la costruzione di un’etica collettiva alla più facile mitizzazione dell’io o alla fideistica passione per il leader. C’è da innamorarsi dei dubbi e da allenarsi all’essere terribilmente fallibili. Un popolo incapace di leggere le complessità sarà sempre arido, inumano, sloganizzato e continuerà a sentirsi comodo solo dentro il perimetro stretto di un commento sui social o un luogocomunismo da aperitivo.

Piuttosto che cercare un leader a sinistra, ad esempio, si potrebbe smettere di ambire a diventare banalizzatori “etici” e capovolgere il paradigma. Certo, ci vogliono tempo e coraggio. Tempo e coraggio.