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A chi esulta per Dell’Utri do una notizia: non è stato assolto dalle condanne precedenti

Cari amici degli amici e cari commentatori e giornalisti che siete tutti barzotti per l’assoluzione del senatore Marcello Dell’Utri dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato (insieme a Mori, Subranni e De Donno) e che ora siete già passati dalla parte della santificazione, vi do una notizia che forse vi sconvolgerà: Marcello Dell’Utri non è stato assolto dalle condanne precedenti.

Siete stupiti, eh? Marcello Dell’Utri è quello che il 7 luglio del 1974 portò nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi (un altro vostro santino nella collezione di figurine di loschi da ripulire a tutti i costi per servilismo) il pregiudicato Vittorio Mangano che venne assunto (lo dice una sentenza, solo che questa ve la state dimenticando, sbadati) come “responsabile” per evitare che i familiari dell’imprenditore fossero vittima di sequestro di persona. Mangano, giovane mafioso che diventerà boss del clan di Porta Nuova a Palermo, era il certificato di garanzia per non dispiacere alla mafia e Dell’Utri fu l’anello di congiunzione. E nonostante Dell’Utri abbia passato anni a raccontarci la frottola che Mangano fosse uno stalliere il Tribunale di Palermo ha sentenziato che sia Berlusconi sia Dell’Utri fossero a conoscenza dello spessore criminale di Mangano e anzi, dice la sentenza, l’avrebbero scelto proprio per questa sua qualità.

Cari santificatori: il Marcello Dell’Utri che oggi state leccando in tutti i vostri editoriale è lo stesso uomo che al ristorante “Le Colline Pistoiesi” di Milano festeggiava tutto allegro con altri mafiosi alla festa del boss catanese Antonino Calderone, è lo stesso politico che dichiarò «Io sono politico per legittima difesa. A me della politica non frega niente. Mi difendo con la politica, sono costretto. Mi candidai nel 1996 per proteggermi. Infatti subito dopo mi arrivò il mandato di arresto […] Mi difendo anche fuori [dal Parlamento], ma non sono mica cretino. Quelli mi arrestano», è la stessa persona che venne dichiarata latitante l’11 aprile 2014 dalla Corte d’appello di Palermo per essere arrestato in un albergo a Beirut, in Libano, con due passaporti (di cui uno diplomatico scaduto) e una valigia piena di denaro contante per 30mila euro.

Cari esaltatori: la sentenza definitiva conferma l’incontro del 1974 tra Berlusconi, Dell’Utri e i capimafia Francesco Di Carlo, Stefano Bontate e Mimmo Teresi, raccontato tra l’altro dallo stesso Di Carlo, collaboratore di giustizia. In uno degli uffici del futuro presidente del consiglio, in foro Bonaparte a Milano, fu presa la “contestuale decisione di far seguire l’arrivo di Vittorio Mangano presso l’abitazione di Berlusconi in esecuzione dell’accordo” sulla protezione ad Arcore. La sentenza scrive nero su bianco del “tema dell’assunzione -per il tramite di Dell’Utri- di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa nostra” e del “tema della non gratuità dell’accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l’esecuzione di quell’accordo, essendosi posto anche come garante del risultato”.

Cari commentatori, state esaltando un uomo che definì “eroe” Vittorio Mangano perché si era rifiutato di parlare davanti agli inquirenti. Volendo allargare il campo, siete pieni di fremiti democratici e garantisti per uno che disse: «Mussolini ha perso la guerra perché era troppo buono»· Si apra pure il dibattito sul processo sulla Trattativa ma per favore non insozzate la Storia con una mistificazione della realtà. Altrimenti viene il dubbio davvero che tutta questa gioia sia un favoreggiamento giornalistico alla mafia sotto le mentite spoglie del garantismo. Per favore, un po’ di serietà, dai, su.

L’articolo proviene da TPI.it qui

Lamorgese peggio di Salvini, il Pd scelga: Travaglio o accoglienza?

Tenetevi forte perché manca poco al ritorno dello spettro dei migranti clandestini, degli sbarchi sconsiderati e di tutta quell’orrenda narrazione contro le Ong nel Mediterraneo lasciato sguarnito in modo criminale dall’Europa. E preparatevi perché se è vero che conosciamo già perfettamente alcuni personaggi in commedia, a partire da quel Salvini che già da qualche giorno è tornato sull’argomento per provare a frenare lo scontento tra quei suoi elettori affamati di cattivismo e ancora di più incattiviti dalla pandemia, e a ruota ovviamente Giorgia Meloni per occupare quello spazio politico, soprattutto tornerà alle origini quel Movimento 5 Stelle che si è ammantato di solidarietà per incastrarsi nel secondo governo Conte ma che ora è pronto al ritorno delle sue radici peggiori.

La tromba della carica l’ha suonata ovviamente Marco Travaglio in uno dei suoi editoriali che sostituiscono da soli le assemblee di partito e che ha usato tutto l’armamentario del razzismo con il colletto bianco per puntare il dito contro le Ong, per irridere le “anime belle” (che per Travaglio sono la categoria di tutti quelli che non la pensano come lui ma che non possono essere manganellati con qualche indagine trovata in giro) e mischiando come al solito le accuse con le sentenze, gli indagati con i colpevoli, le ipotesi dei magistrati come “fatti” e gli stantii pregiudizi come acute analisi. Così la chiusura delle indagini della procura di Trapani per un presunto reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel caso Iuventa basta al suggeritore dei grillini per richiamare tutti alle armi: picchiamo sui migranti, bastoniamo le Ong e chissà che non si riesca spremere qualche voto anche da qui.

E fa niente che sia dimostrato dai dati (e da anni) che “gli angeli delle Ong” (come li chiama Travaglio per mungere un po’ dalla vecchia accusa di “buonismo”) non “attirano e incoraggiano il traffico di esseri umani”: Travaglio trova terribilmente sospetto che delle organizzazioni dedite al soccorso in uno spicchio di mare conoscano perfettamente quel mare e i luoghi dei naufragi. La competenza del resto da quelle parti è vista con diffidente apprensione. Ma agli osservatori più attenti, quelli che semplicemente non si sono fatti infinocchiare dallo storytelling del Conte bis, forse non sarà sfuggito che Di Maio sia proprio quel Di Maio che discettava allegramente delle Ong come “taxi del mare” quando c’era da accarezzare l’alleato Salvini e Giuseppe Conte sia proprio quel Giuseppe Conte, nessuna omonimia, che partecipava allegramente alla televendita dei Decreti Sicurezza che andarono alla grande durante la stagione della Paura.

Ovviamente nessuna parola sull’omesso soccorso in violazione del Diritto internazionale del Mare che è un crimine di cui il governo italiano e l’Europa si macchiano almeno dal lontano 2014 quando il governo Renzi decise di stoppare l’operazione Mare Nostrum della nostra Marina militare e niente di niente su quella Libia (e qui invece ci sono tutte le prove e tutte le condanne per farci una decina di numeri di giornale) che è un enorme campo di concentramento a forma di Stato, così amico del governo italiano. Ma la domanda vera è chissà cosa ne pensa il Pd, questo Pd che ci promette tutti i giorni che domattina si risveglierà più umano e attento ai diritti e che è sempre pronto (giustamente) per opporsi sul tema a Salvini ma che è stato così terribilmente distratto con i tanti Salvini travestiti che ci sono qui intorno.

Il Pd che ci ha indicato come “punto di riferimento riformista” il presidente del Consiglio che fece di Salvini il più splendente Salvini, il Pd che ancora fatica a riconoscere le responsabilità del “suo” ministro Minniti, il Pd che con il precedente governo prometteva “un cambio di passo” sui diritti dei migranti fermandosi solo alla sua declamazione, mentre la ministra dell’Interno del Conte bis, lo racconta il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, bloccava contemporaneamente ben sette barche delle Ong tra il 9 ottobre e il 21 dicembre 2020 riuscendo a fare meglio perfino di Salvini, rispettando in tutto e per tutto la linea d’azione del leader leghista stando con la semplice differenza di non rivendicarla sui social insieme a pranzi e gattini.

Se il nuovo Pd di Letta vuole recuperare credibilità forse è il caso che ci dica parole chiare su questa irrefrenabile inclinazione dei suoi irrinunciabili alleati perché alla fine Salvini rischia di risultare onestamente feroce in mezzo a tutti questi feroci malamente travestiti.

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Renzi d’Arabia

Nel mezzo della crisi di governo, il leader di Italia viva è volato a Riad per una conferenza del Fii institute controllato dalla famiglia reale. Pagato da un regime che viola i diritti umani

Dunque il curioso giornalista del quotidiano Domani, Emiliano Fittipaldi, ha scoperto che il prode Matteo Renzi, colui che ha provocato questa crisi di governo in piena pandemia, ha dovuto fare in fretta le valigie per tornare in Italia mentre se ne stava pasciuto in Arabia Saudita, a Riad, per il Fii events, organizzato dall’omonimo istituto voluto dalla famiglia reale, guidata dal re Salman e dal principe ereditario Mohammed bin Salman (detto MbS), leader incontrastato del Paese.

Renzi non era un semplice ospite e nemmeno un banale conferenziere come gli altri 150: il leader di Italia viva (che frequenta i sauditi dal 2017) siede nell’advisory board dell’Fii institute che si occupa di intelligenza artificiale, robotica e cybersicurezza per dare consigli «su come usare la cultura nelle città, che è un possibile driver del cambiamento del Paese mediorentale».

All’uscita della notizia gli scherani di Matteo sono subito accorsi per spiegarci come non ci sia nulla di male se un leader di un partito nazionale, senatore pagato con i soldi degli italiani, nel giorno della crisi che lui stesso ha scatenato (anche se ostinatamente insiste a negarlo come un Fontana qualsiasi), colui che ha accusato Conte di essere “un pericolo per la democrazia” sia pagato (si dice circa 80mila euro all’anno) da un regime che applica la Sharia nella sua forma più rigida, ossia dai governanti di un luogo dove le donne vengono discriminate più che in ogni altro posto al mondo, quella stessa Arabia Saudita che da anni sta devastando lo Yemen uccidendo civili (bambini inclusi) e bombardando ospedali, quella stessa Arabia Saudita che arresta e condanna giornalisti e attivisti e intellettuali per avere espresso delle libere opinioni, quella stessa Arabia Saudita che arbitrariamente ha arrestato i difensori dei diritti delle donne, quella stessa Arabia Saudita che ogni anno emette condanne a morte (anche tramite decapitazioni), quella stessa Arabia Saudita in cui Raif Badawi è stato condannato a 1.000 frustate e 10 anni di carcere semplicemente per aver scritto un blog, quella stessa Arabia Saudita in cui la tortura viene utilizzata come legittimo strumento punitivo, quella stessa Arabia Saudita in cui la discriminazione religiosa della minoranza sciita avviene alla luce del sole, quella stessa Arabia Saudita in cui è stato fatto pezzi il giornalista del Washington post Jamal Khashoggi.

Tutto bene, insomma. Anzi qualcuno ci dice che non essendoci nulla di illegale non se ne dovrebbe nemmeno parlare. Del resto la questione morale, dalle nostre parti, sembra contare ormai molto poco. Quando un anno fa Corrado Formigli gli chiese (dopo che un altro pezzo del Financial Times aveva segnalato la sua partecipazione a un meeting in Arabia) se da «senatore italiano» si ponesse «il problema etico quando tiene conferenze in Paesi che violano i diritti umani come l’Arabia Saudita», Renzi rispose sereno che non c’era alcun conflitto di interesse e che sarebbe sorto solo se lui avesse «fatto parte del governo come ministro o premier». Bei tempi quando in Italia si chiedeva la decadenza della cittadinanza italiana a Sandro Gozi in quanto consulente di Macron.

Intanto qui c’è una crisi di governo da sistemare. Che impiccio, per mister Renzi.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Trascinarono nuda una malata psichica, sospesi due agenti

Sono due gli agenti della casa circondariale di Rebibbia sospesi dal loro incarico, una sovrintendente e un assistente capo coordinatore in servizio all’istituto che ora sono accusati di falso ideologico e abuso di autorità. La presunta vittima è una detenuta con problemi psichiatrici. I fatti risalgono alla notte dello scorso 21 luglio: la donna è stata trascinata con forza perché aveva rotto un termosifone, dopo avere chiesto una sigaretta e avendo ottenuto un rifiuto, e per questo sarebbe stata portata in un’altra stanza priva di telecamere di sorveglianza. Il tutto sarete avvenuto con la presenza di ben 5 agenti donne e un agente di sesso maschile che avrebbero poi redatto un verbale di servizio in cui era riportata una presunta aggressione da parte della detenuta nei confronti degli agenti che in realtà non sarebbe mai accaduta.

«Non risulta che la detenuta stesse tenendo un comportamento aggressivo che abbia reso necessario l’intervento di un agente di sesso maschile, né dai filmati risultano situazioni che rendessero necessario l’uso della forza per lo spostamento della detenuta, come sostenuto dagli indagati nell’interrogatorio» scrive nell’ordinanza la gip Mara Mattioli, che descrive anche i fatti successivi: «Il trascinamento di peso della detenuta, nuda e sull’acqua fredda, non è stato posto in essere per salvaguardare l’incolumità della stessa (avendo la detenuta già da un po’ cessato le intemperanze) apparendo invece chiaramente motivato da stizza e rabbia per i danni causati dalla donna». Nel video agli atti anzi la donna detenuta è evidentemente in imbarazzo proprio per la presenza di un uomo e cerca di coprirsi le parti intime. Scrive la gip: «L’agente entra nella stanza n.3 e ne esce tenendo ferma la nuca della detenuta che in quel momento appare collaborativa ed è completamente nuda, la accompagna all’interno della stanza n.1 resa nuovamente agibile».

Una circostanza che per l’eccezionale presenza di personale di sesso maschile non autorizzato doveva diversamente essere riportato agli atti. «Inoltre la telecamera esterna alle ore 2.01 del 22/7/2020 riprende nuovamente l’agente entrare nella stanza n.1 ove è rimasta la detenuta ed uscirne circa 24 secondi dopo. Di questo accesso non vi è traccia nei verbali né dai filmati si capisce sulla base di quale necessità un agente di sesso maschile sia intervenuto da solo presso la cella della detenuta (peraltro ancora completamente nuda)». Secondo quanto riportato dalla vittima nel suo interrogatorio sarebbe rimasta sola con l’agente uomo nella stanza mentre era minacciata di non rivelare quei fatti a nessuno altrimenti le violenze si sarebbero ripetute. Da qui la condanna di falso ideologico e di abuso di autorità che hanno portato anche alla sospensione del servizio: “personalità del tutto spregiudicate” che avrebbero potuto reiterare le violenze e che avrebbero potuto inquinare le prove. Secondo fonti interne al carcere, infatti, gli accusati non era la prima volta che eccedevano in violenze e risulterebbero diverse segnalazioni e condanne disciplinari nel loro curriculum.

Per il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia «pur rimanendo ovviamente garantisti la loro sospensione è un segnale importante perché in molti casi di abusi, quando non vengono coperti con omertà, il personale resta normalmente in servizio e in molti casi restano in servizio nello stesso istituto se non addirittura nelle stesse sezioni». Per questo, dice Anastasia, «l’intervento del Dap è particolarmente apprezzabile perché è risultato abbastanza urgente, mentre spesso si aspetta l’esito del procedimento penale, quindi molti anni dopo, prima di intervenire e allontanare gli eventuali colpevoli»· Mentre ora le indagini faranno il suo corso e accerteranno eventuali responsabilità però resta da registrare un dato, che è sempre lo stesso: nelle carceri italiani continuano a consumarsi violenze che difficilmente riescono a rompere il muro di omertà che si crea tra agenti penitenziari. In questo caso i video delle telecamere di sorveglianza hanno potuto almeno appurare che non ci sia stata nessuna presumibile aggressione, motivazione molto spesso usata per proteggere la facciata di eventuali violenze, ma solo il lavoro delle indagini ha permesso di scoprire che il verbale redatto sull’accaduto non corrispondesse alla realtà dei fatti.

Poi c’è la questione, la solita annosa di cui spesso scriviamo anche sule pagine di questo giornale, di detenuti che non sono nelle condizioni psichiche di poter sicuramente stare in una cella: la donna vittima della violenza nel carcere di Rebibbia è descritta da tutti, anche dagli inquirenti, come una persona con gravi disturbi psichici. Ma siamo davvero sicuri che una situazione del genere non sia anche creata dalla mancanza di misure alternative al carcere che dovrebbero permettere a lei di scontare la propria pena con un metodo alternativo che comprenda anche le giuste cure (oltre alla propria dignità) e che non debba mettere operatori penitenziari (anche senza le giuste competenze) in condizioni così difficili? Il 4% dei detenuti è affetto da disturbi psichici contro l’1% della popolazione generale.

La depressione colpisce il 10% dei reclusi mentre il 65% convive con disturbi della personalità. Un detenuto su 4 assume regolarmente psicofarmaci. Tutto questo mentre una sentenza della Corte di Cassazione dello scorso agosto mette nero su bianco che è ora possibile concedere, alla persona affetta da gravi problematiche psichiatriche, la misura della detenzione domiciliare. La donna di questa terribile storia ancora prima che non essere maltrattata non doveva stare a Rebibbia.

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Thyssen: fu una “colpa imponente”

Il 13 maggio scorso la Cassazione aveva confermato le pene chiudendo la storia giudiziaria del caso Thyssen. È stata una “colpa imponente”, scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza, quella commessa dall’ex ad della Thyssen Harald Espenhahn che insieme ad altri cinque manager del gruppo siderurgico ha provocato, per la totale e consapevole mancanza di adeguate misure di sicurezza, il rogo dello stabilimento di Torino nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 nel morirono sette operai.

“Imputati consapevoli del pericolo”
Ad avviso della Suprema Corte, quella dell’ex amministratore delegato e degli altri dirigenti, è una “colpa imponente” tanto “per la consapevolezza che gli imputati avevano maturato del tragico evento prima che poi ebbe a realizzarsi, sia per la pluralità e per la reiterazione delle condotte antidoverose riferite a ciascuno di essi che, sinergicamente, avevano confluito nel determinare all’interno” dello stabilimento di Torino “una situazione di attuale e latente pericolo per la vita e per la integrità fisica dei lavoratori“.  I supremi giudici affermano inoltre che quella commessa è stata una “colpa imponente” anche per “la imponente serie di inosservanze a specifiche disposizioni infortunistiche di carattere primario e secondario, non ultima la disposizione del piano di sicurezza che impegnava gli stessi lavoratori in prima battuta a fronteggiare gli inneschi di incendio, dotati di mezzi di spegnimento a breve gittata, ritenuti inadeguati e a evitare di rivolgersi a presidi esterni di pubblico intervento”.

I giudici avevano confermato le pene inflitte in appello: nove anni e otto mesi per Espenhahn, sei anni e dieci mesi per i dirigenti Marco Pucci e Gerald Priegnitz, sette anni e sei mesi per il direttore dello stabilimento Daniele Moroni, sette anni e due mesi per l’ex direttore dello stabilimento Raffaele Salerno e sei anni e otto mesi per il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri. Le vittime del rogo sono Antonio Schiavone (il primo a morire alle 4 del mattino per le ferite riportate durante l’incidente), Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino (spirati lentamente dal 7 al 30 dicembre del 2007 per le gravissime ustioni riportate).

“L’ad massimo autore delle violazioni”
Con argomenti di “assoluta condivisione”, i giudici dell’appello bis muovendosi nel solco delle indicazioni della Cassazione, hanno individuato nell’ex ad di Thyssen, Harald Espenhahn, “il massimo autore delle violazioni antinfortunistiche che hanno causato gli eventi di incendio e morte” mettendo inoltre in evidenza il fatto che “intorno a lui si muovono gli altri imputati che all’interno della complessa organizzazione aziendale si cooperano, interagiscono con la figura di vertice, aderiscono alle scelte strategiche, le supportano con le loro competenze tecniche e nell’esercizio dei poteri gestionali”.  Se l’ex ad è “il massimo responsabile delle scelte strategiche” sulla gestione dello stabilimento di Torino che nel 2007 era in via di dismissione e non venne fatto alcun investimento in sicurezza nonostante i numerosi motivi di allarme, gli altri manager sono anche loro colpevoli di omicidio colposo plurimo quali “informati e adesivi di tali scelte”.

Per gli ermellini “la colpa in capo al direttore dello stabilimento di Torino, Raffaele Salerno, e al responsabile della prevenzione e della protezione del lavoro, Cosimo Cafueri, si era manifestata ai massimo livelli ipotizzabili, avendo gli stessi avutodiretta percezione e consapevolezza sul campo, a fronte delle plurime segnalazioni ricevute dalle squadre antincendio, dalle problematiche connesse alle garanzie assicurative, alla mobilità dei lavoratori, alla condizione di degrado dello stabilimento, dal progressivo peggioramento delle condizioni di sicurezza”. Nonostante ciò erano stati approvati “documenti per la valutazione del rischio dal contenuto ampiamente riduttivo se non dissimulatorio”. Con una “prospettiva autarchica e autogestionale del rischio di incendio, mobilitando le squadre di emergenza soltanto in seconda battuta, investendo di responsabilità i capiturno addetti alla produzione e praticamente limitando a ipotesi eccezionali l’intervento dei Vigili del Fuoco”.

Il tentativo di influenzare i testi
Dopo il rogo, il capo dello stabilimento e il responsabile della sicurezza, Salerno e Cafueri, hanno messo in campo “una condotta processuale caratterizzata da modifica dello stato dei luoghi, zelo ingiustificato, e intento di avvicinare e influenzare il testimoniale” spiegano i giudici riferendosi alle “manovre inquinatorie” commesse da questi due imputati ai quali, anche per questi depistaggi, sono state negate le attenuanti generiche. Una scelta “del tutto condivisibile” considerando che Salerno organizzò una cena con i dipendenti dell’acciaieria alla bocciofila di Settimo Torinese “nella imminenza della audizione dei testimoni”, iniziativa che “se collegata agli improvvidi tentativi del Cafueri di avvicinare e di disciplinare la testimonianza di alcuni di essi, costituiva ulteriore manifestazione di totale indifferenza al conflitto di interessi in essere con la posizione dei dipendenti citati a deporre sui fatti ascritti ai loro dirigenti”.

(fonte)

La lenta morte del maestro più alto del mondo. E quei medici che lavorano ancora perché manca la legge sulla tortura.

87 ore legate al letto per morire. Basterebbe vedere il video pubblicato da l’Espresso (qui) per rendersi conto che morire per un TSO come è successo a Francesco Mastrogiovanni è qualcosa che ci riporta a tempi e modi senza diritti.

Come scriveva in un suo articolo Gianfrancesco Turano:

«Ucciso per futili motivi. Si chiamava Francesco Mastrogiovanni, aveva 58 anni e faceva il maestro elementare. Mastrogiovanni non è morto in una rissa casuale con qualche teppista. In una mattina di fine luglio del 2009, un vasto spiegamento di forze dell’ordine è andato a pescarlo, letteralmente, nelle acque della costiera del Cilento (Salerno) e lo ha portato al centro di salute mentale dell’ospedale San Luca, a Vallo della Lucania, per un trattamento sanitario obbligatorio. Tso, in sigla. Novantaquattro ore dopo, la mattina del 4 agosto 2009, Mastrogiovanni è stato dichiarato morto. Durante il ricovero è stato legato mani e piedi a un letto senza un attimo di libertà, mangiando una sola volta all’atto del ricovero e assorbendo poco più di un litro di liquidi da una flebo. La sua dieta per tre giorni e mezzo sono stati i medicinali (En, Valium, Farganesse, Triniton, Entumin) che dovevano sedarlo. Sedarlo rispetto a che cosa non è chiaro, visto che il maestro non aveva manifestato alcuna forma di aggressività prima del ricovero.»

Ora finalmente sono arrivate le condanne. Come scrive Giovanni Tizian (qui): “Dopo sette lunghi anni dunque la sentenza di appello: gli undici infermieri, assolti in primo grado, sono stati condannati, ciascuno di loro ad un anno e tre mesi di reclusione, pena, però, sospesa. Sconto di pena invece per i medici condannati dal tribunale in quanto sono state riconosciute le attenutanti generiche. Per loro l’accusa è di falso in atto pubblico. Per tutti pena sospesa e sospese anche le misure interdittive.”

Ma i medici condannati continuano a lavorare. Il perché lo spiega bene Giustiziami sul suo sito:

«gli imputati, condannati a vario titolo per omicidio come conseguenza del sequestro di persona e falso, torneranno in corsia.Ed è questa la conseguenza più preoccupante alla fine di un iter giudiziario tortuoso e che come altre vicende sconta il fatto che l’Italia non ha mai ratificato la convenzione internazionale che prevede la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale.»

La legge contro la tortura. Già.

Cosa Nostra, operazione “Nuovo mandamento”: condanne per 280 anni. Tutti i nomi.

Per i giudici della prima sezione della Corte d’Assise D’Appello Antonino Sciortino sarebbe stato effettivamente al vertice del supermandamento di Camporeale, quello in cui avrebbe fatto convergere i clan mafiosi di Partinico e di San Giuseppe Jato. Un’accusa ritenuta non provata in primo grado, tanto che Sciortino era stato assolto e liberato, dopo essere stato detenuto al 41 bis, ma che adesso gli è costata invece una condanna a 18 anni di reclusione. Assieme a lui, alla sbarra, nell’aula bunker di Pagliarelli, c’erano altri 39 imputati, tutti presunti boss e gregari delle famiglie mafiose di Camporeale, Monreale, Borgetto, Partinico, San Giuseppe Jato e Giardinello, finiti nel blitz “Nuovo Mandamento” dell’aprile del 2013 e processati con il rito abbreviato.

I giudici hanno ribaltato il verdetto anche per Sergio Damiani, pure lui assolto dal gup e ora condannato (in continuazione) complessivamente a 11 anni di carcere. In senso opposto è stata invece rivista la sentenza per Demetrio Schirò e Vincenzo Mulè: erano stati condannati a 4 mesi in primo grado e ora sono stati del tutto scagionati.

Gli imputati rispondevano a vario titolo di mafia, estorsione, detenzione di armi e di droga, furto di bestiame e anche di un omicidio, quello di Giuseppe Billitteri, eliminato col metodo della lupara bianca il 22 marzo del 2012. Questa è l’inchiesta che aveva coinvolto anche l’ex sindaco di Montelepre, Giacomo Tinervia, arrestato per estorsione e concussione. La premessa che portò poi allo scioglimento del Comune per mafia. Tuttavia l’ex primo cittadino venne successivamente assolto da ogni accusa e la sentenza è ormai definitiva.

Sono stati concessi lievi sconti di pena a 14 persone: Salvatore Mulè è stato così condannato a 17 anni (anziché 18), Giuseppe Lo Voi a 18 anni e 2 mesi (19 anni), Giuseppe Marfia a 11 anni e 4 mesi (12 anni), Francesco Vassallo a 10 anni e mezzo, Salvatore Tocco 1 anno e 8 mesi (2 anni e 4 mesi), Vincenzo Madonia a 10 anni e 4 mesi (12 anni), Carmelo La Ciura a 10 anni (15 anni e 4 mesi), Giovanni Rusticano a 7 anni e mezzo (9 anni e 4 mesi), Giovanni Longo a 3 anni e 2 mesi (3 anni e 4 mesi), Sebastiano Bussa a 2 anni e 11 mesi (3 anni), Baldassare Di Maggio a 7 anni e 2 mesi (7 anni e 10 mesi) e Pietro Ficarrotta a 7 anni e 2 mesi (7 anni e 10 mesi), mentre Giuseppe Mulè è stato condannato a 8 anni e 2 mesi. Riduzione anche per il collaboratore di giustizia Giuseppe Micalizzi, da 5 anni a 4 anni e mezzo, che aveva iniziato a parlare con i magistrati poche settimane dopo il suo arresto.

I giudici hanno infine confermato la sentenza di primo grado per altri 22 imputati: assolti anche in appello Santo Abbate, Francesco Abbate, Vincenzo Cucchiara, Giacomo Maniaci, Antonio Badagliacca, Davide Buffa e Francesco Sorrentino, mentre è stata confermata la condanna a 20 anni per Francesco Lo Cascio che rispondeva dell’eliminazione di Giuseppe Billitteri. La colpa della vittima sarebbe stata quella di essersi opposto proprio alla creazione del nuovo mandamento. Altri tre imputati per lo stesso omicidio sono sotto processo con l’ordinario. Sono state anche confermate le condanne per due carabinieri, Francesco Gallo e Giovanni Rammacca, accusati di abuso d’ufficio perché non avrebbero multato Giuseppe Lucido Libranti (presunto boss di Pioppo, sotto processo per l’omicidio Billitteri) trovato alla guida senza patente: le pene sono rispettivamente di 6 e di 8 mesi.

Conferma anche per Giuseppe Speciale (8 anni), Francesco Matranga (10 anni), Salvatore Romano (10 anni e 8 mesi), Santo Porpora (8 anni), Domenico Billeci (10 anni e 8 mesi), Salvatore Lombardo, classe 1969 (8 anni), Salvatore Lombardo, classe 1922 (10 anni e 8 mesi), Giuseppe Abbate (8 anni), Angelo Cangialosi (8 anni), Antonino Giambrone (8 anni), Calogero Caruso (8 anni) e Salvatore Pestigiacomo (6 anni e 8 mesi).

(fonte)

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Italia 90 e mafia lodigiana: ecco le condanne.

Ne avevamo parlato molto tempo fa (ad esempio qui) e oggi arrivano le condanne:

img_9973--676x433Dieci condanne per un totale di oltre 17 anni di reclusione sono state inflitte stamane dal Tribunale di Lodi per la vicenda Italia 90, l’azienda di Palermo che nel 2009 subentrò nell’appalto quinquennale da cinque milioni di euro per la raccolta della spazzatura, secondo la Procura e i carabinieri del Noe facendo pressioni sia sull’ ufficio tecnico sia sull’ altra azienda, anche essa di Palermo, che aveva vinto la gara con un ribasso più alto. Per gli inquirenti qualcuno usò metodi «paramafiosi» ed emersero dalle indagini anche irregolarità attribuibili all’azienda in occasione di appalti a Mulazzano, Zelo Buon Persico e Maleo. Alcuni capi d’accusa sono però già caduti in prescrizione. La pena più alta, 8 anni di carcere, è stata inflitta all’allora socio unico di Italia 90 Claudio Demma, assieme all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Oltre due anni per turbativa d’appalto anche a due ex componenti dell’ufficio tecnico del Comune di Sant’Angelo Lodigiano. Il municipio si è costituito parte civile e si è visto riconoscere una provvisionale immediatamente esecutiva di 173mila euro. (fonte)

Giustizia per Lea

Sono definitive le condanne per l’omicidio della testimone di giustizia Lea Garofalo uccisa a Milano il 24 novembre 2009: la Cassazione ha confermato i 4 ergastoli e la condanna a 25 anni emessi dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano a carico dei 5 imputati, tra cui l’ex compagno Carlo Cosco.Ergastolo anche per Vito Cosco, fratello di Carlo, Rosario Curcio e Massimo Sabatino.Per l’ex fidanzato della figlia di Lea, Carmine Venturino,la condanna a 25 anni per le sue dichiarazioni.

‘Ndrangheta a Imperia: merde in gabbia

“È meglio se da qui non mi fate più uscire, perché se esco vi taglio la gola a tutti”. Vincenzo Marcianò, il figlio intemperante del presunto boss della ‘ndrangheta di Ventimiglia, Peppino Marcianò, non è nuovo a sparate del genere e quando oggi, il tribunale di Imperia lo ha condannato, insieme al padre, rispettivamente a 13 e 16 anni, ha inveito contro la corte: “Ti sei venduto il processo. Sei un coso lordo – ha imprecato contro il presidente del collegio giudicante, Paolo Luppi-. Sei un infame. Ti sei messo d’accordo con il pm. L’homo sapiens! Sa tutto lui!”

La sentenza è storica: per la prima volta un tribunale ligure ha sancito l’esistenza di un’organizzazione mafiosa dislocata sul territorio, dopo anni di inchieste (Roccaforte, Colpo della Strega, Spi.Ga, Maglio e Maglio 3, Crimine, e infine non a caso quella soprannominata La Svolta) che coinvolgevano gli stessi personaggi, senza mai riuscire a portare a casa il risultato in sede giudiziaria.

Associazione mafiosa per dodici degli imputati, fra i quali, Peppino Marcianò, condannato a 16 anni e Antonio Palamara, da alcuni collaboratori di giustizia indicato come il vero capo di Ventimiglia e, per questo, condannato a 14 anni. Tredici anni, per Vincenzo, Marcianò, figlio di Peppino e 7 anni e sei mesi al suo omonimo, nato nel ’48. Sette anni ad Annunziato Roldi ed Ettore Castellana, colpevoli dell’attentato intimidatorio ai danni dell’imprenditore Piergiorgio Parodi. Condanne pesanti anche per i fratelli Pellegrino, già implicati anche in altri processi: 16 anni per Maurizio e 10 anni e sei mesi per Giovanni e Roberto.

Condanne che, se non hanno accolto in pieno le richieste del pm, Giovanni Arena, (che era arrivato a chiedere fino a 22 anni) hanno comunque accolto la sua tesi. Con la sola e importante eccezione degli apporti politici. Assolti, infatti, ai sensi dell’articolo 530 del codice penale, l’ex sindaco di Ventimiglia Gaetano Scullino e il suo city manager, Marco Prestileo. Secondo l’accusa decaduta, i due avrebbero agevolato la cooperativa Marvon, controllata da Marcianò, nell’assegnazione di alcuni appalti attraverso la controllata comunale Civitas. Resta il fatto inquietante che, la notte dopo la deposizione in tribunale di Marco Prestileo, l’auto intestata alla moglie ha preso fuoco, in quella che oramai viene definita la “Riviera dei fuochi”.

Nonostante le condanne pesanti, la situazione in aula si era mantenuta accettabile (solo il grido di dolore della madre dei fratelli Pellegrino) fino alla lettura del dispositivo di risarcimento alle parti civili: 600mila euro al comune di Ventimiglia, e 400mila a quello di Bordighera. La richiesta dei danni, insieme con la con la confisca dei beni alla famiglia Pellegrino, ha dato fuoco alle micce: “Ecco dove volevate arrivare. A prendervi i nostri soldi” – è sbottato il solito Vincenzo. Da lì è stato un crescendo di minacce e tentativi di uscire dalla gabba, fino al rifiuto di essere condotti fuori in manette, perché – ha spiegato uno dei detenuti – noi siamo gente onesta e vogliamo rispetto”.

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