Nemmeno farli entrare
Ha fatto bene Umberto Ambrosoli ad uscire dall’aula del Consiglio Regionale della Lombardia mentre si commemorava Giulio Andreotti.
Anzi: magari il prossimo giro evitiamo di farli entrare, quegli altri.
Ha fatto bene Umberto Ambrosoli ad uscire dall’aula del Consiglio Regionale della Lombardia mentre si commemorava Giulio Andreotti.
Anzi: magari il prossimo giro evitiamo di farli entrare, quegli altri.
Alla fine si vota. E lo abbiamo voluto, qui in Regione Lombardia, per provare a respirare con la testa fuori da questo formigonismo che ci si è attaccato addosso come un’aria che sembrava inevitabile. Oggi chiudiamo una campagna elettorale che abbiamo annusato sotto questa coda d’inverno tra un’indolenza alla politica come risultato degli ultimi anni.
Sarebbe da scrivere un appello, mi dicono. Sarebbe da chiudere la campagna con il messaggio di fine anno, qualcosa con il vestito presidenziale e l’ottimismo quanto serve per essere leggero, leggibile, spendibile.
E’ stata una campagna elettorale per riattivare il meglio di una Lombardia addormentata tra le braccia di un’economia che sembrava infallibile, sempre abbastanza pronta a superare anche le crisi più dure e disposta (per qualcuno) a rinunciare al dovere dell’etica in nome del dio profitto. Il profitto lombardo che è diventato il paravento dietro al quale i politici si sono evoluti in profittatori, i disagiati sono solo costi, le mafie ottimi soci in affari, i partiti sono le cameriere disinibite delle lobby e le persone sono diventate numeri: numeri a forma di persone da catalogare, da indirizzare, da pesare un tanto al chilo, cose come persone a forma di numeri.
C’è una Lombardia che mi sta nel cuore come le favole dei bambini: la Milano capitale morale che adagia la paglia per rendere più silenziosa e leggera la morte del suo Maestro Giuseppe Verdi, la Lombardia che coltiva le proprie terre e insieme alleva anche la propria storia, la Lombardia dell’impresa che aveva un senso comune dai consigli di amministrazione fino all’ultimo apprendista dove l’impresa era fare impresa per il lavoro, dove il lavoro era l’esercizio della dignità che sta nell’avere diritto e dovere del proprio futuro.
E’ stata una campagna elettorale dove i cittadini mi hanno stupito ancora come due anni fa con il senso della speranza per non accettare una Regione che sembra impaurita e stanca, con l’energia pulita (ed economica) che abbiamo incontrato tante volte nelle commissioni regionali mentre i comitati di cittadini attivi smutandavano il dirigente di turno che abbozzava un mezzo sorriso di dispiacere di fronte alle bugie che non avevano gambe.
Mi dicevano di non farlo, due anni fa. Di non candidarmi perché non ce l’avrei fatta e perché alla fine mi sarei inquinato anch’io. Mi dicevano che non funzionava la politica. Me lo ripetevano mentre abbiamo messo le mani dentro gli appalti, mentre abbiamo rimosso dirigenti inaccettabili in questi anni, mentre abbiamo percorso chilometri dalle valli ai centri metropolitani a raccontare che la solidarietà lombarda formigoniana è pericolosa e falsa: una solidarietà solo fra sodali, come un clan. Adesso sono ancora qui, per chiedervi se sono stato all’altezza del compito che mi era stato assegnato, se davvero il mio programma si legge in quello che abbiamo già fatto e se abbiamo la fiducia per continuare ancora. Insieme. A cambiare la Lombardia, ostinatamente smoderati e fieri delle nostre differenze. Perché le cose cambiano se siamo disposti a cambiare. E l’aria inevitabile sta cambiando direzione e soffia quasi come un vento.
Se volete votarmi, sarà un voto smoderato. Ostinatamente smoderato. Davvero.