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Se l’Italia non si indigna per le agghiaccianti torture degli 007 egiziani su Giulio Regeni

Nel 2016 le commesse tra Italia e Egitto si aggiravano sui 10 milioni di euro l’anno. Nel 2019 gli scambi con l‘Egitto per l’Italia hanno superato gli 800 milioni, comprese due fregate della Marina Militare italiana che sono state vendute al Paese guidato da Al-Sisi. Ecco qui tutto il punto che dovrebbe farci indignare, gridare e continuare pervicacemente a scrivere sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore ucciso in Egitto dopo 9 giorni di sequestro.

E, se serve qualcosa per rendersi conto della feroce brutalità di cui si sta parlando, allora basta leggere le conclusioni dei pm di Roma che hanno chiuso l’inchiesta sull’uccisione del ricercatore friulano e che parlano di torture, di sevizie con oggetti roventi, di lame e di bastoni che causarono “acute sofferenze fisiche” uccidendo lentamente Giulio.

Ora ci sono, nero su bianco, anche i reati: sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Nelle carte si legge di di violenze perpetrate per “motivi abietti e futili e con crudeltà”, che hanno provocato “la perdita permanente di più organi”: Giulio è stato torturato “con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanza di più giorni attraverso strumenti affilati e taglienti e di azioni con meccanismo urente”.

I colpevoli? Uomini della National Security egiziana, vicinissimi al governo: rischiano il processo il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif: “È lui ad aver torturato e ucciso Giulio”, scrivono i pm, che hanno raccolto le testimonianze di cinque testimoni oculari. Uno dei testimoni racconta di avere visto Giulio Regeni “incatenato nella sede della National Security. Era magro e aveva i segni delle torture”.

È tutto l’orrore del mondo che la mamma di Giulio Regeni aveva dichiarato alla stampa di avere ritrovato sul viso del figlio. È l’orrore di una violenza che si è burlata della giustizia italiana (i magistrati non hanno ottenuto nessun tipo di collaborazione dall’Egitto) e della nostra politica. È una storia che sanguina anche della mollezza e dell’indifferenza dei nostri governi, che con le mani sporche di sangue di Al-Sisi continuano a firmare contratti e a stringere affari.

Abbiamo le carte che ci raccontano di uno Stato assassino che noi continuiamo a rifornire di armi. Non c’è da girarci troppo intorno: l’omicidio Regeni è un granello di sabbia in un meccanismo che continua serenamente a funzionare. Ma a volte la sabbia riesce a ottenere risultato insperati. La magistratura ha fatto la sua parte, il governo invece latita.

LEGGI ANCHE Omicidio Regeni, inchiesta chiusa: quattro 007 egiziani verso processo. “Giulio legato con catene di ferro”

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Ingiusti perfino nel vaccino

Nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito, denuncia People’s vaccine alliance

Ne dovevamo uscire migliori ne usciremo probabilmente vaccinati. Noi. Noi saremo vaccinati perché il caso ha voluto che nascessimo in quella parte di mondo che se lo può permettere, eppure proprio durante la pandemia (che è stata e che continua a essere globale) abbiamo scritto, ascoltato e discusso centinaia di volte sull’esigenza di garantire una copertura vaccinale che fosse solidale e non seguisse solo secondo le logiche di mercato. I dati, per ora, dicono tutt’altro.

I numeri ce li dà People’s vaccine alliance, l’organizzazione formata da Amnesty international, Frontline aids, Global justice now e Oxfam: secondo le loro stime nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito.

Il ruolo del razziatore, manco a dirlo, spetta ovviamente all’Occidente che è riuscito ad accaparrarsi in tempo tutte le dosi che servono. I Paesi ricchi con appena il 14% della popolazione mondiale si sono già assicurati il 53% dei vaccini più promettenti: il Canada addirittura è riuscito a ottenere dosi in tale quantità da poter vaccinare ogni cittadino cinque volte, mentre l’Unione europea 2,3 volte.

Ben 67 Paesi a reddito medio-basso e basso rischiano di essere lasciati indietro sebbene 5 – Kenya, Myanmar, Nigeria, Pakistan e Ucraina – abbiano registrato quasi 1,5 milioni di contagi. «A nessuno dovrebbe essere impedito di ottenere un vaccino salvavita a causa del Paese in cui vive o della quantità di denaro che possiede», dice Sara Albiani di Oxfam Italia: «Senza un’inversione di marcia, miliardi di persone in tutto il mondo non riceveranno un vaccino sicuro ed efficace contro il Covid-19 negli anni a venire».

E a proposito di vaccini ha ragione Heidi Chow, di Global Justice Now quando dice che «tutte le case farmaceutiche e gli istituti di ricerca che stanno lavorando allo sviluppo di un vaccino devono condividere i dati, il know-how tecnologico e i diritti di proprietà intellettuale in modo che sia prodotto un numero sufficiente di dosi sicure ed efficaci per tutti. I governi devono anche garantire che l’industria farmaceutica anteponga la vita delle persone al profitto».

Non è una questione da poco: sull’equità della distribuzione del vaccino si gioca la credibilità mondiale e lo spirito di solidarietà mondiale. Quello che qualcuno diceva che sarebbe arrivato e invece, non è una sorpresa, non c’è. Oppure quello che gli altri dicono che non sia importante, sempre per quella vecchia storia di essere nati dalla parte giusta del mondo.

Notate: un argomento così enorme viene discusso pochissimo, proprio nel momento in cui tutti discutono delle loro piccole facezie. Tutto così gretto, tutto così basso, tutto così ingiusto.

Buon giovedì.

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Con Immuni tutti preoccupati per la privacy, ma se c’è da guadagnare col cashback scatta la corsa al clic

La terribile “dittatura sanitaria”, il “controllo dei poteri forti”, “il governo che ci spia”, “le app che servono per renderci sudditi” e poi tutta la sequela di teorie dei negazionisti, dei complottisti e dei nemici del governo si sono sciolte come neve al sole di fronte all’app IO (siamo già a oltre 7 milioni di download in pochi giorni), quella che serve per ottenere il famoso cashback sugli acquisti di dicembre fino a un massimo di 150 euro.

Bastava dare una mancia agli italiani per vedere svanire di colpo le mirabolanti tesi che hanno affollato (e continuano a affollare) il dibattito su quell’altra app, quella che non restituisce soldi ma che può aiutare a garantire un po’ di prevenzione e di salute agli altri cittadini, ovvero Immuni.

Popolo strano quello italiano: è bastato che qualche politico (a dire la verità il solito politico) avanzasse dubbi sulla gestione della privacy dell’app Immuni (dubbi tra l’altro che andrebbero presi molto sul serio e che avrebbero meritato un dibattito ben più intelligente) perché si avanzassero ipotesi di microchip, di controllo della cittadinanza e la solita risma di teorie che circolano da quelle parti e nessuno invece si interroga sul fatto di cedere i propri dati finanziari a un’app di governo.

I 150 euro sono un’occasione troppo ghiotta ed evidentemente siamo un Paese che si sposta (e sposta i propri ragionamenti) molto di più per una questione economica che per una questione di responsabilità. Niente di nuovo sotto al sole, insomma.

Però il successo dell’app IO (che magari se si riuscisse a fare funzionare sarebbe una buona cosa, eh) smentisce anche uno scenario che per molti anni dalle parti della destra è stato sventolato: da Salvini a Berlusconi passando per Giorgia Meloni, ci hanno sempre detto che la lotta al contante da parte del governo era una “privazione della libertà” e che la moneta elettronica come arma di lotta all’evasione non avrebbe funzionato.

Beh, i numeri di questi giorni invece ci dicono che i cittadini sono ben disposti a modificare i propri comportamenti se intravedono un vantaggio “concreto”. E allora siamo davvero sicuri che la lotta al “nero” sia un argomento che non interessa ai cittadini? O forse semplicemente c’è qualcuno che difende, con falsi argomenti, proprio quelli che sull’evasione costruiscono una buona fetta del proprio reddito sottraendolo allo Stato?

Non sono questi giorni un’ottima occasione per provare a affrontare, numeri alla mano, il tema della moneta elettronica come già avviene in tutto il mondo? Chissà che una volta passata la furia degli acquisti natalizi non si possa parlarne, senza comodi pregiudizi.

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993

Ieri, 3 dicembre, sono morte 993 persone di Covid. La cifra più alta in un solo giorno in Italia. Ma i numeri sono diventati muti, non condizionanti, si sommano e si continuano a sommare come cifre nude e vuote

Ieri 993 famiglie hanno pianto la morte di un loro famigliare. Non l’hanno potuto salutare, non lo possono vedere nemmeno da morto perché quei 993 sono stati sigillati e ora vengono messi in coda per la cremazione. Ieri 993 famiglie hanno smesso di pensare alle feste, agli addobbi, ai menù, a tutto.

Per dare un’idea delle proporzioni, negli Usa il dato più alto di morti in un solo giorno, in tutti gli Usa, è di 2.880.

Questa seconda ondata che per alcuni non doveva arrivare è arrivata e si rivela più mortifera della prima. In Italia non ci sono mai stati così tanti decessi. Novecentonovantatré morti mentre ancora qualcuno gioca a dipingere come disfattisti quelli che parlano di Covid. Novecentonovantatré morti in un Paese che ci diceva che avevamo imparato la lezione, che ora sappiamo come curarli, che sono state migliorate le prestazioni, le cure e l’assistenza sanitaria.

Dal 10 ottobre sono morte 21.898 persone. Dall’inizio della pandemia sono morte 58.038 persone. È sparita una città come Agrigento.

Ma i numeri sono diventati muti, non condizionanti, si sommano e si continuano a sommare come cifre nude e vuote, una sopra all’altra. Anche di fronte a questa pandemia continuiamo a non riuscire a restare umani, a sentire le store che ci sono dietro, a leggere con un vocabolario che non sia burocratico, medico, politichese.

Sono 760mila gli attualmente positivi al virus; 760mila.

Se ci fosse un segreto perché i numeri non cancellino le storie bisognerebbe usarlo ora, subito. Restituire il dolore, su numeri così grossi, diventa un’impresa così titanica che sembra non volerla fare nessuno. Superare i lutti scavalcandoli senza farsene carico è la reazione meno consapevole e meno etica, anche se viene facile facile. Chissà se troveremo le parole per raccontare questo tempo. Chissà se conieremo parole nuove per descrivere la levità con cui siamo passati attraverso un giorno così.

Buon venerdì.

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I diritti cominciano pretendendoli

Quando si iniziò a chiedere il diritto al divorzio in Italia ci credevano in pochi. Così come avvenne per la fine dell’apartheid negli Usa. Perché i diritti restano sotto la brace per anni, e prima o poi trovano la scintilla

Quando nasce un diritto? Quando viene riconosciuto? Ma no, dai, su. Sessantacinque anni fa Rosa Parks su un autobus a Montgomery, in Alabama, si rifiutò di cedere il proprio posto ad un bianco. Stava tornando a casa dopo aver lavorato tutto il giorno in un grande magazzino come sarta, faceva molto freddo, e non aveva trovato posti liberi nel settore riservato agli afroamericani e per questo decise di avere il diritto di sedersi nel settore dei posti comuni. Salì un uomo bianco che rimase in piedi e l’autista del bus dopo alcune fermate le chiese di alzarsi. Disse di no. Venne arrestata. Iniziò una protesta che poi è storia: il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery durò 381 giorni, i tassisti afroamericani abbassarono le loro tariffe a quelli dei bus, le piazze si riempirono di sostenitori. Il 13 novembre 1956, la Corte suprema degli Stati Uniti dichiarò fuorilegge la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici poiché giudicata incostituzionale.

Cinquant’anni (e 1 giorno) fa fu approvata la legge che prevedeva il diritto al divorzio alla Camera dopo una seduta parlamentare che durò oltre 18 ore. La riforma era richiesta a gran voce dai movimenti delle donne e dai radicali. Quando si cominciò a chiedere il diritto al divorzio in un Paese clericale come l’Italia non ci credeva quasi nessuno. Nel 1878 ci provò il deputato Salvatore Morelli. Nel 1902 il governo Zanardelli elaborò una proposta che però non venne mai approvata.

La legge sul divorzio fu realizzata durante una stagione di diritti: furono gli anni dell’abrogazione del reato di adulterio (’68), del divorzio (’70), della riforma del diritto di famiglia (’75), dell’aborto (’78), dell’abrogazione del delitto d’onore (’81). Ne siamo usciti migliori.

Il punto è proprio questo: i diritti cominciano nel momento in cui si comincia a pretenderli. Non è vero che non siano mai esistiti prima: semplicemente non esisteva qualcuno capace di dire “no” e poi di moltiplicare la sua pretesa. E accade così ancora oggi, ogni volta che qualche conservatore ci vorrebbe dire che ci si “inventa” diritti. I diritti sono lì, sotto la brace per anni, e prima o poi trovano la scintilla. Ed è una brace da tenere con cura perché passano gli anni ma continuano a insistere quelli che vorrebbero negarli, i diritti, esattamente come decenni fa.

Disse Fanfani in merito al referendum sul divorzio, il 26 aprile 1974 a Caltanissetta: «Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva».

Gli auguriamo di avere avuto ragione.

Buon mercoledì.

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Sorvegliata specialmente: Eddi Marcucci

Da marzo l’ex combattente nel conflitto dei curdi contro l’Isis è sottoposta a sorveglianza speciale. Con motivazioni inconsistenti e in virtù di una norma di dubbia costituzionalità

Siamo quasi a dicembre e Eddi Marcucci, 29 anni, continua a essere sottoposta a sorveglianza speciale dal mese di marzo. La “colpa” di Eddi (qui intervistata proprio sulle pagine di Left) è quella di avere combattuto per nove mesi nella battaglia dei curdi contro l’Isis, una guerra che sarebbe spettata a noi e che invece è stata celebrata nelle fasi iniziali e poi volutamente, consenzientemente dimenticata se non addirittura condannata. Eddi è partita nel 2017 per il Rojava con lo scopo di affiancare gli Ypj curde contro gli islamisti che controllavano il Nord della Siria.

Secondo il tribunale di Torino l’essere addestrata all’uso delle armi sarebbe un potenziale pericolo, non si sa bene per chi, e per questo le è stato ritirato il passaporto, ritirata la patente, imposto di stare nella sua abitazione dalle 21 alle 7 ed è obbligata a comunicare tutti i propri spostamenti. Entro Natale la Corte d’appello di Torino deciderà sul ricorso presentato da Marcucci contro la sorveglianza speciale. Le erano anche stati negati i social che ieri sono stati riattivati. Nessuna spiegazione sul perché siano stati tolti e nessuna spiegazione perché ora siano tornati indietro. Niente.

La sorveglianza speciale (eredità dei regi decreti dell’epoca fascista, quando veniva usata come strumento di repressione) è una misura che non viene presa come reazione a un reato commesso ma al fine di prevenire eventuali reati. Si basa sostanzialmente su una serie di indizi sul possibile reato senza nessun riscontro, rimanendo nel campo delle ipotesi. Si pongono ovviamente anche dei dubbi costituzionali su una misura così arbitraria (lo ha sottolineato anche nel 2017 la Corte europea dei diritti umani) che intacca la presunzione di innocenza e che comporta comunque afflizione. Sulla vicenda tra l’altro c’è un gran bel libro edito da People (Dove sei?) scritto da Roberta Lena, madre di Eddi.

Tra le limitazioni c’è anche il divieto di parlare in pubblico e di fare politica: in sostanza non può raccontare la propria storia e quello che le sta accadendo. Per questo vale la pena raccontarla. E per questo sarebbe il caso di sapere quali sarebbero gli “indizi” di questa misura così straordinaria. Anche perché se si tratta solo dell’essere stata addestrata a maneggiare armi allora ci sarebbe qualche milione di persone con un servizio militare alle spalle che andrebbero sorvegliati, subito, qui da noi. No?

Buon venerdì.

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Uomini che ammazzano donne

Nei primi dieci mesi del 2020 sono 91 le vittime di femminicidio. Una ogni tre giorni. E le misure restrittive imposte dall’emergenza pandemica hanno aggravato il fenomeno

I numeri emergono dal VII Rapporto Eures sul femminicidio in Italia. Nei primi dieci mesi del 2020 sono 91 le vittime di femminicidio. Qualcuno oggi strumentalmente vi dirà che sono meno delle 99 donne dello scorso anno ma in realtà sono diminuite le vittime femminili della criminalità comune (da 14 a 3 nel periodo gennaio-ottobre 2020) mentre risulta sostanzialmente stabile il numero dei femminici di familiari (da 85 a 81) e, all’interno di questi, il numero dei femminici di di coppia (56 in entrambi i periodi); in aumento (da 0 a 4) anche le donne uccise nel contesto di vicinato. Per dirla facile facile: nel 2020 l’incidenza del contesto familiare è dell’89%, superando l’85,8% dell’anno scorso.

La coppia continua a rappresentare il contesto relazionale più a rischio per le donne, con 1.628 vittime tra le coniugi, partner, amanti o ex partner negli ultimi 20 anni (pari al 66,2% dei femminici di familiari e al 48,7% del totale delle donne uccise) e 56 negli ultimi dieci mesi (pari al 69,1% dei femminici di familiari e a ben il 61,5% del totale delle donne uccise). Gli autori sono “per definizione” nella quasi totalità dei casi uomini (94%), con valori che nel corso dei singoli anni oscillano tra il 90% e il 95%. Le misure restrittive imposte dall’emergenza pandemica hanno fortemente modificato i profili di rischio del fenomeno: osservando i dati relativi ai femminicidi familiari consumati nei primi dieci mesi di quest’anno si rileva come il rapporto di convivenza, già prevalente nel 2019 (presente per il 57,6% delle vittime), raggiunga il 67,5% attestandosi addirittura all’80,8% nel trimestre del dpcm Chiudi Italia. Quando, tra marzo e giugno, ben 21 delle 26 vittime di femminicidio in famiglia convivevano con il proprio assassino.

L’omicidio però è spesso solo l’atto finale di una violenza che si consuma. Il femminicidio all’interno della coppia è spesso soltanto il culmine di una serie di violenze pregresse: violenze psicologiche (20%), violenze fisiche (17,7%), stalking (13,3%) e violenze note a terzi (11,1%). Violenze però denunciate solo nel 4,4% dei casi.

Poi c’è la violenza delle parole, sì anche quella. Nel suo rapporto Barometro dell’odio Amnesty International ha analizzato i commenti sui social. Le donne continuano a essere vittime di una società profondamente maschilista e sessista, nei luoghi pubblici, all’interno delle mura domestiche e anche sul web. Guardando al dibattito in modo ampio, su oltre 42.000 post e tweet analizzati, più di 1 su 10 (il 14%) è offensivo, discriminatorio o hate speech. Di questi il 18% rappresenta un attacco personale a un influencer, uomo o donna, tra quelli osservati; nel caso delle influencer, tale incidenza sale al 22%. Un terzo di questi ultimi commenti è sessista e si concretizza in attacchi contro i diritti di genere, la sessualità, il diritto d’espressione. Comuni gli insulti di carattere “morale” che bollano la donna come immorale o “prostituta”, che la classificano per il modo di vestire o per la sua vita sentimentale. A partire dalla presa di posizione di queste donne contro la discriminazione di genere, a favore del diritto all’aborto, o alla parità tra i sessi o alla libera espressione delle proprie scelte sessuali.

Scrive Amnesty: «In sostanza, si aggredisce la donna che si presenta come autonoma e libera nelle proprie scelte, o perché la stessa si esprime a favore della altre categorie fatte oggetto d’odio, come accade con migranti e musulmani. Una vera e propria catena di montaggio dell’odio, che mette insieme idee, comportamenti, identità, scelte che rappresentano i diritti e le libertà delle persone, per farle oggetto di pubblico ludibrio e di discriminazione violenta».

Buona giornata contro la violenza sulle donne. Con i numeri in mano.

Buon mercoledì.

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Sul caso Genovese auguri al carnefice e attenuanti alla vittima: il mondo rovesciato di Vittorio Feltri

È dura essere Vittorio Feltri. Ogni mattina si sveglia e deve riuscire a intercettare gli umori peggiori dei più bassi discorsi da bar e metterli su pagina per manganellare qualcuno. Oggi il “giornalista” se la prende con la vittima di Alberto Genovese e lo fa con un editoriale che si racconta già dal titolo: “Ingenua la ragazza stuprata da Genovese”.

Si comincia instillando un dubbio: “Certo, gli piacevano le donne e non credo che faticasse a procurarsene in quantità – scrive Feltri. Che necessità aveva di rincorrere allo stupro per impossessarsi di una ragazza bella e giovane dopo averla intontita con sostanze eccitanti? Ciò è incomprensibile sul piano logico”.

E così il dubbio è subito bello e servito. Ma Feltri dà il peggio di sé nella descrizione dello stupro: “Dicono che Genovese sia andato avanti tutta la notte a violentare Michela, una ragazzina di 18 anni la quale pare fosse la terza volta che si recava nell’abitazione del nostro “eroe” del menga […] Come si fa a darci dentro per tante ore. Io, anche quando ero un ragazzo, dopo il primo coito fumavo una sigaretta…”.

Finito qui lo schifo? No, no. Feltri ci dice “personalmente ho constatato che si fa fatica a farsi una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta”. Capito? Per Feltri, come per tanti sostenitori del giornalismo fallocratico, non c’è differenza tra violenza, stupro e un normale rapporto amoroso: è tutto solo un atto sessuale, è tutto solo quella cosa lì, tutto uguale, sempre uguale.

Il finale poi è un manifesto di indegnità giornalistica. Feltri si domanda se la vittima “entrando nella camera da letto dell’abbiente ospite” pensava “di andare a recitare il rosario”, senza sospettare “che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando avrebbe potuto rimettersele” e scrive che “sarebbe stato meglio rimanere alla larga da costui”. Insomma, se l’è cercata.

Il vomitevole editoriale si chiude con “lui” che “adesso la vedrà brutta o non la vedrà per anni (indovinate cosa, nda) con l’augurio di “disintossicarsi in carcere”. E la vittima? Scrive Feltri: “Alla vittima concediamo le attenuanti generiche. Ai suoi genitori tiriamo le orecchie”. Auguri al carnefice e attenuanti alla vittima: il mondo rovesciato di Vittorio Feltri è tutto qui.

Qualcuno dice che non bisognerebbe sottolinearli certi pezzi, qualcuno dice che bisognerebbe fare finta di niente. Ma c’è una responsabilità sulle parole che ritorna proprio in questo periodo ancora più prepotente: la violenza sulle donne inizia quasi sempre con la parola, è lì che si infila la prima fallocrazia. Qualcuno dice che Feltri fa così per provocare, benissimo, allora mettiamoci d’accordo su quale sia il limite delle cosiddette “provocazioni” che poi non sono altro che articoli che vogliono parlare a un pubblico ben preciso: i maschi che per sentirsi maschili sanno solo essere maschilisti. La violenza sulle donne è qualcosa di troppo grave e di troppo serio per essere lasciata in mano a Feltri e per questo c’è da continuare a sottolineare qualsiasi sua schifezza, soprattutto se pubblicata su un giornale di tiratura nazionale.

Del resto ci sono articoli scritti bene, articoli scritti male, articoli giusti, articoli sbagliati e articoli scritti con il cazzo dentro la penna. E in questi ultimi Feltri (e quelli di cui fieramente si fa portavoce) è un maestro. L’Ordine dei giornalisti non ha niente da dire?

Leggi anche: Il triste declino di Vittorio Feltri: da erede di Indro Montanelli a provocatore pro-Salvini (di F. Bagnasco)

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Azzolina ha ragione: riaprire tutto ma tenere chiuse solo le scuole è semplicemente assurdo

Si parla di tutto. Regali, negozi, centri commerciali, cenoni, spostamenti, virgole per descrivere chi siano i congiunti abbastanza congiunti e quando ci si può spostare e dove: la discussione che si infiamma sul Natale finge di volere essere parareligiosa e invece si fionda sui modi per permettere di spendere soldi, di incassare soldi, di spostare soldi. Per carità, va bene anche così: i soldi sono lavoro e sopravvivenza di alcune attività (ma siamo sicuri che poi non finiscano nelle tasche dei soliti noti che da questa pandemia ci hanno pure guadagnato?) ma ciò che stupisce, o forse non stupisce più nemmeno, è che dal dibattito sia scomparsa ancora una volta la scuola. Ancora.

Qualcuno timidamente prova a ricordarlo (il coordinatore del Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo lo ripete da giorni) e la ministra Azzolina prova a insistere, ma niente. Badate bene: l’apertura delle scuole non è un vezzo italiano, no: le maggiori organizzazioni delle Nazioni Unite come Who, Unesco e Unicef, oltre che le decisioni di Paesi come Francia, Regno Unito e Germania concordano sul fatto che l’apertura delle scuole sia un obbligo da perseguire con cura e attenzione, un bisogno primario per tenere in piedi la salute e lo sviluppo delle generazioni di ragazzi, un dovere di Stato per evitare gravi ripercussioni psicofisiche, sociali e culturali su intere generazioni che in questa pandemia sono retrocesse nella lista delle priorità.

Andare a scuola non significa semplicemente prendere parte a una lezione, andare a scuola significa spesso vivere il momento più importante di formazione e di socialità per crescere nella propria identità. Eppure le scuole continuano a essere trattate come un disturbo burocratico a cui tendere poco la mano, qualcosa di sacrificabile in nome dell’economia che si deve muovere e deve crescere. Se davvero la preoccupazione è la salute dei cittadini (nel senso più ampio del temine) allora viene difficile giustificare un lockdown generalizzato in cui tutti si spostano, per lavoro, mentre i ragazzi rimangono confinati in un limbo.

Si parla delle riaperture prossime per fare cassa e la scuola scivola forse all’11 gennaio. Quando forse poi ci diranno che gli acquisti compulsivi natalizi hanno riacceso la terza ondata e si tornerà al punto di partenza. E in tutto questo fluire di previsioni continua a mancare il danno, grave e difficilmente reversibile, di chi, insieme agli anziani, vive tutto questo come una forzata clausura: i giovani. “I dati ci dicono che i contagi in età scolastica non sono significativamente diversi da quelli di altre classi di età e non abbiamo evidenze per capire se siano avvenuti a scuola o fuori”, dice Miozzo. Ma sembra non interessare a nessuno.

Leggi anche: 1. “In Puglia rischiamo una nuova Bergamo, dovremo scegliere chi intubare”: parla il presidente dei rianimatori / 2. Crisanti a TPI: “A mettere in dubbio il vaccino è il Ceo di Pfizer che vende le sue azioni, non io”/ 3. Esclusivo TPI. Tutti chiusi in casa, ma non l’ordine dei medici di Roma. La denuncia: “Ci sono le elezioni e il presidente vuole far votare 43mila colleghi in presenza”

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Berlusconi, ancora, torna

Piccoli segnali di un riavvicinamento che continua a essere nell’aria: il provvedimento salva Mediaset è un emendamento confezionato su misura per l’azienda di Silvio Berlusconi, proprio come ai bei (brutti) tempi in cui l’azienda del leader di Forza Italia e il suo destino giudiziario erano il centro di tutta l’attività politica. L’ha firmata la senatrice del Pd Valeria Valente e poi quando è scoppiata la vicenda (poco, a dire la verità) il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli (badate bene, uno di quei grillini che Berlusconi lo vedevano come fumo negli occhi) ha dovuto ammettere di avere scritto lui la norma, anche se ha scaricato parte della “colpa” sul ministero dell’Economia guidato da Roberto Gualtieri. In sostanza lo scopo è quello di neutralizzare i voti di Vivendi, la holding azionista di Mediaset, per non disturbare la strategia aziendale della famiglia Berlusconi. Ben fatto.

Lui, Silvio, gioca a fare il moderato (e gli viene facile, di fianco a Meloni e Salvini) e punta all’empatia come ai vecchi tempi. Se notate nessuno ci dice che potrebbe essere “utile”, vorrebbero farci credere che sia diventato “inoffensivo” come se questo bastasse a cancellare tutti i disastri contro la democrazia che ci ha lasciato nei suoi anni di attivismo politico. È un moto basato su una sorta di “perdono” e che serve soprattutto ad avere i senatori che permettano di essere tranquilli con i numeri e aprire la trattativa sull’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.

Che nel bel mezzo dei morti, dei danni di certo populismo, della fame che attanaglia le persone, dell’incertezza, dei soldi che mancano per arrivare a fine mese, dei lavoratori che faticano a poter immaginare il proprio futuro, del paternalismo a quintali che ci viene riversato ogni giorno, si giochi per riavviarsi a Berlusconi curando gli interessi della sua azienda è qualcosa che avrebbe fatto strepitare gli strepitanti a lungo. Solo che in questo caso gli strepitanti sono suoi alleati e quindi si rimettono a cuccia mentre gli altri sono al governo. E Berlusconi, ancora, ritorna.

Buon lunedì.

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