Corleone sciolta per infiltrazione mafiosa ma Fabrizio Feo sottolinea anche altri (brutti) accadimenti recenti:
«Ma c’è qualcos’altro che non va sottovalutato. A Corleone, ancora una volta, negli ultimi mesi qualcuno, al grido di “vogliono criminalizzare una cittadina e una comunità”, ha fatto ricorso prima al vittimismo e poi a vere e proprie bordate contro chi raccontava i fatti. Un fuoco di sbarramento cominciato anche prima dello scioglimento del Consiglio Comunale, in occasione di una processione e della segnalazione fatta alla Procura dalle forze dell’ordine a proposito dell’inchino della statua di San Giovanni Evangelista davanti alla casa di Totò Riina e Ninetta Bagarella. Quando Salvo Palazzolo, giornalista di Repubblica, attento e coraggioso, profondo conoscitore del fenomeno mafioso, aveva pubblicato la cronaca della processione erano fioccate minacce di querela. Quando poi Dino Paternostro, giornalista e dirigente sindacale responsabile della Legalità per la Cgil di Palermo, aveva postato su Facebook l’articolo di Palazzolo erano volati anche gli insulti. Ed era sceso in campo anche il genero di Totò Riina, Tony Ciavarello, che aveva commentato: “Buffone lei e il suo collega che ha scritto l’articolo”. Un’uscita intollerabile, indecente.
E invece il lavoro di Salvo Palazzolo e dei giornalisti che come lui hanno tenuto gli occhi ben aperti su Corleone è un aiuto prezioso e insostituibile proprio per la stragrande maggioranza di cittadini onesti, che in questi anni hanno scelto se non di contrastare il fenomeno mafioso, almeno di prenderne le distanze tagliando i ponti con Cosa Nostra e con i mafiosi, quelli con tanto di pedigree e quelli che mostrano molte maschere, una per ogni occasione.»
«Mafia e chiesa. Ci risiamo. E questa volta accade in quel paese siciliano tanto conosciuto al mondo a causa dei vari Navarra, Leggio, Provenzano, Riina. Già, Riina. E forse non è un caso che dopo l’”inchino” della Rai e di Vespa al figlio del capo dei capi, ora leggiamo dell’”inchino” della statua di San Giovanni Evangelista davanti casa di Ninetta Bagarella. Maggiori dettagli li trovate qui e qui ma sappiamo che il commissario di polizia e il maresciallo dei carabinieri, che erano presenti, hanno subito lasciato la processione e inviato una relazione alla procura distrettuale antimafia.
La devotissima famiglia Riina ha sempre goduto di particolari privilegi da parte di alcuni uomini di chiesa. Dal matrimonio tra la Bagarella e il latitante “Totò” Riina, celebrato in gran segreto da tre parroci (tra cui Agostino Coppola), alla raccolta firme promossa da Catarinicchia, oggi vescovo emerito di Mazara del Vallo, per protestare contro il presunto accanimento giudiziario nei suoi confronti (la Bagarella era stata proposta per il soggiorno obbligato dopo essere stata licenziata dalla scuola in cui insegnava). A distanza di qualche anno il parroco è intervenuto dicendo: “mai e poi mai ho raccolto o promosso raccolte di firme”.»
È inevitabile che le minacce ad Angelino Alfano creino un’onda di vicinanza così trasversale: in questa Italia del grande partito della nazione con tutti dentro sia da destra che da sinistra ormai anche le reazioni hanno un senso unico maggioritario. Ed è un’ottima notizia l’arresto di alcuni componenti di Cosa Nostra, per di più nella significativa Corleone e con vicino l’ologramma di Totò Riina che certamente conferiscono alla notizia tutta quella bella potabilità internazionale per meritarsi qualche riga anche sui media stranieri.
Andiamo con ordine: l’operazione dei Carabinieri “Grande Passo 3” ha portato all’arresto di 6 persone a Corleone, ritenuti gli “eredi” dello storico boss Totò Riina e “guidati” da Rosario Lo Bue, fratello de più fidato fiancheggiatore di Bernardo Provenzano. Come scrive più ampiamente qui Biagio Chiarello, gli arrestati avrebbero avuto in mente un piano che prevedeva l’eliminazione fisica del Ministro dell’Interno Angelino Alfano da attuarsi duranti uno dei suoi viaggi elettorali in Sicilia.
Fin qui tutto bene. Ma, dicono le carte della Procura, Angelino Alfano doveva essere ammazzato sì perché ha inasprito le condizioni di detenzione al 41 bis, ma anche perché, dice Pietro Masaracchia “chi minchia glielo ha portato allora qua con i voti di tutti… degli amici… è andato a finire là… insieme a Berlusconi ed ora si sono dimenticati di tutti…”. Non bisogna ordire complicate interpretazioni per capire che gli uomini di Cosa Nostra si sentano più traditi che perseguitati. Insomma, in un Paese normale, oltre che la normale vicinanza e solidarietà si assisterebbe per lo meno a qualche balzello simulato dei componenti di Governo leggendo che i presunti (e poco credibili) capi di Cosa Nostra esigerebbero un credito dall’attuale Ministro dell’Interno della repubblica Italiana. Non è forse questa la notizia che stordisce più di tutto il resto? Delle due l’una: o i picciotti cortonesi sono dei mitomani millantatori (e questo è un bene per la sicurezza del Ministro) oppure sono credibili in tutte le parti dei loro discorsi (e questo è un male per il Paese). Tertium non datur.
Quattro persone sono finite in manette a Corleone anche grazie alle dichiarazioni di un imprenditore, stanco di pagare 500 euro al mese per poter lavorare. Si chiama “Grande passo 2″ l’operazione dei Carabinieri della compagnia di Monreale ed è la seconda tranche di quella già messo in atto a settembre dai militari dell’Arma, coordinata dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Sergio Demontis e Caterina Malagoli.
Già in quell’occasione, Cosa nostra subì un brutto colpo, vedendo i suoi vertici azzerati in diversi paesi dell’hinterland, fra cui Corleone, Misilmeri, Belmonte Mezzagno e Palazzo Adriano.
E anche stavolta, le indagini, sviluppate attraverso attività tecniche e servizi di osservazione e pedinamento, ma anche grazie alla collaborazione di vittime di estorsioni, hanno permesso di ricostruire e delineare ancor meglio l’intero assetto della famiglia mafiosa di Palazzo Adriano, di quella di Corleone e i rapporti del mandamento con quelli limitrofi, nel dettaglio con la famiglia mafiosa di Villafrati.
Nello specifico, grazie alla ricostruzione di ruoli e compiti degli associati alle varie famiglie mafiose, la maggior parte dei quali non ancora individuati con la precedente operazione di servizio, sono stati arrestati: Pietro Paolo Masaracchia, 65 anni, e Antonino Lo Bosco, 75 anni entrambi diPalazzo Adriano; Francesco Paolo Scianni, 54 anni, di Corleone e Ciro Badami (detto Franco),69 anni di Villafrati.
Badami, era stato già tratto in arresto nell’ambito di un’altra operazione antimafia con la quale si intercettò il complesso circuito che consentiva lo scambio di comunicazioni e direttive tra l’allora capo dei capi di cosa nostraBernardo Provenzano e i rappresentanti delle famiglie mafiose di Bagheria, Baucina, Belmonte Mezzagno, Casteldaccia, Ciminna, Villabate e Villafrati.
Scianni è ritenuto dagli investigatori un uomo di fiducia e fiancheggiatore di Antonino Di Marco, già arrestato nell’ambito dell’operazione Grande Passo del 2014 e utilizzato da questi per mantenere i contatti per la riscossione delle estorsioni e come anello di congiunzione con un’altra famiglia mafiosa.
Si trovava già in cella perché coinvolto pure lui nell’operazione “Grande Passo”, Masaracchia, ritenuto il capo della famiglia mafiosa di Palazzo Adriano. Il quarto arrestato, Antonino Lo Bosco, è ritenuto dagli inquirenti in contrapposizione proprio con Masaracchia
Le estorsioni
Nel corso delle indagini sono stati ricostruiti quattro nuovi casi di estorsione, ai danni di imprenditori impegnati nel settore dell’edilizia e del commercio, sia nelle fasi dell’apertura che della gestione degli esercizi commerciali.
Per la prima volta è stata constatata la preziosa collaborazione delle vittime che hanno offerto il loro contributo: “Ero stanco di pagare 500 euro al mese – ha detto uno degli imprenditori vessati – e alla fine sono stato anche costretto a chiudere la mia attività”. Non si tratta, però, di una denuncia, perché all’inizio era stato lo stesso imprenditore ad andare dai boss per chiedere uno sconto sul pizzo da versare alle cosche.
Il muro di omertà degli imprenditori e dei commercianti ha ceduto di fronte all’operato repressivo svolto negli ultimi tempi e le vittime hanno così deciso di raccontare senza alcun riserbo il meccanismo di pagamento del “pizzo”. Le indagini hanno messo in luce un singolare radicamento delle competenze a esigere il “pizzo”: l’imprenditore o il commerciante è chiamato a versare le somme estorte sia alle famiglie mafiose presenti nel proprio paese di origine sia a quelle operative nelle aree ove l’attività economica si svolge.
Inoltre, mentre con l’operazione Grande Passo era stato possibile documentare come le vittime privilegiate dei boss fossero quegli imprenditori impegnati nell’esecuzione di appalti pubblici, ora è stato appurato come il metodo estorsivo possa essere applicato anche ai singoli esercizi commerciali o per l’esecuzione di lavori di edilizia privata.
Peraltro, un imprenditore era stato costretto a pagare per due volte il pizzo relativo allo stesso lavoro rispettivamente a due esponenti mafiosi in contrapposizione tra loro. Ancora una volta è stato accertato come uno dei principali canali di sostentamento delle consorterie mafiose è rappresentato proprio dalle estorsioni, commesse ora anche nei confronti di attività economiche di privati.
Confindustria
“Per la prima volta nell’ex regno dei boss Riina e Provenzano, gli imprenditori hanno avuto la forza di rompere il muro di omertà e dire basta, denunciando i propri estortori. Un segnale di enorme valore e un grandissimo cambiamento culturale che conferma come il seme della ribellione continui a dare i suoi frutti”. Questo, il commento di Antonello Montante, delegato nazionale per la legalità e presidente di Confindustria Sicilia: “Un plauso particolare va alla Dda di Palermo che ha coordinato l’indagine, al procuratore aggiunto Agueci, ai sostituti Demontis e Malagoli, e al comando provinciale dei Carabinieri. Questa è la dimostrazione che il fenomeno delle estorsioni è ancora in atto. Tanto è stato fatto da magistratura e forze dell’Ordine, ma tanto c’è ancora da fare”.
[…]
Sono quattro le estorsioni finite nelle maglie dell’inchiesta “Grande Passo 2”, con la quale i carabinieri hanno ricostruito il giro del pizzo nei territori di Bolognetta, Misilmeri, Villafrati e Palazzo Adriano, appartenenti al mandamento mafioso di Corleone.
I taglieggiati sono titolari di concessionarie d’auto e imprenditori nel settore dell’edilizia. Quel che emerge dall’attività d’indagine dei militari dell’Arma è che nel territorio di Palazzo Adriano, ad esempio, avrebbero operato due boss rivali: Pietro Paolo Masaracchia, già coinvolto nell’operazione “Grande Passo” dello scorso anno, e Antonino Lo Bosco. Entrambi si sarebbero dedicati alla raccolta del pizzo e così, in un caso, dalle intercettazioni emerge che per “mettersi a posto” uno stesso imprenditore avrebbe versato 4 mila euro a Masaracchia e un’uguale somma anche a Lo Bosco.
In un’altra occasione, un imprenditore di Bolognetta, per aprire una concessionaria di autovetture avrebbe dovuto versare ai boss un importo iniziale e successivamente un “canone” mensile di 600 euro. I proventi di questa imposizione, così come confermato sia dall’imprenditore che dalle indagini, sarebbero stati incassati da Ciro Badami, già coinvolto nell’operazione “Grande Mandamento” del 2005 e appartenente alla famiglia mafiosa di Villafrati.
I metodi usati dagli esattori del pizzo verso gli imprenditori taglieggiati erano di natura “amicale”, e confidenziale. Quel che emerge, inoltre, è che non si tratta di imprenditori che hanno denunciato, ma che hanno parlato solo successivamente, una volta esser stati messi davanti al fatto compiuto dagli investigatori. In un’occasione, poi, uno degli arrestati avrebbe detto all’imprenditore preso di mira che sarebbe bastato versare cifre modeste e quest’ultimo avrebbe anche provato a farsi fare un ulteriore “sconto” sulle somme da versare:
“Per metterti in regola, non stiamo parlando di cifre aite ah! Tu ti devi calcolare mensilmente 500 euro….”
A quel punto, l’imprenditore, risponde: “La condivido (l’estorsione) da un punto di vista proprio morale, no da un punto di vista di speculazione…”, spiegando di non essere contrario al pagamento, ma solo all’importo, da lui ritenuto eccessivo, chiedendo appunto di poter avere l’agognato “sconto” sull’importo da devolvere alla famiglia mafiosa:
IMPRENDITORE “Non la possiamo gestire almeno un po’ meno, di questo importo?”.
Una richiesta rispetto alla quale, l’emissario dei boss rimane fermo sul quantum e argomenta le sue “ragioni”, elencando una serie di imprenditori che già pagavano puntualmente cifre molto più onerose.
ESATTORE: “S.L. paga 1200 euro, C.S. invece paga 1000 euro al mese, mentre P. versa 700 euro al mese, e un altro ancora 800 euro mensili”.
Il mafioso sottolinea, quindi, che il trattamento che la famiglia mafiosa sta riservando a lui (500 euro) è molto favorevole:
“Non è che sono bugie, quindi questa cifra, è una cifra vergognosa (irrisoria) per quello ché. l’hai capito il discorso?”
La conversazione poi prosegue sulle modalità di pagamento, l’imprenditore, infatti, non sapendo ancora che volume di affari riuscirà ad ottenere con la sua attività, richiede di adeguare la cifra in base ai guadagli o quantomeno di poter avere una dilazione del pagamenti in due rate all’anno di 2.500 euro ciascuna, ma il mafioso ribadisce che non è possibile e che l’impegno è da considerarsi a scadenza “mensile”.
“Dopo qualche giorno – ha poi raccontato l’imprenditore ai carabinieri – si presentarono da me all’autosalone di Bolognetta, Antonino Di Marco e Nicola Parrino, i quali mi dissero che per sistemare la messa a posto per l’apertura del mio locale, avrei dovuto prendere contatti e fissare un appuntamento con Franco Badami di Villafrati, che fino ad allora non conoscevo”.
E ancora, “Poco dopo aver aperto la mia attività, nel mese di dicembre, se non ricordo male, si presentò al mio concessionario un signore anziano con un foulard al collo. Questi, arrivato a bordo di una specie di motozappa, si presentò da me e si informò se avessi pagato la messa a posto alla locale famiglia mafiosa per l’apertura della mia attività, lo risposi di si, avendo ovviamente già preso accordi con i due per pagare la messa a posto a loro. L’uomo a nome zio Pietro, dal quale ho appreso in un secondo momento fosse di Bolognetta, ottantenne circa, mi chiese con chi mi fossi messo a posto ma io non glielo specificai”.
Conflitti fra boss, che si sarebbero tradotti in doppie imposizioni di pizzo ai medesimi imprenditori, i quali, per evitare di scontentare i vari esattori che si presentavano di volta in volta, pagavano due volte.
Nell’operazione, poi, viene anche fuori il ruolo di Francesco Paolo Scianni, incensurato dipendente provinciale. Dalle indagini emerge che avrebbe ricoperto un ruolo attivo nella consorteria mafiosa, partecipando a molteplici riunioni e trattando anche con esperienza diversi argomenti relativi alla gestione della stessa famiglia. Nello specifico, avrebbe partecipato anch’egli alla raccolta del pizzo, ponendosi, in un caso, anche con un ruolo decisamente attivo nella mediazione con il capo famiglia di Villafrati Ciro Badami, perché legato a lui da un rapporto di parentela.
Totò Riina, il capo di Cosa nostra rinchiuso al 41 bis, poteva contare ancora su un gruppo di fedelissimi nella sua Corleone. Il più autorevole era l’insospettabile custode del campo sportivo, Antonino Di Marco, 58 anni: il suo ufficio di dipendente comunale era diventato un covo perfetto per i summit. Lì si discuteva di appalti, estorsioni e campagne elettorali. E nessuno sospettava che quella stanza fosse intercettata 24 ore su 24 da telecamere e microspie piazzate di nascosto dai carabinieri della Compagnia di Corleone. Così, per mesi, i fedelissimi di Riina sono finiti dentro un “grande fratello” che ha svelato molti dei loro segreti. E all’alba sei persone sono state arrestate sulla base di un provvedimento di fermo emesso dai pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo Sergio Demontis, Caterina Malagoli e dal procuratore reggente Leonardo Agueci.
Di Marco portava spesso al suo clan i saluti di Salvuccio Riina, il terzogenito del capo di Cosa nostra che adesso vive a Padova dopo aver finito di scontare una condanna. E impartiva lezioni di mafia: “Noi siamo una famiglia – ripeteva – C’è bisogno di serietà, educazione e rispetto”. Raccontava di quando, giovanissimo, aveva ricevuto un sonoro schiaffone da Bernardo Provenzano, per una parola fuori posto pronunciata durante un pranzo importante. “Mi ha insegnato che bisogna avere le braccia aperte a tutti”, così il dipendente comunale boss spiegava a chi voleva escludere in modo drastico dal clan alcuni mafiosi ritenuti non in linea con la maggioranza. Di Marco era davvero un fedelissimo di Riina: suo fratello Vincenzo aveva fatto da autista alla moglie del capo di Cosa nostra, Ninetta Bagarella, era stato ripreso con lei dalle telecamere del Ros pochi giorni prima del blitz del 15 gennaio 1993. “Noi dobbiamo essere con la gente, con chiunque”, predicava ancora Di Marco. E’ quasi uno slogan per la nuova Cosa nostra, disposta a mettere da parte vecchie regole e abitudini pur di tornare ad essere dentro la società e i palazzi che contano. Così, Di Marco aveva anche accettato che la figlia si fidanzasse con un sottufficiale dei carabinieri. Era più importante essere un insospettabile. Così, diceva il braccio destro del nuovo boss di Corleone: “La gente deve avere il dubbio, mai la certezza di chi comandi”.
Le intercettazioni dei carabinieri hanno svelato che l’ultimo ambasciatore di Totò Riina a Corleone aveva costituito una sorta di personalissimo feudo nel vicino comune di Palazzo Adriano. Faceva da supervisore al clan locale, perché in quel territorio Cosa nostra gestiva affari importanti. Appalti soprattutto, grazie alla complicità di funzionari collusi. Le microspie hanno fatto emergere anche il particolare attivismo dell’organizzazione mafiosa per l’elezione dell’attuale sindaco di Palazzo Adriano, Carmelo Cuccia. Di Marco è stato pedinato dagli investigatori mentre andava a Palermo per incontrare il primo cittadino. In auto, preparava il discorso: “Come in periodo di elezioni, come che sei sindaco, come che tu hai bisogno di qualunque cosa, però io ho bisogno pure di te”.
La procura distrettuale antimafia sostiene che il gruppo legato a Di Marco si sarebbe mosso anche per la campagna elettorale di un esponente dell’Udc, Nino Dina, attuale presidente della commissione Bilancio dell’Assemblea regionale siciliana. Un altro pedinamento ha ripreso Di Marco mentre entra nella segreteria politica del deputato, a Palermo.
L’insospettabile custode del campo sportivo di Corleone si atteggiava a grande tessitore di relazioni. Il suo ultimo affare è stato davvero una sorpresa per gli investigatori: il clan di Corleone gestiva alcuni terreni della Curia di Monreale, in contrada Tagliavia. Le intercettazioni dicono che era stato addirittura Salvatore Riina a concedere questo privilegio ai Di Marco, come ricompensa per i servizi resi.
“Siamo intervenuti registrando diverse pressioni sugli imprenditori locali – dice il tenente colonnello Pierluigi Solazzo, comandante del Gruppo Monreale – adesso ci auguriamo che gli operatori economici vessati possano collaborare, per ricostruire pienamente quanto accaduto”.
Con Di Marco sono stati arrestati Pietro Paolo Masaracchia (ritenuto il capomafia di Palazzo Adriano), Nicola Parrino, Franco e Pasqualino D’Ugo.
di Salvo Vitale – 3 settembre 2009
Ci sono vari tipi di antimafia: mi soffermo su alcuni:
1) L’antimafia di facciata, è la più diffusa: manifestazioni formali, commemorazioni in occasione di ricorrenze (nascite, morti, partecipazione ad eventi, intestazioni di strade, convegni ecc.). E’ l’antimafia tutto fumo e niente arrosto, nel senso che basta impegnare pochi soldi (amplificazione, locale, spese di viaggio e di soggiorno per i relatori per promuovere l’immagine di un’amministrazione seriamente impegnata in questo campo, attraverso la diffusione della notizia sul giornale o in tv. Qualche presenza del politico di turno assicura più visibilità e più parole inutili. I risultati d queste attività sono pressocché nulli se non rafforzati da momenti di riflessione e da azioni d’intervento sul territorio. Da questa antimafia i mafiosi non si sentono disturbati, anzi condividono o promuovono la partecipazione di loro simpatizzanti alle iniziative, onde avere un alibi.
2) L’antimafia talebana: è quella di chi vede mafia e interessi mafiosi dappertutto, quella di chi su un saluto, su una parentela, su una frase avulsa dal suo contesto, scopre collusioni mafiose con i politici, loschi affari che nascondono chissà quali oscure trame. Si mettono assieme le più disparate notizie che possono avere una qualche connessione, per elaborare analisi indimostrabili, utili comunque a gettar fango sul proprio avversario politico o sul proprio nemico personale. Molti personaggi di primo piano, soprattutto a sinistra, hanno fatto parte di questa antimafia, finendo con il generalizzare in un unico calderone categorie sociali e persone che nulla avevano a che fare con la mafia. Personalmente ritengo di essere appartenuto anche io, in altri tempi, a questa categoria, quando, ai tempi di Peppino Impastato, ritenevo che “Scudo crociato- mafia di stato” o che ” D,C.+P.C.I= mafia”. C’erano allora certamente molti mafiosi nelle D.C. così come ora nell’UDC e nel PDL, alcuni anche nel PD, senza per questo dover concludere che tutti quelli che fanno politica sono mafiosi o collusi. “Se tutto è mafia niente è mafia”, diceva Sciascia. E questa sorta di smania di trovare “connessioni mafiose” dovunque, ricorda per certi aspetti l’integralismo dei talebani afghani. Quindi due tipi di “talebaneria”: quella sincera e radicale, chiusa in una completa intolleranza e nel rifiuto totale del sistema, quella che utilizza o strumentalizza presunte collusioni come mezzi utili a qualche strategia politica. E qua passiamo già alla successiva tipologia,
3) L’antimafia strumentale: l’uso dell’antimafia come strumento per far carriera. Sciascia, a suo tempo, bollò come “professionisti dell’antimafia” anche Falcone e Borsellino, accorgendosi, solo molto più tardi e dopo la loro morte, di avere sbagliato bersaglio. Per un magistrato che cura particolari inchieste, è facile costruire una cornice in cui l’impegno personale si media con la carriera professionale. Anche il politico può servirsi di quest’arma con intelligenza, favorendo le associazioni antimafia, assegnando loro beni confiscati, plaudendo alle operazioni delle forze dell’ordine quando smantellano organizzazioni malavitose presenti sul proprio territorio, o esprimendo solidarietà nel caso di attentati. Sull’esistenza di un autentica volontà antimafia si può avanzare qualche dubbio, anche se non mancano risultati eclatanti.
4) L’antimafia passiva, che comprende una “maggioranza silenziosa”, ostile alle prepotenze, desiderosa di vedere l’alba di una nuova Sicilia, ma che sopporta tutto e si adatta al sistema per mancanza di coraggio. “Pi amuri di la paci ognunu taci- e supporta la mafia in santa paci” , cantava Otello Profazio. Difficile catalogare come antimafia questa forma di accettazione passiva, specie quando è determinata dall’idea che nulla cambia o potrà cambiare l’attuale assetto di vita: non c’è miglior terreno di cultura della mafia che la conservazione dello stato di cose che ne costituisce il naturale brodo di coltura. Un passaggio più avanzato è l’accettazione determinata dalla paura: a nessuno piace subire la violenza, assoggettarsi al pagamenti del pizzo per evitare ritorsioni che possono arrivare alla rovina di un’attività. Lamentarsi non basta, ma c’è già qualche luce di ribellione, o comunque, di presa di distanza.
5) Più consistenza ha l’antimafia militante, cioè quella di coloro che dedicano il proprio tempo e la propria vita a lavorare per l’eliminazione di questo triste fenomeno del sottosviluppo meridionale: quella di coloro che vanno nelle scuole, che scrivono inchieste coraggiose su alcuni giornali, che creano associazioni e promuovono iniziative di formazione e di lotta, anche spontanee, contro chi usa il potere per ricattare la gente impedendole di scegliere liberamente il proprio futuro. E l’antimafia di amministratori che si attivano per utilizzare i terreni confiscati ai mafiosi, quella dei docenti che elaborano progetti di educazione alla legalità ( non sempre efficaci), quella dei pochi giornalisti pronti a rendere note le collusioni con la politica e i giri d’affari illegali, mentre gran parte dei loro colleghi preferiscono scaldare le sedie con inutili servizi sulle vacanze, sui prezzi, sull’enalotto, sui meriti e i miracoli del loro padrone e dei suoi amici, ecc.
E’ un gioco antico (ma non per questo meno doloroso) il dubbio che cammina sul bordo della delazione per le vittime di mafia. E’ la ginnastica suicida di un paese che non riesce nemmeno a lasciare in pace la propria memoria, quella più violenta e infame che di solito finisce sotto un lenzuolo. Che l’onorevole Pecorella decida o meno di ripassare il brillantante su “l’eroico” Vittorio Mangano o altri è una liturgia che potremmo aspettarci, come pure che tutto passi latente e indolore come si conviene ad un paese bengodiano che indossa sempre la maschera del martire per celebrare i funerali con tanto fumo da offuscare il ricordo dei fatti; ma che, ancora una volta, si condisca il cadavere di un giusto con l’olio e le feci del dubbio è e deve essere inaccettabile.
Ho sentito la prima favoletta detrattrice su Don Peppe Diana mentre l’auto blindata mi portava dentro le viscere polverose di Casal di Principe pochi mesi fa, mi dicevano di questa consonanza di cognome con famiglie di camorra e alludevano alle armi nascoste in sacrestia. Mi si è chiuso lo stomaco. Alludevano con l’occhio peloso delle malignità che riuccide, con quella mano che indica e subito si ritira, con l’impunità di un momento storico per la responsabilità alla deriva dove non dimenticare è reazionario, raccontare i fatti prima delle opinioni è desueto e vigilare un privilegio che ci viene generosamente accordato. La delazione invece (meglio ancora se esercitata nella sua forma più pavida della insinuazione) è un esercizio gratuito e per tutti che saltella popolare dai bar e dagli uffici fino ad arrampicarsi tra i pensatori maximi sbrindellati e cicciottelli nei consigli comunali e ancora più su. In un democraticissimo e trasversale turbine di livore, invidia, noia e bassezza d’animo che defeca dubbio.
Il dubbio è la pratica culturalmente mafiosa più abusata dalla società civile per isolare i vivi e riseppellire i morti. E’ uno schiaffo infame perchè non appartiene a nessuna mano, nessuna faccia ma arriva come un’ombra quasi sempre di rimbalzo dalla piazza. E’ la solitudine di dover rispondere a qualcuno non si sa chi che ti preme dentro il cervello e ti esplode nell’inimmaginabile assurdità di doversi difendere dopo essere già stato colpito o, peggio, proprio per scontare la colpa essere stato attaccato.
Una pratica che hanno esercitato con arte i corleonesi contro i magistrati, la camorra contro Don Peppe Diana, i suoi stessi colleghi contro Giovanni Falcone, la finanza deviata contro Giorgio Ambrosoli e poi Mauro Rostagno, Peppe Fava, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rita Atria, Antonino Scoppellitti… l’elenco sarebbe lunghissimo e doloroso come nessuna nazione mai si meriterebbe. E poi ci sono i vivi: Roberto Saviano, Pino Maniaci, Rosario Crocetta, Vincenzo Conticello, Piera Aiello, Pino Masciari, Lirio Abbate… e anche questo sarebbe lunghissimo e doloroso come nessuna nazione mai si meriterebbe.
Caro onorevole Pecorella, legga di fila quei nomi e scoprirà un unico denominatore: sono nomi che alla sera, da vivi e da morti, si saranno chiesti se è normale doversi difendere non solo dai nemici dichiarati (che fanno parte del gioco) ma soprattutto da questo vento di isolamento che nasce dall’insinuazione. E ci aiuti anche lei, per il ruolo istituzionale che ricopre, a fare in modo che i fatti riprendano il posto e la forma dei fatti, le opinioni non tracimino dalle sponde del rispetto e i professionisti della delazione possano continuare a masturbarsi la propria povertà nella solitudine da wc che si meritano.
La solitudine da scontare sia solo cosa loro per il 41 bis.
Che settimana con le bollicine giù a Mafiopoli: la settimana dell’avvento, dell’avvento brulicante di ingabbiati sotto le palle di albero e di letterine, letterine a Babbo Natale dei figli dei boss. Una settimana da tiggì mafiopolitano.
Si comincia da Catania, arrocco cittadino degno di capologuità, la Catania leonessa del racket istituzionale con 140 milioni di eurozzi scuciti dal Macchiavellico senza neanche un avvertimento sulla saracinesca. 140 milioni di aiuto dallo stato! Dicono i benigni, per tutelare e garantire la città! Come le risposte dei migliori modelli di commercianti sotto racket. Un tripudio. Un trionfo. Hip hip urrà. E mentre i Santapaola, della cosca di Santo Pirla (protettore degli usurai), festeggiano l’assegno postdatato in arrivo dal pirlamento, a guardie e ladri ci rimettono ventiquattro picciotti caricati sul cellulare dei carabinieri e insardinati a calcinculo. E i 24 a partire per il gabbio facendo ciao ciao con la manina, anzi 23 +1, 1 l’assessore ai servizi sociali di Paternò (e spirito San) Carmelo Frisenna. Che da servizi servizievole com’era per il sociale s’è confuso per sbaglio e un po’ mafioposcurato. Come nella migliore tradizione della zona del partito partitico di Sgozza Italia.
A Palermo arrestano arrestati Sasso, Marchese, Pecora, Perrone e Fiumefreddo non solo per i cognomi da Re Magi ma anche per aver lavato in lavatrice i soldini del rotolante Antonino Rotolo per gli amici Rotolino. E ciao ciao con la manina, saluti e baci e le faremo sapere. Buon Natale, anche ai suoi.
Intanto l’aria natalizia e soprattutto sacrale del periodo dell’avvento riaccende il cero della comunicazione della famiglia Madonia, che come si evince dal cognome è di alte parentele, che per festeggiare le feste come si deve in un paese garantista smistava le letterine per gli aiutanti di Babbo Natale con la Maria Angela di Trapani che smistava e faceva la postina, nonostante la durezza durevole e duratura del carcere duro. Dalle prime trascrizioni sembra che abbiano chiesto regali per una quindicina di milioni di regali alla faccia della povertà imposta dal sacro cognome. Stavo solo facendo le faccende di casa! Si giustifica la Di Trapani mentre fa ciao ciao con la manina e buon natale. Anzi caro Babbo Natale, quest’anno non fare il Babbo di Minchia e se passi da Mafiopoli portaci un nuovo 41 bis, che questo non ci crede più nessuno e non è nemmeno in garanzia. Grazie, prego, tornerò.
Il figlio di ‘U Curtu ha trovato lavoro. Regalo di Natale dell’agenzia di lavoro interinale delle renne in paradiso. Lavorerà a Cernusco sul Naviglio, impiegato di livello a livellare la Longobardia secondo i mandamenti e comandamenti di papà Totò. A Cernusco festeggiano in massa e ricordano gli assenti a messa. Il comitato di benvenuto prepara occhiali nuovi da tronista e un paio di scarpette firmate come nelle fiction di Cenerentola. Le colpe dei padri non cadano sui figli! urla il principe macchivellico mentre si prepara all’inaugurazione del nuovo ponte da Cernusco a Corleone. I figli di chi? Chiedono i famigliari delle vittime di mafia. Ma Mafia Salvuccio non la vuole sentire, lui solo Prada e DolceeGabbana, perchè Mafia (ha raccontato giù al bar) fa jeans da poveretti. E cosa doveva fare? Dicono i benigni. Ha scritto a Babbo Natale che desiderava un lavoro onesto in un paese che finisse in –usco. E sia fatta la sua volontà.
Per non essere da meno Angelo, il figlio di Binnu Provenzano con tanto di nome natalizio, convoca una conferenza conferenziata con tanto di congiuntivi per raccontare che Binnu suo padre è vittima anch’essa di uno stato mafiopilotato statalista e vittimista del vittimevole esser figlio incolpevole garantista della colpevole giustizia giustizilista. Vittima di chi? Chiedono i famigliari delle vittime di mafia. E l’Angelo si avvale della facoltosa facoltà di non spiegare che è concessa giù a Mafiopoli. Buon Babbo Natale, tanto che ci sei fagli scendere dal camino all’Angelo Provenzano quella vecchia e disabituata dissociazione. E una cartolina di Felicetta e di Peppino, forse che gli Impastato gli si impastino in faccia con la stessa forza del lutto e del dolore. Saluti e baci e tanti auguri anche a te. E una cicoria con il fiocchetto per Natale anche a zio Binnu.
Intanto tra le letterine qualche eroe ci mette anche un pizzino d’avvertimento sul furgone parcheggiato. Buon Natale anche a te. Certo. Un buon natale medievale, educato e regale. Un buon Natale alla Radio Mafiopoli.
Solidarietà all’attore dal mondo politico, dello spettacolo e della società civile
Giulio Cavalli, autore, attore e regista teatrale, ha ricevuto l’ennesima, insostenibile, minaccia mafiosa lunedì sera.
Durante le prove del suo spettacolo nel teatro di Tavazzano (Provincia di Lodi), infatti, alcuni sconosciuti hanno imbrattato, il furgone della Compagnia di Cavalli con le scritte “Smettila” con una croce accanto, “Non dimentichiamo” e “Riina Libero” – scritta, quest’ultima, che riprende quelle apparse a Palermo pochi giorni fa.
Non è la prima volta che accade. In aprile Cavalli ha ricevuto una email con minacce di morte e successivamente è stata disegnata una bara sul teatro Nebiolo di Tavazzano, di cui è direttore artistico. Le intimidazioni arrivarono dopo il suo spettacolo “Do ut Des” che ridicolizzava la mafia. A causa di queste e altre minacce da 7 mesi l’attore è sotto programma di protezione anche nelle trasferte per i suoi spettacoli.
Giulio Cavalli è da anni impegnato a teatro contro la mafia, e da tre mesi cura una rubrica, RadioMafiopoli, in onda su AgoraVox Italia e FascioeMartello, che si rifà a Onda pazza, la trasmissione di Peppino Impastato, dove l’attore disonorava la mafia. Nella penultima puntata di RadioMafiopoli (12 novembre) l’attore si scagliava contro il boss Totò Riina e probabilmente a qualcuno, questo, non è piaciuto.
Nel frattempo arrivano i primi attestati di solidarietà da parte del mondo civile, dello spettacolo e del giornalismo:
Giovanni Impastato (fratello di Peppino Impastato): “Questi atti sono deplorevoli per una persona impegnata dal punto di vista culturale e artistico che cerca di contribuire a tenere alti i valori della legalità, con la stessa ironia che Peppino, che poi purtroppo è stato zittito, ha portato avanti in quegli anni con la sua trasmissione Onda pazza. L’ironia è un’arma micidiale. Come Giovanni Impastato sono solidale con Giulio Cavalli e cercheremo di stargli vicino in tutti i modi possibili”
Paolo Rossi (attore con cui ha esordito Cavalli): “È un momento molto brutto, ma questo significa che il teatro ha ancora valore e allora su quello bisogna puntare. Tutta la mia solidarietà, tutta.”
Leoluca Orlando (deputato IDV): “Esprimo tutta la mia solidarietà a Giulio Cavalli in questo momento così complicato per le inaccettabili intimidazioni a chi vuole coniugare libertà ed arte a chi vuole denunciare la violenza mafiosa e i suoi inaccettabili legami istituzionali.”
Antonio Ingroia (Sostituto Procuratore di Palermo): “Massima solidarietà e preoccupazione, purtroppo questo segue altri avvenimenti intimidatori come quelli di Partinico nei confronti di Pino Maniaci, e questo dimostra che c’è sempre una maggiore insofferenza delle mafie, non solo contro i giudici, ma anche contro le persone di cultura”
Pino Maniaci (giornalista di TeleJato minacciato dalla mafia): “Giulio Cavalli è un autore e un attore che sta dando tanto alla Sicilia e per questo merita tutto il nostro sostegno. Sono i momenti duri in cui bisogna fare fronte comune per non lasciare che la scure della mafia cada silenziosa. Siamo tutti Giulio Cavalli”
Carlo Lucarelli (scrittore). “È molto inquietante e molto importante quello che è accaduto. Molto inquietante perché in un paese civile non dovrebbe accadere, vista anche la pericolosità dell’organizzazione criminale. È un pezzo che iniziano a minacciare intellettuali e persone che fanno cultura e questo significa che la cultura fa paura, che raccontare le cose inizia a essere importante e ti porta ad essere considerato pericoloso. Non bisogna lasciare solo chi è oggetto di questo tipo di minacce, e allo stesso tempo darci da fare tutti assieme“.
Giuseppe Lumia (Senatore PD ed ex Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia): “La sua battaglia culturale è la nostra e deve essere fatta proprio dallo Stato, dalla parte dello stato che si vuole finalmente liberare dalla mafia. Riina padre e figlio devono essere contrastati in tutti i modi. Col 41 bisRiina padre parla e detta funzioni per la presenza del figlio nel milanese e a Corleone. Per un ragazzo che vuole incamminarsi sulla via di cosa nostra e che vuole scalarne i gradini c’è solo una strada, quella della abiura delle famiglie mafiose e della denuncia. Altre opzioni non ne possiamo concedere.
Sergio Nazzaro (scrittore): “Come volevasi dimostrare: più che i proclami e le grandi dichiarazioni di guerra o analisi sistemiche, trionfa l’ironia. Già, perchè Cavalli prende per il culo la mafia e li riporta a terra, togliendo l’aurea di mitologia che tanti se non troppi celebrano sempre e comunque. Prendere per il culo la criminalità, combattendola con una risata invece che con facce lugubri e pensierose, intellettual’mpegnat’ sempre pronte a spiegare. Radio Mafiopoli oltremodo cerca di dirci qualcosa: con quelle facce che hanno veramente possono tenere sotto scacco una nazione? Con l’aiuto di chi? Chissà se i grandi media daranno spazio presto all’ironia e allo sfottò su scala nazionale contro le mafie, sarebbe un passo di civiltà. Piccolo per il mondo, grande per noi italiani“.
Pino Di Maula (direttore di Left-Avvenimenti): “La redazione di Left Avvenimenti e Notizie Verdi esprime la propria solidarietà nei confronti di Giulio Cavalli e della sua compagnia teatrale per l’ennesimo vigliacco tentativo di azzittire con le intimidazioni le voci libere, indipendenti e coraggiose che denunciano il sistema mafioso attraverso l’arte e la comunicazione esponendosi in prima persona. Come fa, appunto, Giulio“.
Vito Lo Monaco (Presidente “Centro Studi Pio La Torre”): “Il fatto che avvenga a Lodi dimostra come la mafia sia ormai un fenomeno esteso su scala nazionale, conferma quello che diciamo da tempo. La mafia è un problema che riguarda tutta l’Italia non solo la Sicilia. Le politiche del governo quindi devono tener conto di questa cosa e non seguire l’emergenza del momento. Tutto questo in concomitanza con le dichiarazioni del figlio di Riina di trasferirsi al nord sembrano frutto di una strategia ben precisa. Mi associo e do solidarietà a Giulio Cavalli”.
Vincenzo Conticello (Proprietario della Focacceria San Francesco di Palermo): “Grande solidarietà a Giulio che si senta accompagnato da chi, come me, porta avanti in prima persona la lotta al racket e alla mafia. Da un altro punto di vista penso che non bisogna mai abbassare la guardia perché questo silenzio da parte di Cosa Nostra non va mai sottovalutato perché bisogna sopprimere sul nascere qualunque tipo di focolaio mafioso. Se diamo il consenso alle richieste del figlio di Riina, evidentemente, stiamo già cominciando a scardinare le regole“.
Rosario Crocetta (Sindaco di Gela) : “In Italia non si ha la possibilità di fare liberamente arte. Evidentemente sono stati toccati dei nervi scoperti, do la mia solidarietà netta a Giulio e dichiaro sin da ora la mia disponibilità a partecipare ad un incontro pubblico a Lodi insieme a lui per spiegare alla gente del luogo la mafia e la necessità di combatterla”.