Vai al contenuto

corruzione

A Ostia la mafia s’è fatta Municipio

(L’articolo di Fulvio Fiano, per Corriere Roma)

L’ufficio tecnico del municipio di Ostia era il covo della illecita gestione degli appalti pubblici in un tutt’uno con la malavita organizzata. A poco più di due anni dagli arresti che hanno scoperchiato il verminaio arriva il «segnaposto»della sentenza di primo grado a localizzare le stanze di lungomare Toscanelli in una ipotetica mappa della criminalità sul litorale.

Il processo si è concluso con sette condanne e fornisce significativi argomenti al commissariamento del X municipio. Una necessità ribadita due giorni fa dal prefetto Domenico Vulpiani nella sua audizione in commissione antimafia: «Ci sono 200 ricorsi l’anno sugli atti del municipio. Dal 2007 risultano non pagati dai concessionari di beni publici circa 2,5 milioni di euro. Il commercio è calato perché è tornata la legalità». E sottolineata dalla presidente Rosy Bindi: «Mai commissariamento a Ostia è stato più utile e doveroso», anche in risposta alla manifestazione di pochi giorni fa che ha chiesto «il ritorno della politica».

La sentenza è importante perché per la prima volta a un funzionario pubblico dell’amministrazione locale, Aldo Papalini, viene riconosciuta l’aggravante del metodo mafioso per reati commessi in prima persona. Da brand esclusivo dei clan, la mafiosità diventa così un fattore intrinseco alla pubblica amministrazione. E il risarcimento danni, da definire, disposto in favore di Comune, Regione ed associazioni antimafia, restituisce il senso dei danni fatti alla comunità nella quale l’organizzazione faceva da padrona.

E i giudici dell’ottava sezione penale, pur decidendo per pene inferiori alle richieste sostenute anche dall’altro pm della Dda, Ilaria Calò, hanno di fatto riconosciuto questa impostazione. Condannato a 5 anni e 8 mesi Armando Spada, esponente dell’omonimo clan alleato dei Fasciani, che per conto di Papalini «convinceva» gli imprenditori riluttanti a piegarsi. Condannato anche Cosimo Appeso (5,5 anni di reclusione), luogotenente della Marina Militare Italiana e presidente della Proloco Ostium 2020. E poi Ferdinando Colloca, fratello dell’ex consigliere municipale pdl, Salvatore, e a sua volta candidato con CasaPound, Damiano Facioni, amministratore della BluDream, e Matilde Magni, moglie di Appeso, tutti a tre anni e quattro mesi. Infine l’imprenditore Angelo Salzano (otto mesi con sospensione della pena), l’unico a non avere l’aggravante di mafia.

Le imputazioni, fotografate in due anni di indagini (2011-2013) dalla Mobile, i carabinieri di Ostia e Capitaneria di porto, vanno dall’abuso d’ufficio alla turbativa d’asta, dal falso ideologico e concussione, alla corruzione.Ventisei in totale gli indagati ritenuti a vario titolo funzionali al sistema con cui Papalini smistava ad imprese amiche gli appalti del municipio. Dalla (fasulla) bonifica del canale dei Pescatori alle concessioni balneari, dalla manutenzione stradale alla recinzione della spiaggia di Castelporziano.

Mafia e Expo: il filo che da Milano porta a Messina Denaro

Ci sarebbe un filo rosso che porta da Milano a Castelvetrano, o dovunque si trovi Matteo Messina Denaro. Un legame che, secondo i pubblici ministeri della procura lombarda che indagano sulle infiltrazioni di Cosa nostra a Expo, sarebbe rappresentato da Giuseppe Nastasi, imprenditore originario del paese del boss latitante. Per lui ieri l’accusa ha chiesto nove anni di carcere nel processo abbreviato nato dall’operazione Giotto. Gli contestano i reati di associazione a delinquere finalizzata all’agevolazione della mafia e riciclaggio. Ed è proprio l’imprenditore che, intercettato mentre parla col suo braccio destro Liborio Pace (pure lui accusato di essere trait d’union con Cosa nostra siciliana, in particolare con la famiglia di Pietraperzia), si mostra preoccupato per la latitanza di Messina Denaro.

«Lì – dice Nastasi riferendosi a Castelvetrano – si sono scantati, se Mimmuzzo si mette a parlare… ma non parla Mimmo (…) Eh, ma sono terrorizzati, eh? Vediamo… insomma che hanno arrestato uno, quello più vicino diciamo… Un bordello c’è al mio paese». Mimmuzzo sarebbe Domenico Scimonelli, imprenditore attivo nel settore della viticoltura e dei supermercati. Secondo la direzione distrettuale di Palermo è l’ultimo anello della catena di postini che ha permesso le comunicazioni del boss latitante. L’intercettazione che la procura di Milano ha depositato nell’inchiesta su Expo è stata registrata la sera del 23 agosto del 2015. Venti giorni prima Scimonelli è stato arrestato nell’ambito dell’operazione Ermes e sarà condannato a maggio con rito abbreviato a 17 anni di carcere per associazione mafiosa. Nastasi e Pace parlano a bordo di un’Audi dei timori in merito alle possibili rivelazioni che Scimonelli potrebbe fare agli inquirenti rispetto alla latitanza di Messina Denaro. «Ma a quanto pare – risponde Pace – questo è cristiano muto». «No, Mimmo è a posto», replica Nastasi.

Quest’ultimo, come emerge nell’ordinanza di arresto, è ritenuto vicino alla famiglia di Partanna, la stessa di cui Scimonelli sarebbe tra i vertici, nonché fedele alleata dei Messina Denaro. Un legame, quello tra Nastasi e Cosa nostra, che sarebbe garantito in particolare dal rapporto di amicizia con Nicola Accardo, ritenuto elemento di spicco della famiglia. Quando Accardo va a Milano, Nastasi lo aiuta per il trasferimento dall’aeroporto, gli trova e gli paga l’albergo, gli indica ristoranti. Disponibilità ricambiata quando l’imprenditore torna in Sicilia per le feste. Favori e cortesie che per gli inquirenti non si giustificano solo con un rapporto di amicizia. Ma anche di affari.

Ed è ricco il business che Nastasi avrebbe gestito grazie all’Expo di Milano. L’imprenditore è accusato di essere il reale gestore del consorzio di cooperative Dominus scarl, che all’esposizione universale ha realizzato i padiglioni di Francia, Guinea, Qatar e Birra Poretti, l’auditorium e il palazzo dei congressi. Appalti che in tre anni, dal 2013 al 2015, hanno permesso di ricavare 18 milioni di euro, pagati dalla società Nolostand, una delle controllate da Fiera Milano. Nolostand è stata commissariata e, assieme a Fiera Milano, ha chiesto 800mila euro di danni di immagine come parti civili (un milione la richiesta del Comune di Milano).

Nelle 70 pagine di informativa del Gico della Guardia di finanza depositate ieri dalla procura meneghina, si parla anche di un altro imprenditore con cui Natasi sarebbe entrato in contatto. Si tratterebbe di Antonio Giuliano Mafrici, di origini calabresi ma residente e attivo nella zona del Canton Vallese, al confine con la Svizzera. Secondo quanto annota la Finanza, l’imprenditore di Castelvetrano e il braccio destro Pace vanno a fare visita a Morici il 24 agosto del 2015 nella sua casa a Pedimulera, paesino del Piemonte nella provincia del Verbano-Cusio-Ossola. Intercettato in auto, mentre torna a Milano, Nastasi direbbe che Mafrici «si è messo a disposizione». L’imprenditore emigrato in Svizzera recentemente è finito nelle cronache perché arrestato per corruzione. L’accusa era di aver pagato delle tangenti per ottenere l’appalto per la ristrutturazione di alcune gallerie sulla strada del Sempione. Mafrici in carcere c’è rimasto solo 40 giorni. Il tribunale amministrativo svizzero ha dato ragione a lui nel ricorso presentato dalle imprese che erano arrivate seconde. E lo scorso luglio l’imprenditore è tornato a guidare la ditta che ha fondato nel 1993, la Interalp Bau, impresa di costruzioni che negli ultimi anni si è aggiudicata diversi appalti pubblici in Svizzera.

Infine, altro elemento presentato dai pm di Milano a sostegno delle accuse a Nastasi è un’altra intercettazione. Nastasi e Pace, prima di essere arrestati, sarebbero andati a casa di un avvocato, manifestandogli l’intenzione di farlo entrare nella cerchia degli uomini vicini a Matteo Messina Denaro. Colloquio che sarebbe stato ascoltato dai militari della Finanza. La procura lombarda ha chiesto la condanna a nove anni per Nastasi. La sentenza dovrebbe arrivare il 3 febbraio, mentre Pace e altri tre imputati sono a processo con rito ordinario.

(fonte)

Il processo sulla presunta tangente Eni (197 milioni di euro) si “salva” per un giudice onorario

Il processo Eni-Saipem, uno dei più importanti dibattimenti per corruzione internazionale, con tangenti contestate per 197 milioni di euro, sarà celebrato solo grazie a un giudice onorario. E’ il risultato di una richiesta di astensione presentata dalle difese del gruppo pubblico- tra i quali l’ex ministro della Giustizia Paola Severino – nei confronti del giudice fin qui designato, Oscar Magi, a causa di un suo pronunciamento in un altro processo per corruzione contro Eni, nel 2013. E di un ingorgo negli uffici giudiziari di Milano, dove non è stato possibile formare un altro collegio giudicante. Lo scrive oggi il Corriere della Sera, sottolineando che l’importante procedimento è finito sulle spalle di Maria Cristina Filiciotti, uno dei 2.100 giudici onorari, vale a dire “non in carriera che (facendo altri lavori, specie avvocati), sono ingaggiati a scadenza, pagati a cottimo sul numero di udienze, privi di pensione-malattia-maternità-ferie-tfr alla stregua di precari del diritto”. Il giudice onorario Filiciotti è chiamata a decidere sulla maxitangente pagata, secondo l’accusa, da Saipem Eni nel periodo 2006-2010 per una commessa da 8 miliardi in Algeria.

La difesa di Eni, spiega il Corriere, aveva presentato la richiesta di astensione perché il giudice Magi, nel 2013, nella sentenza di condanna di Saipem per un analogo caso in Nigeria aveva sostenuto che il modello organizzativo della società fosse inadeguato a prevenire le tangenti. Una convinzione che, secondo i legali, avrebbe potuto condizionare questo nuovo giudizio. La richiesta è stata accolta dal presidente del Tribunale di Milano, Roberto Bichi, assieme al coordinatore penale Cesare Tacconi. Da quel momento è però emersa l’impossibilità di formare un altro collegio giudicante. Nella IV sezione penale, oltre a Magi sono out i due colleghi che si sono pronunciati con lui contro Eni; un quarto è da poco diventato presidente di un’altra sezione; un quinto da gip aveva autorizzato alcune intercettazioni del procedimento, cosa che fa scattare un’incompatibilità per legge. Dato che i giudici per ogni sezione sono scesi da nove a sei, è risultato impossibile formare un collegio. Mentre la X sezione, specializzata in corruzione, sta per affrontare il Ruby ter – sulle presunte false testimonianze in favore di Silvio Berlusconi nel processo concluso con la sua assoluzione – e non può sobbarcarsi un altro dibattimento di quella portata. Risultato: il giudice onorario Filiciotti salverà il collegio affiancando le sole due toghe disponibili della IV sezione.

(fonte)

Rapita Afrah Shawqi, giornalista d’inchiesta

Una giornalista irachena, Afrah Shawqi, nota per i suoi articoli contro la corruzione, è stata rapita la notte scorsa dalla sua casa di Baghdad da uomini armati e se ne sono perse le tracce. Lo ha reso noto la polizia, precisando che i responsabili dell’azione indossavano divise militari e avevano il volto coperto. L’episodio è avvenuto nel quartiere di Saydiya. Secondo la polizia, gli uomini armati hanno ammanettato i figli della giornalista e si sono anche impossessati di gioielli e altri oggetti di valore. Il primo ministro, Haidar al Abadi, ha fatto sapere di avere dato istruzioni alle forze di sicurezza di «prendere misure immediate per risolvere il caso e fare ogni sforzo per salvare la vita» della giornalista.

Proprio ieri su un giornale locale era uscito un articolo in cui la Shawki criticava un dipendente del ministero dell’Interno che aveva picchiato il preside di una scuola nella città di Nassiriya davanti agli insegnanti e agli allievi per una questione riguardante sua figlia. Il premier Abadi ha ordinato di «perseguire qualsiasi gruppo coinvolto nel rapimento della giornalista, o che mini la sicurezza della gente e terrorizzi i giornalisti»

(fonte:Ansa)

Non solo Marra: tutti i politici “omaggiati” da Scarpellini

Ieri, a sette giorni dall’arresto, il gip di Roma aveva scarcerato il costruttore Sergio Scarpellini e oggi leggendo i quotidiani si capisce come il giorno del suo interrogatorio di garanzia la difesa avesse chiesto che l’imprenditore – accusato di corruzione con il capo del personale del Comune di Roma Raffaele Marra. Scarpellini ha elencato i nomi di coloro che hanno ottenuto – come la procura di Roma ipotizza per l’ex vice capo di gabinetto del sindaco Virginia Raggi – case di favore. Nell’elenco compaiono i nomi dell’ex presidente della Camera, Irene Pivetti, l’ex capogruppo del Pd in Comune, Mirko Corattigià coinvolto nell’inchiesta Mafia Capitale, l’ex parlamentare dell’Udc, Luciano Ciocchetti. Del resto che l’inchiesta potesse allargarsi era chiaro sin dal primo giorni dell’arresto per la reale genesi dell’inchiesta (l’intercettazione di un ex boss della banda della Magliana) e per la presenza di numerosi omissis nell’ordine ci cattura. s

Il costruttore “pur cercando di ridimensionare la portata delle sue condotte” avrebbe dunque ammesso non solo la casa di fatto regalata a Marra con un giro di assegni circolari ma fatto la lista di tutti coloro che avrebbero ricevuto la stessa cortesia. “Le motivazioni che lo avevano condotto alle dazioni – scrive il gip nel provvedimento di scarcerazione – e il contesto nel quale si sono realizzate (…)” sono “necessitate dall’esigenza di perseguire i propri interessi imprenditoriali”. Anche per Marra Scarpellini aveva dichiarato di aver agito perché – avendo molte pratiche in Comune – voleva evitare grane. Intanto oggi i legali di Raffaele Marra hanno depositato istanza al  Tribunale del Riesame probabilmente per effettuare una discovery sugli atti in mano agli inquirenti.

Non è escluso che nel corso dell’atto istruttorio, l’imprenditore possa avere fornito anche ulteriori dettagli sul suo rapporto con Marra e i relativi punti di contatto con la macchina amministrativa comunale. Tutte tracce su cui i pm, dopo la pausa dovuta alle festività natalizie, imbastiranno ulteriori approfondimenti. Ed è proprio con l’inizio dell’anno nuovo che i vari filoni avviati in Procura, tra cui quello legato alle nomine fatte dal sindaco Raggi, potrebbero subire nuove accelerazioni. Proprio l’altro giorno la prima cittadina ha affermato di essere “pronta ad andare in Procura” in caso di convocazione. I magistrati potrebbero contestarle il reato di abuso di ufficio in relazione alla nomina di Renato Marra, fratello del suo ex braccio destro, a capo del dipartimento turismo del Comune. Una nomina in “palese conflitto di interessi” secondo l’Anac.

(fonte)

Il tramonto (giudiziario) dei berluscones

Se avesse la solennità della tragedia, dovrebbe suonare il Crepuscolo degli Dei. Siccome assomiglia più al grottesco, potrebbe diffondersi la musichetta finale di qualche spettacolo del Bagaglino. La foto di famiglia di Silvio Berlusconi perde uno dopo l’altro i soggetti principali, da Nord a Sud, da Roberto Formigoni – condannato a 6 anni per corruzione – a Giuseppe Scopelliti – 5 anni per abuso d’ufficio e falso. In un giorno solo finisce in pezzi l’ultimo residuo della classe dirigente che ha guidato l’Italia per anni, almeno 15. Dal comandante fino ai colonnelli, il centrodestra non vivrà di soli ricordi, ma anche di sentenze e di processi, spesso finiti male. Non solo il leader del partito e capo del governo, non solo ministri, non solo sottosegretari e viceministri, non solo “mele marce” tra i parlamentari. Ma anche presidenti di Regione, ex sindaci, coordinatori regionali del partito. In Lombardia Formigoni, in Campania Cosentino, in Liguria Scajola, in Calabria Scopelliti, in Sicilia Dell’Utri. Non solo amministratori, ma anche dirigenti di partito, che avevano il potere di formare altri politici, di fare nomine, di “produrre” altra classe dirigente.

Oggi è stata la giornata della condanna in primo grado dell’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, in appello dell’ex governatore in Calabria Giuseppe Scopelliti e anche della requisitoria del pm nel processo più complicato per Denis Verdini, in cui il magistrato in aula ha detto che l’ex braccio destro di Berlusconi, coordinatore di Forza Italia, è “un truffatore” che con la sua attività al Credito cooperativo fiorentino, che ha guidato per vent’anni, ha “rovinato” quella banca. Verdini, imputato in 5 processi, è già stato condannato per corruzione in primo grado per un’altra vicenda (quella della Scuola dei Marescialli di Firenze), pena poi prescritta in appello. Per il poco che vale sempre oggi un ex parlamentare del Pdl, Alfonso Papa, napoletano, è stato condannato a 4 anni e mezzo, in primo grado, per i reati di concussione e istigazione alla corruzione.

I veterani
Dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sanno tutti tutto: la frode fiscale, la condanna definitiva, la pena dei servizi sociali, l’espulsione dalla politica attiva attraverso la decadenza da senatore e l’incandidabilità fino al 2019. L’ex senatore Marcello Dell’Utri, ideatore di Forza Italia e principale consigliere del leader, è in carcere da tempo per la condanna definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e è indagato e imputato in altri svariati processi, con accuse che vanno dal peculato all’esportazione illecita di opere d’arte fino alla frode fiscale e alla bancarotta. E’ stato condannato definitivamente, nel 2007, anche l’ex ministro della Difesa Cesare Previti: un anno e 6 mesi per corruzione perché secondo i giudici partecipò alla corruzione di un giudice (Vittorio Metta) perché la Corte d’appello di Roma desse la maggioranza della Mondadori a Berlusconi anziché alla Cir di De Benedetti. Previti ha poi scontato la pena sotto forma di affidamento ai servizi sociali.

Il ministro per 17 giorni
Berlusconi fece ministro per 17 giorni e sottosegretario per un totale di 7 anni anche Aldo Brancher, condannato in via definitiva a due anni di reclusione per ricettazione e appropriazione indebita nel caso Antonveneta, pena non scontata grazie all’indulto. Nel caso di Brancher si arrivò all’impudicizia: solo 5 giorni dopo essere stato nominato ministro “alla sussidiarietà e il decentramento”, chiese la sospensione del suo processo per “organizzare il nuovo ministero”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano intervenne spiegando che Brancher era ministro senza portafoglio e non c’era nessun ministero da organizzare. Alla fine, prima di una mozione di sfiducia e le proteste generali, Brancher si dimise.

Ex governatori e ex capi regionali di partito
Anche l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino è in cella da anni: di recente è stato condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione camorristica e in precedenza aveva preso altri 4 anni per corruzione (entrambe le sentenze sono arrivate in primo grado). Giancarlo Galan, ex presidente del Veneto ed ex ministro, ha patteggiato una pena di 2 anni e 10 mesi per corruzione nell’inchiesta sul Mose restituendo tra l’altro 2,6 milioni di euro (a petto, secondo i pm, di oltre 15 milioni). Claudio Scajola, più volte ministro, è sotto processo per il presunto favoreggiamento di un latitante, l’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, condannato a 3 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Ugo Cappellacci, ex presidente della Regione Sardegna, è stato condannato in primo grado a due anni e mezzo per bancarotta “per dissipazione e documentale”.

(fonte)

Ehm, scusate: il braccio destro di Sala, invece, l’hanno già arrestato ai tempi di Expo. Per dire.

Ma non se lo ricorda più nessuno?

E infatti Sala dichiarò: «”Svolgo da sempre la mia attività professionale credendo nel lavoro di squadra e nella lealtà dei comportamenti. Oggi questa fiducia appare sorprendentemente tradita da una delle persone di Expo” ha detto il commissario unico. “Dal mio punto di vista – ha aggiunto – non intendo sottrarmi alla responsabilità che comunque è sempre in capo a chi guida una società”.

[Qui un articolo per rinfrescarsi la memoria:

Una cupola un po’ di destra e un po’ di sinistra sugli appalti dell’Expo 2015, ma anche sulla sanità lombarda (ancora una volta). Un patto tra chi è stato comunista e chi è stato democristiano con chi, più giovane, gestisce ora gli affari dell’esposizione internazionale di Milano del prossimo anno. Erano garantite “le imprese riconducibili a tutti i partiti” dicono i magistrati dell’inchiesta che oggi, 8 maggio, ha portato a 7 arresti (6 in carcere e uno ai domiciliari).  E nel pomeriggio La Direzione investigativa antimafia ha perquisito per un’ora la sede della società Expo 2015 in via Rovello a Milano. Società che ha convocato un cda straordinario alle 18 per discutere la situazione dopo i nuovi arresti.

Se sia una nuova Tangentopoli, nata all’ombra del grande evento lombardo, è presto per dirlo. Di certo c’è che i protagonisti della storia arrivano da quello che sembrava il passato remoto. La fotografia di gruppo dell’inchiesta assomiglia a una Polaroid ingallita che improvvisamente riprende colore. A finire in cella, infatti, non è solo il direttore della pianificazione acquisti di Expo, Angelo Paris, ma anche personaggi che hanno punteggiato la bufera di Mani Pulite: l’ex segretario regionale della Dc lombarda e parlamentare di Forza Italia (pluricondannato) Gianstefano Frigerio, lo storico esponente del Pci Primo Greganti (il “compagno G”) e l’imprenditore Enrico Maltauro. Gli altri a essere stati raggiunti da un ordine di custodia cautelare in carcere sono stati l’intermediario genovese Sergio Catozzo (ex Cisl, ex Udc infine berlusconiano) e l’ex senatore del Pdl Luigi Grillo, già coinvolto in numerose inchieste (la più nota quella sulla Banca Popolare di Lodi, alla fine della quale è stato assolto in appello). Ai domiciliari, infine, Antonio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, già arrestato due mesi fa per presunte irregolarità negli appalti delle opere pubbliche.

La cupola aveva contatti molto in alto – agli atti ci sono le telefonate degli arrestati con Silvio Berlusconi, Cesare Previti e Gianni Letta -, prometteva avanzamenti di carriera e protezioni politiche ai manager, incontrava direttori di aziende ospedaliere, copriva e proteggeva le imprese “riconducibili” a tutti i partiti, comprese “le cooperative”. E appena si verificava un vuoto di potere il gruppo sembrava pronto a riempirlo con qualcuno di “fidato” per poter compiere altri reati, tanto da mandare raccomandazioni al leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, al presidente della Regione Roberto Maroni e al suo vice Mario Mantovani. “Ho mandato un biglietto a Berlusconi, non chiamo nessuno per telefono – dice Frigerio al telefono – Un biglietto per Berlusconi e uno a Mantovani dicendo ‘ma la soluzione migliore si chiama Paris per la direzione’. Una “strategia” per sostituire proprio l’ex dg di Infrastrutture Lombarde Rognoni. E il 3 febbraio, scrive il gip, proprio Paris partecipa a una cena ad Arcore.

La cupola che proteggeva “le imprese riconducibili a tutti i partiti”
In Lombardia sarebbe esistita una vera e propria “cupola per condizionare gli appalti”, alcuni dei quali relativi anche ad Expo, come hanno spiegato i magistrati. La “cupola” prometteva “avanzamenti di carriera” grazie a “protezioni politiche” a manager e pubblici ufficiali. Racconta il pm Claudio Gittardi che Paris in un’intercettazione telefonica agli atti dice in sostanza: “Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera”. E il “compagno G”? Secondo gli inquirenti “copriva e proteggeva le cooperative”: la “saldatura” tra Greganti e Frigerio “proteggeva le imprese riconducibili a tutti gli schieramenti politici”. Nelle carte dell’inchiesta compaiono, a quanto si è appreso, i nomi di Silvio BerlusconiCesare Previti e Gianni Letta, che però non risultano indagati. L’inchiesta che ha portato anche ad una serie di perquisizioni da parte della Guardia di Finanza  e della Dia milanese, vede al centro i reati di associazione per delinquerecorruzioneturbativa d’astarivelazione e utilizzazione del segreto d’ufficio.

“Viavai continuo di imprenditori, dg di Asl, politici”
La “sede sociale” dell’associazione per delinquere che avrebbe “inquinato” gli appalti era un’associazione culturale intitolata a Tommaso Moro, lo scrittore umanista autore di “Utopia”. “Neanche la sua fantasia sarebbe arrivata a tanto”, ha affermato il procuratore della Repubblica di Milano Edmondo Bruti Liberati. Frigerio era il presidente del Centro Culturale Tommaso Moro e alcuni imprenditori, secondo i pm, avrebbero anche dato “soldi per una pubblicazione riferibile al figlio di Frigerio”. Nel centro, secondo il pm Gittardi, “c’era una viavai continuo di imprenditori, dg di aziende ospedaliere, personaggi di rilievo politico” e poi una serie di incontri si svolgevano anche “in alberghi, ristoranti, nel corso di cene a Milano e Roma”. Gli incontri si svolgevano, come ha spiegato il pm D’Alessio, “anche a Roma ogni mercoledì”. La “struttura” associativa, come ha sottolineato Bruti Liberati, “ruotava attorno a Frigerio, Greganti, Grillo come organizzatori dell’associazione” e aveva per “partecipi Cattozzo, Paris e Maltauro”. Frigerio, invece, aveva a disposizione, in particolare, una “squadra” di dg di aziende ospedaliere lombarde. Questa, hanno sottolineato i pm, “non è un’indagine sull’Expo, ma è anche un’indagine sull’Expo”.

Una ventina di indagati: “Squadra di direttori generali degli ospedali a disposizione della cupola”
Sono 12 le misure cautelari rigettate per un totale di circa 20 indagati. Il pm Antonio D’Alessio parla di “ramificazioni in diversi settori dell’amministrazione e agganci politici” di qualsiasi schieramento. Era una struttura, continuava il magistrato, capace di “avvicinare il pubblico ufficiale per ottenere anticipi di bandi e di procedure di gara” ad esempio relativi al progetto delle Vie d’acqua o all’area parcheggi per Expo. In questo senso è “sorprendente la disponibilità” di Paris “di mettere a disposizione informazioni riservate”. Un’organizzazione che si “rivolge a pubblici ufficiali promettendo avanzamenti di carriera in cambio di protezione politica” e che ha dalla sua parte – aggiunge il pm Gittardi – una “capacità impressionante di interventi in appalti sanitari, con una squadra di direttore generali e amministratori a sua disposizione“. C’è un richiamo “fortissimo a far parte di una squadra, la capacità di coprire tutte le aziende operative con collegamenti e protezioni” riferibili “a qualsiasi schieramento politico”, conclude. Gli inquirenti milanesi stanno indagando anche su ipotesi corruttive relative a forniture sanitarie a favore, tra le altre, delle aziende ospedaliere di Melegnano e Pavia, per le quali risultano indagati Patrizia Pedrotti e Paolo Moroni, rispettivamente direttore amministrativo e generale del presidio di Melegnano, e Daniela Troiano direttore generale dell’azienda ospedaliera di Pavia.

“Condizionati appalti sui servizi e sull’area parcheggi”
I pm titolari dell’inchiesta – il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, i sostitutiClaudio Gittardi e Antonio D’Alessio, assieme a Bruti Liberati – hanno chiarito che l’associazione per delinquere “operativa da un anno e mezzo o due” avrebbe condizionato o tentato di condizionare almeno da metà del 2013 alcuni appalti dell’Expo, tra cui la gara per “l’affidamento per le architetture di servizi”, che sarebbe stata pilotata a favore dell’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, anche lui finito in carcere. Maltauro, sempre secondo i pm, avrebbe versato “30-40mila euro al mese” in contanti o come fatturazione di consulenze alla “cupola degli appalti”. Paris, importante manager dell’Expo e, in particolare, responsabile dell’Ufficio contratti, avrebbe dimostrato “a partire dal settembre-ottobre 2013 piena disponibilità nei confronti del sodalizio” e sarebbe stato “totalmente a disposizione”, tanto che, sempre secondo i pm, “avrebbe fornito notizie riservatesulle gare d’appalto e pilotato le assegnazioni”. Al centro dell’inchiesta ci sono poi alcuni altri appalti “minori” di Expo come quello “dell’area parcheggi”. Le indagini poi avrebbero accertato anche la presunta aggiudicazione illecita di appalti per alcune “aziende ospedaliere lombarde” e del progetto “Città della Salute”, nuovo polo che dovrebbe sorgere a Sesto San Giovanni e che dovrebbe riunire il “Besta” e l’istituto tumori. Ma non solo: la “cupola” secondo i pm è riuscita anche a condizionare un appalto con al centro Sogin per lo smaltimento di scorie nucleari.

L’indagine è nata da un’altra inchiesta che nei mesi scorsi aveva portato all’arresto dell’ex consigliere lombardo, Massimo Gianluca Guarischi (ora sotto processo), per presunte tangenti nella sanità lombarda, un filone questo che vede indagato in una tranche (distinta dall’inchiesta scaturita nel blitz di stamani) anche l’ex presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni.

Frigerio, il parlamentare di B. graziato dal Parlamento
Gianstefano Frigerio
, attuale collaboratore dell’ufficio politico del Ppe a Bruxelles, è stato condannato definitivamente a tre anni e nove mesi per le mazzette sulle discariche lombarde (corruzione) e a due anni e undici mesi in altri due processi della Tangentopoli milanese (concussione, corruzione, ricettazione, finanziamento illecito), salvo per prescrizione nel processo Enel (corruzione), diventa deputato di Forza Italia nel 2001 (ha un posto sicuro in Puglia, col nome cambiato in “Carlo” per camuffarlo meglio), ma non riesce a entrare alla Camera perché lo arrestano subito. Mentre il presidente Pierferdinando Casini inaugura i lavori della 14esima legislatura invocando la Madonna di San Luca, i giudici di Milano provvedono all’arresto dell’onorevole pregiudicato. Poi ottiene un ricalcolo della pena, con un congruo sconto, e accede ai servizi sociali. Che riesce a scontare in Parlamento. Nel 2006, privo del diritto di voto a causa dell’interdizione dai pubblici uffici, non viene ricandidato. Ma rimane responsabile dell’Ufficio dei dipartimenti di Forza Italia e collaboratore del Giornale di Paolo Berlusconi, che negli anni Novanta gli pagava le tangenti. Il suo caso in Parlamento dette qualche speranza proprio a Berlusconi quando – a pochi mesi dalla condanna definitiva per la frode fiscale di Mediaset – l’ex Cavaliere tentava in tutti i modi di rimanere senatore, evitando non solo la decadenza – poi avvenuta con il voto di Palazzo Madama – ma anche l’interdizione dai pubblici uffici.

Il compagno G, 21 anni dopo
L’ex Compagno G, ex cassiere di Pci e Pds, classe 1944, fu tra i pochi a rifiutare ogni collaborazione con i magistrati ai tempi di Tangentopoli. Era il primo marzo 1993 quando Greganti venne arrestato in esecuzione di un ordine di custodia firmato dallo “storico” gip di Mani Pulite Italo Ghitti su richiesta del pm Antonio Di Pietro, con l’accusa di corruzione, per aver ricevuto in Svizzera, tra il 1990 e il 1992, 621 milioni dal gruppo Ferruzzi per appalti Enel. Denaro che, secondo la magistratura, rappresentava la prima delle due quote riservate al Pci-Pds delle tangenti concordate con il sistema dei partiti (l’1,6 per cento sul valore delle commesse). A fotografare quella ripartizione di mazzette ai magistrati milanesi era stato Lorenzo Panzavolta, amministratore della Calcestruzzi di Ravenna, l’uomo che fece materialmente i versamenti estero su estero. In seguito i versamenti accertati “lievitarono” a tre: 621 milioni depositati il 21 novembre 1990 sul conto “Gabbietta” intestato a Greganti alla Banca di Lugano; 525 milioni nel settembre 1992 sul conto 294469 alla Banca del Gottardo di Zurigo, sempre nella disponibilità di Greganti; 100 milioni consegnati personalmente nello stesso 1992 al compagno G. Il quale negò sempre ogni addebito e continuò a ripetere che si trattavano di consulenze personali. Alla fine di un’inchiesta “contrastata” che vide gli inquirenti milanesi dividersi e scontrarsi sul capitolo Pci-Pds, Greganti venne condannato a 3 anni e 7 mesi per finanziamento illecito al suo partito, pena successivamente patteggiata e ridotta a 3 anni e confermata dalla Corte di Cassazione nel marzo 2002, ulteriormente ridotta di sei mesi dopo che Greganti aveva già scontato in regime di carcerazione cautelare a San Vittore durante le indagini. Del “compagno G” in seguito si è saputo poco o nulla. Solo che aveva “abbandonato” la politica e si dedicava ad affari privati. In passato ha anche difeso la “rivoluzione” giudiziaria milanese sostenendo che “seppur con errori ed eccessi, senza quell’inchiesta saremmo finiti come l’Argentina”.

Greganti e il Pd
Ma Greganti ha davvero abbandonato gli ambienti del Pd? Il Pd si è davvero liberato di Greganti? Nel 2010 Europa raccontava che il compagno G raccoglieva soldi per il partito. O meglio: alla festa nazionale del partito, a Torino, era addetto al “coccardaggio“, cioè l’applicazione dell’adesivo sul petto dell’ospite in arrivo. Scrisse anche un libro (Scusate il ritardo) in cui difendeva il suo operato e quello del Pci. Sembrava scomparso, ma un mese e mezzo fa il suo nome è ricomparso al principale evento del Pd regionale: la candidatura di Sergio Chiamparino alla Regione Piemonte, dopo gli scandali che hanno contraddistinto l’ultima parte del mandato del presidente uscente Roberto Cota.

L’ex pm Colombo: “Dopo 22 anni nulla è cambiato”
“Dopo più di vent’anni questi arresti mi lasciano allibito” afferma all’Adnkronos l’ex pm di Mani Pulite, oggi consigliere Rai, Gherardo Colombo. Della “vecchia” inchiesta sul Pci-Pds, Colombo non si occupò direttamente e non interrogò mai Primo Greganti. Più volte però l’ex magistrato ha avuto modo di sentire Frigerio, anche lui coinvolto oggi nell’indagine milanese, come Greganti protagonista di Tangentopoli. “Sembra proprio – dice ancora Colombo – che la corruzione in questo Paese non finisca mai. Certo, la magistratura dovrà accertare quelli che al momento sono solo ipotesi di reato”. Ipotesi che però, se confermate, “danno un brutto polso dello stato di salute di questo Paese. Un Paese dove, dopo 22 anni, nulla è cambiato”. “Gli arresti di oggi – conferma in un tweet un altro ex pm di Mani Pulite – confermano la necessità di una nuova Mani Pulite. Il Parlamento si dissoci da coloro che hanno problemi di giustizia”.

(fonte)]

Parla Robledo: “Alla Procura di Milano c’è stato un abbraccio mortale tra giustizia e politica”

(fonte)

La ripresa delle indagini su Expo? “È con viva e vibrante soddisfazione che prendo atto del fatto che uffici inquirenti milanesi hanno ripristinato la tradizione di autonomia e indipendenza delle indagini che negli ultimi tempi si era un po’ appannata”. Così commenta Alfredo Robledo, che con un goccio di humor ricalca la formula dei comunicati del Capo dello Stato. Non gli sfugge che gli “uffici inquirenti milanesi” che hanno ripreso a indagare sull’esposizione universale non sono quelli della sua ex Procura, bensì quelli della Procura generale: i vecchi “parrucconi” si dimostrano più dinamici di quelli che una volta erano i pm d’assalto.

Ma dottor Robledo, che cosa vuol dire “appannata”?

È mia opinione che nel 2014 alla Procura di Milano ci sia stato un abbraccio mortale tra magistratura e politica. Il corto circuito è stato fatto scattare da questi rapporti, con il risultato, a mio avviso, di far perdere ai magistrati la loro autonomia e il loro ruolo di controllo, stabilito dalla Costituzione.

Lei nel 2014 è stato esautorato dal procuratore Edmondo Bruti Liberati che le ha prima proibito di partecipare a due interrogatori di un suo indagato, il manager Antonio Rognoni.

Anche il Csm ha valutato illegittimo questo comportamento, senza però che ci sia stata alcuna conseguenza.

Quando poi lei è ricorso al Csm, mandando un esposto in cui denunciava gli attacchi di Bruti, è intervenuto l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

I giornali dell’epoca, riferendosi al procuratore Bruti, titolavano: “Salvate il soldato Ryan”. I soldati obbediscono, i magistrati no.

Il Consiglio giudiziario, articolazione locale del Csm, ha poi dato ragione a lei contro Bruti che per escluderla dalle indagini aveva prima formato l’Area Omogenea Expo e poi le aveva tolto il coordinamento dell’anticorruzione, provvedimento ritenuto dal Consiglio illegittimo.

Il Consiglio giudiziario di Milano ha scritto un giudizio durissimo: “Il provvedimento in esame (…) sostanzialmente si risolve in un esautoramento completo del dottor Robledo dal ruolo di coordinatore del Secondo Dipartimento, senza alcuna considerazione della sfera di autonomia e dignità della funzione semidirettiva del magistrato, ma anche delle reali esigenze organizzative dell’ufficio”… “In conclusione, il provvedimento, che avrebbe dovuto avere finalità esclusivamente organizzative, risulta essere stato utilizzato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto”. Parole dure, eppure il Csm non ha fatto una piega.

Due anni fa, alla Festa del “Fatto Quotidiano” alla Versiliana, lei aveva denunciato che il ricambio in corso di centinaia di dirigenti degli uffici giudiziari avrebbe reso la magistratura più gerarchica e più disponibile verso la politica.

Dissi anche che i membri laici del Csm, scelti dai partiti di destra e di sinistra, avrebbero spesso votato nel medesimo modo, indipendentemente dalla loro estrazione politica e sulla base di accordi tra e con le correnti. E così è stato.

Ma davvero i magistrati oggi sono meno liberi e meno autonomi?

Sono soprattutto i dirigenti delle correnti ad andare incontro alle esigenze della politica, e i cittadini e i magistrati poi finiscono per subirne le conseguenze. Se invece le correnti vogliono ritrovare il loro spirito primario, legato a riferimenti culturali e non a giochi di potere, devono porre fine alle spartizioni correntizie degli uffici. Anche l’Associazione nazionale magistrati deve dire sul punto una parola chiara: fa bene il presidente Piercamillo Davigo a ripetere che uno dei problemi dell’Italia è la corruzione dei politici, ma dovrebbe aggiungere che anche i magistrati non danno certo un bell’esempio, quando si spartiscono le cariche tra correnti.

Si è sentito solo in questa vicenda?

Lo sono stato. E il silenzio dei magistrati e della Associazione è assordante.

Ora i documenti dell’inchiesta sulla piastra spiegano perché, per esempio, i 6 mila alberi di Expo, comprati in un vivaio a 266 euro l’uno, sono stati pagati da Sala alla Mantovani 716 euro l’uno. Contratto affidato nel luglio 2013, senza gara, alla Mantovani per un importo di 4,3 milioni. La Mantovani nel novembre successivo stipula un contratto di subfornitura con un’impresa vivaistica per 1,6 milioni.

Il caso Marra. Spiegato bene.

Due articoli che spiegano bene cosa dicono le carte. Il primo è di Repubblica:

“Sussistenza di un concreto ed attuale pericolo di reiterazione di condotte delittuose analoghe a quelle già accertate e ciò anche in considerazione del ruolo attualmente svolto da Marra all’interno del comune, della indubbia fiducia di cui gode il sindaco Virginia Raggi”. Lo scrive il gip nel giustificare la detenzione di Raffaele Marra. Il braccio destro del primo cittadino capitolino è stato arrestato stamattina dai carabinieri del Nucleo investigativo del comando provinciale di Roma, guidati dal comandante Lorenzo D’Aloia,  con l’accusa di corruzione. Avrebbe ricevuto una maxi tangente da 367 mila euro dall’immobiliarista Sergio Scarpellini (anche lui arrestato). Due assegni circolari da 250 mila e 117 mila euro per l’acquisto di una casa in via Prati Fiscali 258, a Roma, intestata alla moglie di Marra, Chiara Perico nel giugno del 2013. All’epoca dei fatti Marra rivestiva il ruolo delicato di direttore del dipartimento partecipazioni e controllo gruppo Roma Capitale.
Ma gli inquirenti sono risaliti anche ad un altro analogo regalo che l’immobiliarista avrebbe fatto sempre a Marra. Un’altra casa. “Nel 2009 Scarpellini aveva venduto a Marra l’appartamento a Roma in via Giorgio Vigolo, angolo via Alberto Moravia, applicando in suo favore il considerevole sconto di mezzo milione di euro”. Una vicenda indicate nelle carte della procura che è prescritta ma tuttavia indicano un rapporto stretto tra i due: “scaturisce con assoluta chiarezza come i rapporti tra lo Scarpellini e Marra abbiano un non solo un carattere di grande confidenza ma implicano anche un reciproco vicendevole aiuto”.

E così, infatti, quando Marra vede la sua carriera in comune al fianco della Raggi minacciata da alcuni articoli del Messaggero non esita a contattare Scarpellini per influenzare l’editore del giornale (operazione che non andrà in porto). “Il Marra non mostra alcuna remora a chiedere un intervento d Scarpellini al fine di orientare in senso favorevole a sè l’opinione pubblica, attraverso i giornali controllati da un amico di Scarpellini”.
Un capitolo importante dell’ordinanza è dedicato agli interessi economici di Scarpellini nel comune di Roma: “Le funzioni svolte dal Marra hanno riguardato settori sensibili per gli interessi imprenditoriali dello Scarpellini. Il gruppo immobiliare ha infatti da tempo stipulato importanti convenzioni urbanistiche che richiedono l’emanazione di provvedimenti amministrativi da parte del comune di Roma e della regione Lazio. Queste convenzioni sono ancora attuali e i relativi procedimenti amministrativi non sono conclusi”. Per Scarpellini si pone un grosso problema. In campagna elettorale i 5 Stelle avevano criticato con asprezza alcuni affitti a prezzi salati pagati per dei palazzi di sua proprietà: “Ostilità mostrata dal movimento 5 stelle nei confronti di Scarpellini, di cui sono espressione diversi articoli di stampa. In questa situazione Marra rappresenta un significativo ed indispensabile punto di riferimento per lo Scarpellini e che abbisogna, ancor di più rispetto al passato in ragione delle mutate condizioni politiche, della sua influenza e capacità di interferenza (è il braccio destro della Raggi, ndr) per salvaguardare e realizzare i propri interessi”.

Le indagini nascono all’indomani di un’inchiesta su Manlio Vitale. “Er gnappa, il soprannome di Vitale, è uno degli storici esponenti della Banda della Magliana. Vitale è sotto intercettazione perché estorce soldi proprio a Scarpellini. “Vitale si reca ogni giovedì – si legge nell’ordinanza – nei pressi del Senato per ricevere dalla persona incontrata (Scarpellini, ndr) una consistente somma di denaro. Dazioni di denaro da ricondurre a un’attività estorsiva”. Per questo vengono intercettate le utenze telefoniche anche delle vittime, Scarpellini e la sua segretaria Ginevra Lavarello. E così, mettendo sotto controllo il cellulare di Scarpellini, gli investigatori scoprono i suoi rapporti con Marra.

E questo de Il Fatto Quotidiano:

L’indagine per corruzione che ha portato in carcere Raffaele Marra, capo del Personale del Comune di Roma, nasce quasi per caso. O meglio dall’intuito dell’investigatore che ascoltando le conversazioni tra un pregiudicato romano, Manlio Vitale considerato dagli investigatori personaggio della Banda della Magliana, e la sua ex compagna, e analizzando alcuni sms, capisce che l’indagine sta imboccando una strada che porterebbe al cuore di uno dei palazzi del potere. E infatti quando questa donna, Caterina Carbone, viene sentita dai carabinieri rivela di aver accompagnato più volte in zona Senato Vitale, detto “Er Gnappa” arrestato lo scorso marzo perché ritenuto il capo di una banda di rapinatori, e ogni giovedì Vitale per prendere “alcune migliaia di euro”. Vittima di quella che agli investigatori sembrava a tutti gli effetti una estorsione è Sergio Scarpellini, il costruttore che per la Procura di Roma è stato corrotto da Marra con la compravendita due immobili: uno venduto dal funzionario e l’altro acquistato. Una storia che era emersa già due mesi fa con la pubblicazione di un’inchiesta de L’Espresso ma che non aveva impedito a Marra di rimanere in Campidoglio difeso anche nelle ultime dal sindaco Virginia Raggi.

“Eh io sto a disposizione, tu diglielo”
Il telefono dell’imprenditore e quello della sua collaboratrice, Ginevra Lavarello, vengono messi sotto controllo. A fine giugno, come si può leggere nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Maria Paola Tomaselli, gli investigatori captano i primi di segnali una relazione pericolosa tra Marra e Scarpellini. È il 30 giugno 2016: Marra scrive alla Lavarello, appare disperato, vuole un aiuto, cerca protezione perché la stampa sta, a suo dire, conducendo una campagna feroce nei suoi confronti perché considerato uomo vicinissimo all’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno (finito a giudizio per corruzione nel mare magnum giudiziario di Mafia capitale) e non gradito nella nuova era del M5s. Il funzionario dice alla donna di chiedere al costruttore di intervenire su Gaetano Caltagirone, tra l’altro editore di diversi quotidiani tra cui Il Messaggero, per realizzare una campagna in sua difesa. In ballo c’è l’incarico di vice capo di gabinetto con delega di firma. Marra, tra il 2009 e il 2010 direttore del Dipartimento del Patrimonio e della Casa del Comune di Roma, parla a ruota libera: “Eh, io sto a disposizione, tu diglielo puoi far pure arrivare, glielo dici ‘lui sta a disposizione’ … tanto lui lo sa che sto a disposizione”. Proprio per quella vicinanza all’ex esponente prima di An e poi di Fdi potrebbe costargli cara.

La sera del 30 giugno, dopo le 22, Marra insiste per chiamare Ginevra Lavarello: vuole che Scarpellini intervenga su Caltagirone e la telefonata avviene mentre l’uomo è negli uffici del Comune: “Sto ancora in Campidoglio, sto ancora in Campidoglio sto…”, “Eh mi immagino, immagino ma un attacco pazzesco ma veramente fuori luogo” replica l’interlocutrice. Marra fa la vittima: “Ma poi senza nessun motivo proprio, nessun motivo, quindi ti telefonavo soltanto per chiederti una gentilezza, se puoi… parlando con Sergio, se Sergio può intervenire con Gaetano … Calata. Per farmi dare una mano sui giornali… cioè capire se…no nel senso proprio per cercare in qualche modo di…tutelare …un po’ la posizione sennò diventa un grande, un gran… molto complicata la questione”.

“Dall’uomo più potente in tre giorni divento l’ultimo coglione”
La donna promette, ma Marra insiste: “Eh, io sto a disposizione tu glielo puoi far pure arrivare, glielo dici ‘lui sta a disposizione’ dici però è una cosa è una cosa senza senso… Eh no in modo tale pure per cercare di aver in qualche modo una visione diversa no, che lui possa dire: ‘ma come adesso lo avete nominato e ora che fate, allora vuol dire che comandano quelli di Milano, comandano quelli di Torino allora questo non conta un cazzo, cioè fate risultare che se mi sposta è un danno enorme alla sua credibilità, alla sua immagine’. Lavarello ascolta e Marra prosegue: “Io stavo… io stavo organizzando tutto, stavo organizzando, avevo accennato a Cinzia quelle che erano le proposte, ora mi fai fuori, dall’uomo più potente in tre giorni divento l’ultimo coglione...”. Solo perché sulla stampa mi hanno, mi hanno sparato a zero quindi secondo me lui dovrebbe cercare di convincere quell’altro a dire: ‘vabbe’ ne prendo … tanto lui lo sa che sto a disposizione per dire vabbe’ facciamo un po’ di fuoco amico e dire non si permetta a togliere un servitore dello Stato cioè poi se volete domani passo io e … oppure se mi mettete in contatto con  qualcuno che mi può aiutare riservatamente meglio ancora, se però ovviamente deve intervenire il capo perché se non interviene lui non succede niente… bisogna farlo parlare direttamente con Caltagirone e credo che lui gli dà una mano”. Lavarello e Scarpellini concordano poi di dire a Marra di aver cercato di contattare l’imprenditore anche perché ragionano su una sua uscita di scena: “Tanto se poi domani lo defenestrano… finito“. Ma queste conversazioni diventano il punto di partenza dell’indagine che porta gli investigatori a scavare nel passato del funzionario e dell’amico costruttore – legati da un “rapporto viziato” ritiene il gip sin dal 2009 fatto di “insistenti regalie” negli anni 2010 e 2013 dallo Scarpellini in favore del Marra scrive il gip –  e gli affari fatti da quest’ultimo in passato e per il presente con il Comune di Roma. Perché come scrive il giudice il rapporto tra i due prosegue “sul medesimo binario” ancora nel luglio del 2016.

(il mio editoriale per Fanpage invece è qui)

Lo scrittore Mathias Énard: «sulla Siria siamo i portinai della viltà»

(di Mathias Énard, dal volume collettivo Bienvenue ! 34 auteurs pour les réfugiéstraduzione di Lorenzo Alunni, fonte)

Sapevamo che quello del Ba’ath siriano era un regime tossico, di assassini e torturatori: l’abbiamo tollerato.

Abbiamo fatto addirittura di più: l’abbiamo rafforzato. Bashar al-Assad veniva invitato a sedersi nella tribuna presidenziale per la sfilata del 14 luglio, a Parigi, a pochi metri da Nicolas Sarkozy, che gli ha calorosamente stretto la mano due anni prima dell’inizio delle manifestazioni a Dera’a.

Sapevamo tutti che il regime di Assad era pronto a massacrare senza esitazioni la sua popolazione civile e quella dei suoi vicini: gli eventi del 1982 noti come «massacro di Hama» (ma che si sarebbero estesi a molte altre città siriane) e i soprusi siriani nei confronti del Libano ce l’hanno dimostrato a sufficienza. L’abbiamo tollerato.

Sapevamo che l’esercito siriano e i suoi sicari, che hanno organizzato la repressione per decenni, non avrebbero esitato un istante a sparare sulla folla, a torturare oppositori, a bombardare città e villaggi: li abbiamo lasciati fare.

Sapevamo che il regime siriano era diventato maestro dell’arte della manipolazione diplomatica regionale, abile a rafforzare temporaneamente i propri nemici, a infiltrarvisi, portando avanti un terribile doppio gioco letale: lo ha dimostrato la storia delle relazioni della Siria con i diversi gruppi palestinesi. È solo un esempio fra i tanti possibili. Li abbiamo dimenticati tutti, questi esempi, o abbiamo fatto finta di dimenticarli.

Sapevamo che tutte le figure politiche siriane non sono altro che una clientela di sicari che sopravvive grazie al sistema dei clan e alle elargizioni della casta Assad. Eppure abbiamo sperato nel cambiamento. Eravamo tutti al corrente che, nella così breve Primavera di Damasco del 2000, i club della democrazia erano stati repressi, che i nuovi leader si erano improvvisamente ritrovati in prigione o che erano stati costretti a lasciare il Paese. Ci siamo rassegnati.

Abbiamo immaginato che l’apertura economica avrebbe portato a un’apertura democratica. Abbiamo visto con chiarezza come tale apertura servisse solamente a distribuire nuovi guadagni per attirare nuovi clienti e rafforzare il clan al potere. Abbiamo venduto auto, tecnologia e fabbriche chiavi in mano, senza il minimo turbamento.

Sapevamo delle faglie che attraversano il territorio siriano; non ignoravamo che il regime di Assad si reggesse essenzialmente sulla minoranza alauita, soprattutto per il suo apparato militare e repressivo; sapevamo della sua alleanza strategica con l’Iran, che risale alla guerra fra Iran e Iraq e alla guerra del Libano, negli anni Ottanta; eravamo testimoni della potenza militare e politica dell’Hezbollah libanese; abbiamo assistito alla strumentalizzazione dei Curdi nelle relazioni fra la Siria e la Turchia nel corso degli ultimi trent’anni: sapevamo di tutto il risentimento dei sunniti siriani poveri, esclusi dal clientelismo e odiati dalle loro stesse élites; avevamo coscienza del peso dell’Arabia Saudita e del Qatar nell’economia europea e della «guerra fredda» che queste due potenze fanno da anni all’Iran.

Ci ricordiamo – o ci dovremmo ricordare – che la mappa del Medio Oriente del XX secolo è nata da accordi segreti firmati da Mark Sykes e François Georges-Picot nel 1916, o piuttosto dalle conseguenze di questi accordi e dalla loro attuazione fra il 1918 e il 1925. Il Libano, la Siria, l’Iraq, la (Trans)Giordania e la Palestina sono nate da queste frontiere, quasi cento anni fa, e da allora tali frontiere sono state messe in discussione direttamente solo una volta, quando la scorsa estate l’Isis ha riunito le province dell’ovest dell’Iraq e quelle del nord e dell’est della Siria, facendo improvvisamente tremare tutte le altre frontiere, in particolare quelle della Giordania e dell’Arabia Saudita.

Sapevamo che il Libano è un Paese fragile, un Paese di cui alcune componenti desideravano la ridefinizione (o l’implosione) geografica e la trasformazione del territorio in una confederazione, per «proteggere le minoranze». I Balcani ci hanno insegnato che nessuno desidera essere una minoranza sul territorio dell’altro quando l’impero sta crollando. Sapevamo inoltre che l’invasione – la distruzione totale – dello Stato iracheno ha portato all’ingiustizia, alla corruzione, all’insicurezza, alla carestia e al crollo dei servizi pubblici.

Da tutto questo, non abbiamo tratto nessuna conclusione.

Quando le manifestazioni si sono trasformate in rivolta, quando la rivolta è diventata rivoluzione, quando le prime granate sono cadute sui civili, quando la rivoluzione si è trasformata in Esercito Siriano Libero, non abbiamo fatto niente.

Sapevamo perfettamente che la soluzione al «problema siriano» e la risposta alla «questione siriana» passava per Mosca e Teheran, e non siamo voluti andare a Mosca né a Teheran.

Abbiamo detto di sostenere i democratici.

Abbiamo mentito.

Abbiamo lasciato morire l’Esercito Siriano Libero e tutte le forze di libertà.

Abbiamo dibattuto del numero di morti.

Abbiamo dibattuto di linee rosse, piazzate da noi, per poi spostarle perché non eravamo sicuri che fossero state realmente superate.

Abbiamo dibattuto del colore della bava nella bocca dei cadaveri.

Abbiamo detto di sostenere le forze democratiche.

Abbiamo mentito.

Abbiamo organizzato conferenze nei palazzi europei.

Lì, abbiamo visto i documenti in mano all’Arabia Saudita, al Qatar e alla Turchia.

Abbiamo continuato a mentire.

Dibattiamo tutti i giorni del numero di morti.

Abbiamo guardato fiorire le tende in Turchia, in Giordania, in Libano.

Contavamo tutti i giorni le tende.

Stanchi di contare i corpi mutilati, ci siamo compiaciuti per il miglioramento delle condizioni di vita dei rifugiati.

Abbiamo visto uomini sgozzati nel deserto, uomini su cui non abbiamo fatto affidamento.

Ci siamo indignati e la nostra indignazione si è trasformata in bombe e attacchi aerei.

Dibattiamo tutti i giorni dell’efficacia delle bombe.

Contiamo i morti e le tende.

Vendiamo aerei.

Impariamo nomi di città, impariamo nomi di città distrutte non appena ne abbiamo imparato il nome.

Mentiamo.

Siamo i geografi della morte.

Gli esploratori della distruzione.

Siamo portinai.

Portinai alla porta della tristezza.

Ogni giorno si bussa alle nostre porte.

Contiamo i colpi alle nostre porte.

Uno dice che «centomila persone bussano alle nostre porte».

L’altro dice che «sono milioni, e spingono».

Spingono per venire a cagare di fronte alle nostre porte chiuse.

Siamo i portinai della viltà.

Non accogliamo nessuno.

Non ci chiniamo davanti a nessuno.

Siamo fieri di non essere nessuno.