Vai al contenuto

costituzione

Nel merito. Dal bicameralismo perfetto al bicameralismo malfatto.

di Giovanni Maria Flick, Guardasigilli nel primo governo Prodi, ex presidente della Corte costituzionale

Da Il Fatto Quotidiano del 15 ottobre 2016

Perché votare No? Un breve riassunto dei motivi.

Quanto al merito della riforma della Costituzione che viene proposta:

1) perché non si può passare dal bicameralismo “perfetto” (per così dire) a un bicameralismo “malfatto” (quanto all’elezione e composizione del Senato, alle sue competenze, ai suoi rapporti con la Camera dei deputati nei procedimenti legislativi);

2) perché nei rapporti tra Stato e Regioni l’eccesso di decentramento – attuato con la riforma costituzionale del 2001 – non può essere corretto con l’eccesso opposto di un accentramento pressoché totale, dimenticando oltretutto le Regioni a statuto speciale per le quali il problema di quei rapporti si pone in modo ben più rilevante che per le Regioni a statuto ordinario;

3) perché è vero che il meglio (cui aspirare) è nemico del bene: tuttavia la proposta di riforma costituzionale non è un bene, ma un pasticcio (in particolare per le ragioni dianzi esposte a proposito del Senato e del rapporto fra Stato e Regioni).

Quanto al metodo della riforma su cui si voterà il prossimo 4 dicembre:

1) perché in un unico quesito confluiscono problemi, interrogativi e soluzioni fra loro assai diversi e di difficile comprensione, da accettare o rifiutare in blocco;

2) perché la riforma è stata elaborata attraverso la ricerca di maggioranze risicate a tutti i costi; la presenza, quando non prevalenza, di finalità di politica contingente; lo scontro costante tra maggioranza e opposizione; il legame incestuoso con la legge elettorale vigente e sub judice e quella da attuare; con motivazioni come il risparmio di spesa, estranee al contesto e alla logica costituzionale; con uno spirito e in un modo antitetico a quelli richiesti dall’articolo 138 della Costituzione per la sua revisione;

3) perché l’assenso alla riforma è stato richiesto e suffragato con argomentazioni successive fra loro contraddittorie e via via riconosciute erronee dagli stessi proponenti: prima la personalizzazione sul presidente del Consiglio; poi il richiamo alla volontà del presidente della Repubblica e alla sua rielezione; poi ancorale pressioni indebite dei mercati e dei media di informazione finanziaria; infine l’ammissione degli errori contenuti nella riforma, degradandoli tuttavia disinvoltamente a semplici sviste bagatellari correggibili dopo l’entrata in vigore del nuovo testo di Costituzione;

4) perché in realtà, invece, gli errori di contenuto e di forma e le lacune della proposta sono macroscopici, e sarà perciò molto difficile se non impossibile emendarli ex post, come dimostrala vicenda in parte analoga dell’approvazione della legge elettorale Italicum (la migliore, intoccabile, a colpi di fiducia) meno di un anno fa e ora quella della necessità condivisa e delle difficoltà del suo cambiamento.

Perché no. Nel merito.

Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche. Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo.

Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.

1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo. La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. E’ indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum, è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.

2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria – anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.

3. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.

4. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza “esclusiva” dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”. Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.

5. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del CNEL: questi non sono modi adeguati per garantire  la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.

6. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.

7. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto.

Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente).

Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.

22, aprile 2016

 

LE FIRME 

Francesco AMIRANTE Magistrato

Vittorio ANGIOLINI Università di Milano Statale

Luca ANTONINI Università di Padova

Antonio BALDASSARRE Università LUISS di Roma

Sergio BARTOLE Università di Trieste

Ernesto BETTINELLI Università di Pavia

Franco BILE Magistrato

Paolo CARETTI Università di Firenze

Lorenza CARLASSARE Università di Padova

Francesco Paolo CASAVOLA Università di Napoli Federico II

Enzo CHELI Università di Firenze

Riccardo CHIEPPA Magistrato

Cecilia CORSI Università di Firenze

Antonio D’ANDREA Università di Brescia

Ugo DE SIERVO Università di Firenze

Mario DOGLIANI Università di Torino

Gianmaria FLICK Università LUISS di Roma

Franco GALLO Università LUISS di Roma

Silvio  GAMBINO Università della Calabria

Mario GORLANI Università di Brescia

Stefano GRASSI Università di Firenze

Enrico GROSSO Università di Torino

Riccardo GUASTINI Università di Genova

Giovanni GUIGLIA Università di Verona

Fulco LANCHESTER  Università di Roma La Sapienza

Sergio LARICCIA  Università di Roma La Sapienza

Donatella LOPRIENO Università della Calabria

Joerg LUTHER Università Piemonte orientale

Paolo MADDALENA Magistrato

Maurizio MALO Università di Padova

Andrea MANZELLA Università LUISS di Roma

Anna MARZANATI Università di Milano Bicocca

Luigi MAZZELLA Avvocato dello Stato

Alessandro MAZZITELLI Università della Calabria

Stefano MERLINI Università di Firenze

Costantino MURGIA Università di Cagliari

Guido NEPPI MODONA Università di Torino

Walter NOCITO Università della Calabria

Valerio ONIDA Università di Milano Statale

Saulle PANIZZA Università di Pisa

Maurizio PEDRAZZA GORLERO  Università di Verona

Barbara PEZZINI Università di Bergamo

Alfonso QUARANTA Magistrato

Saverio REGASTO Università di Brescia

Giancarlo ROLLA  Università di Genova

Roberto ROMBOLI Università di Pisa

Claudio ROSSANO Università di Roma La Sapienza

Fernando SANTOSUOSSO Magistrato

Giovanni TARLI BARBIERI Università di Firenze

Roberto TONIATTI Università di Trento

Romano VACCARELLA Università di Roma La Sapienza

Filippo VARI  Università Europea di Roma

Luigi VENTURA Università di Catanzaro

Maria Paola VIVIANI SCHLEIN Università dell’Insubria

Roberto ZACCARIA Università di Firenze

Gustavo ZAGREBELSKY Università di Torino

Partecipazione, cosa abbiamo in mente

Partecipare, studiare, approfondire. Vale la pena riprendere il post dai quaderni di Possibile:

Possibile sostiene la proposta di Gianfranco Pasquino, Andrea Pertici, Maurizio Viroli e Roberto Zaccaria per un progetto di revisione costituzionale puntuale, razionale e condiviso. Rispetto a questa proposta siamo aperti alla condivisione degli altri soggetti politici e sociali che stanno lavorando a un testo analogo: il lavoro del comitato presieduto da Guido Calvi, innanzitutto, che si muove nella stessa direzione.

Non un Senato mostro (definizione di Ugo De Siervo), non una involuzione (che ribalta la devoluzione con un nuovo accentramento), non una riforma che riduce la rappresentanza. Una riforma che punti a dare più forza alla sovranità popolare, con gli strumenti adeguati e senza peggiorare il testo della nostra Costituzione.

Possibile propone poi un pacchetto di norme per la democrazia diretta e partecipativa che consenta, diversamente dalla ‘riforma’ in discussione, un accesso più semplice agli strumenti di iniziativa popolare, riprendendo le proposte radicali sulle modalità di promozione dei referendum (per una semplificazione della mostruosa burocrazia che li accompagna), definendo norme certe e puntuali perché non vi siano ulteriori rinvii ma si proceda a un potenziamento della possibilità che i cittadini intervengano direttamente nella vita politica del Paese, e non solo ogni cinque anni.

Possibile avanza infine una proposta di riduzione delle indennità dei parlamentari e di revisione dei vitalizi per ottenere un risparmio superiore a quello della ‘riforma’ in discussione, senza togliere rappresentanza né fare pasticci sulla Costituzione. Una riduzione e una riformulazione degli emolumenti che avrebbe ricadute anche sugli ‘stipendi’ dei consiglieri regionali.

Un lavoro iniziato tre anni fa, documentato dalle nostre proposte in Parlamento, purtroppo disatteso in un dibattito povero e orientato solo dalla volontà del governo, che ha imposto soluzioni contraddittorie, manchevoli, fuori bersaglio. A riprova che la ‘riforma’ è una grande occasione mancata, sotto ogni punto di vista.

documento-partecipazione

«Queste due Camere rigurgitano di inquisiti, nocivi e ricattabili, questo è il problema»: Erri De Luca sul referendum

(intervista a Erri De Luca di Giacomo Russo Spena, fonte)

Dopo istigatore alla violenza e cattivo maestro, adesso verrà definito anche un parruccone o, addirittura, “conservatore” perché, secondo lui, è un grave errore toccare la  nostra Costituzione. Erri De Luca – scrittore, poeta impegnato e uomo di cultura – prende posizione sul referendum costituzionale del 4 dicembre dove si recherà al seggio per esprimere il suo NO, un voto principalmente contro Renzi, reo di aver personalizzato la partita. Non ha competenze specifiche in materia, lo ammette lui stesso, ma è sicuro che questa classe dirigente – con la corruzione ormai diffusa nelle istituzioni – non sia legittimata e idonea a revisionare la Carta: “Considero la Costituzione italiana l’equivalente laico di un testo sacro, perciò intoccabile”, ci dice.

De Luca, che idea si è fatto della discussione sul referendum costituzionale? 

Il dibattito è tra sordi, come si conviene al nostro Paese. Per me resta più un referendum sul governo e meno sulla materia costituzionale. È in corso un assaggio di campagna elettorale.

Saranno molti gli elettori che come Lei voteranno NO per le condizioni di disagio socio-economiche del Paese, senza entrare nel merito del quesito referendario? 

Assolutamente, del resto confermo il mio voto: il NO è un pronunciamento contro il governo in carica.

Voterà NO come Salvini e Brunetta. La imbarazza?

Se è per questo, mettiamoci pure D’Alema tra i votanti che sperano di trarre vantaggio politico dal NO. Io, invece, non ho nessun vantaggio da ottenere, solo la difesa di quel nobile pezzo di Carta.

Ma perché, mi scusi, boccia nettamente il governo Renzi tanto da far passare in secondo piano le ragioni della riforma costituzionale? 

Non lo boccio, ma spero in un Parlamento prossimo venturo meno compromesso. Insisto: a me interessa solo l’integrità della Costituzione.

“Se perdo il referendum me ne vado” aveva detto Renzi personalizzando, in una prima fase, il voto del 4 dicembre. Sarà veramente così?

Non è necessario, potrà  proseguire ma sarà certamente più debole.

Ha avuto modo di vedere il dibattito televisivo tra il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky e il premier Renzi? 

Sì e Zagrebelsky ha perso il confronto perché intimidito e di poca presa televisiva, almeno rispetto a Renzi.

Più in generale, secondo Zagrebelsky se vincesse il SÌ rischieremmo una deriva oligarchica. Non è un’esagerazione paventare svolte autoritarie?

Ogni ritocco alla Costituzione ne indebolisce l’intento democratico. Siccome è  la migliore possibile, al punto di essere continuamente disattesa, ogni ipotesi di riforma diventa restaurazione di un potere meno democratico. Pure da inapplicata, preferisco tenerla così, una via aperta verso il suo traguardo.

Non crede che la situazione italiana sia ben diversa da quella, ad esempio, turca e la nostra democrazia sia sostanzialmente più sana?

Al peggio non c’è fine e la democrazia turca si è suicidata consegnando la maggioranza al sultano Erdogan. La Turchia non c’entra nulla con i casi nostri, noi siamo malati di corruzione. È il guasto del nostro Paese, questa è la tirannia penetrata nelle fibre della società, che produce inerzia.

Per Salvatore Settis – che ha scritto una lettera all’ex presidente Giorgio Napolitano – questa riforma coincide in alcuni punti essenziali con la riforma Berlusconi-Bossi. Lei che ne pensa?

Non me ne intendo, non mi ricordo e non mi sono interessato di quella faccenda. Non chiamerei riforma alcuna legge che sia provenuta da quel duo.

In sostanza, lei manterrebbe in vita il bicameralismo paritario? Non crede che la “navetta” tra le due Camere rallenti l’iter legislativo e serva maggiore semplificazione?

L’iter legislativo sa essere molto spedito quando fa comodo – aumento di denaro ai parlamentari, per esempio – dunque non è un problema di bicameralismo. Queste due Camere rigurgitano di inquisiti, nocivi e ricattabili, questo è il problema.

Il Senato, secondo la riforma renziana, passa da 315 a 100 esponenti ma godranno dell’immunità parlamentare. Una giusta scelta garantista o così rischiamo un Parlamento pieno di indagati?

Voglio credere che il prossimo Parlamento sarà meno pieno di indagati di questo. Mentre, di principio, resto favorevole alla immunità di un parlamentare, tutela che può decadere per voto stesso del Parlamento in caso di incriminazione.

(6 ottobre 2016)

Referendum: ecco perché la riduzione dei costi è solo uno spot

(di Alfonso Celotto, professore di Diritto Costituzionale)

In questi giorni è iniziata una accattivante campagna d’informazione a favore del Sì al referendum costituzionale. Cartelloni nelle città, messaggi sugli autobus, post sui social network che proclamano:
“Vuoi ridurre i costi delle regioni?”
“Vuoi diminuire le poltrone delle politica?”
“Vuoi aumentare la partecipazione dei cittadini?”
“Vuoi maggiore autonomia per le regioni virtuose e un rilancio del sud?”
E così via….

Sono tutte domande a cui è difficile, forse impossibile, rispondere No. Peccato che queste appetibili promesse non siano in alcun modo legate alla riforma costituzionalesu cui saremo chiamati a votare il 4 dicembre. Infatti, andando al contenuto della riforma, ci si accorge agevolmente di come siano tutte informazioni parziali o ingannevoli:

La riforma costituzionale incide solo marginalmente sui costi delle regioni. Oggi le regioni si stima che costino 208 miliardi l’anno (dati Cgia di Mestre). La riforma, dal punto di vista dei costi, pone un tetto alle indennità dei consiglieri regionali. Ma si tratta di un risparmio davvero infinitesimale. Infatti non si toccano i costi dei Consigli regionali (che, si dice, costino circa 1 miliardo l’anno), ma si incide soltanto sulle indennità dei consiglieri, corrispondenti invece a 230.000 milioni nel complesso (dati lavoce.info). Ipotizziamo che la riforma dimezzi queste indennità: arriviamo a un risparmio di 115 milioni, che in percentuale sui 208 miliardi vale lo 0,00056 %. Davvero possiamo dire che riduciamo i costi delle regioni?

Prendiamo le poltrone della politica. Attualmente in Italia abbiamo 945 parlamentari, 15 ministri, 8 vice-ministri, 35 sottosegretari, 20 presidenti e 250 assessori regionali, circa 1.100 consiglieri regionali, 8.094 sindaci e all’incirca 120.000 consiglieri e 35.000 assessori comunali, oltre ai 65 membri del Cnel. Senza voler contare società miste e partecipate. La riforma elimina 215 senatori e i consiglieri Cnel, per un totale di 280 poltrone. Il totale delle attuali poltrone è di 165.524. Così, se ne eliminano 280, cioè lo 0,169 %. Un dato che non ha bisogno di commento.

Passiamo alla partecipazione dei cittadini. Attualmente gli istituti di democrazia diretta languono: la petizione è antistorica, l’iniziativa legislativa popolare ha prodotto leggi in una serie di casi che possono essere contati sulle dita di una sola mano; il referendum abrogativo da almeno 15 anni non riesce quasi mai a raggiungere il quorum di validità. Ora si pone un obbligo di esame parlamentare per i disegni di legge di iniziativa popolare; si rende flessibile il quorum dei referendum abrogativi e si rimanda a una futura legge la possibilità che vengano istituite nuove forme di consultazione referendaria. Bastano questi tre dettagli per ritenere che si sia aumentata la partecipazione dei cittadini, in un’epoca in cui ormai l’unica forma di partecipazione diretta che si può pensare passa attraverso un corretto uso degli strumenti elettronici e informatici?

La maggiore autonomia delle regioni virtuose e il rilancio del sud non hanno alcun appiglio concreto nella riforma. Da un lato, si modifica l’art.116 della Costrizione per consentire forme di autonomia speciale ad alcune regioni che ne faranno richiesta. Peccato che già nel 2001 era stata prevista tale possibilità e che nessuna regione ne abbia mai fatto fino ad ora uso. Quanto al sud, non c’è alcuna previsione specifica nel nuovo testo costituzionale. E non pare certo che sia sufficiente il nuovo riparto di competenze fra Stato e regioni per affrontare davvero (non diciamo risolvere) la annosa questione meridionale.

Potremmo non fermarci qui. E ricordare le promesse di Confindustria su posti di lavoro e punti del Pil che nasceranno magicamente a seguito di una riforma che nulla prevede nel settore economico e che, a ben vedere, semplifica davvero poco.

Ma comunque noi siamo degli inguaribili ottimisti. E ci piace pensare che nelle prossime settimane ci verrà detto che se voteremo Si vivremo tutti felici e contenti. Come nelle belle favole che tanto piacciono ai bambini. Peccato che nella riforma costituzionale Renzi-Boschi non ci sia neppure un accenno al “pursuit of Happiness” che invece venne richiamato nella dichiarazione di indipendenza Usa del 4 luglio 1776.

(fonte)

Cinque osservazioni sulla riforma costituzionale

Con una lettera a Internazionale alcuni costituzionalisti puntualizzano la ricostruzione della propaganda del sì. Vale la pena leggerla:

Gentile redazione,

da assidui e attenti lettori della vostra rivista ci preme segnalarvi che la ricostruzione in cinque punti della proposta di riforma costituzionale apparsa sul sito di Internazionale il 26 settembre 2016 ci è sembrata lacunosa in merito ad alcuni aspetti, a nostro avviso particolarmente critici, del testo di legge su cui il 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci attraverso il voto referendario.

  1. In generale si trascura di specificare che gli articoli modificati dalla riforma Boschi sono 47, più di un terzo della carta. Dal 1948 a oggi i cambiamenti apportati alla costituzione nel corso degli anni sono stati molto più contenuti, e spesso hanno modificato uno o pochissimi articoli. Per avere un termine di paragone, ricordiamo che la riforma più invasiva che ha riguardato il testo costituzionale, l’infausta modifica del titolo V, ha toccato 17 articoli. Inoltre il parlamento che ha messo mano a una tale riforma è stato eletto con una legge giudicata incostituzionale dalla corte costituzionale (sentenza n. 1 del 2014), la quale ha evidenziato che il legame tra corpo elettorale ed eletto si è alterato profondamente e che un parlamento così slegato dai cittadini avrebbe potuto rimanere in carica solo in virtù del principio della continuità dello stato. Ora, per quanto si voglia dilatare quest’ultimo è davvero arduo farvi rientrare nientemeno che la modifica di quasi un terzo della costituzione.
  2. Al primo punto della ricostruzione si omette che questo nuovo senato (non elettivo e a composizione variabile a seconda della durata dell’incarico dei sindaci e dei consiglieri regionali che ricoprirebbero d’ora in poi la carica di senatori) dovrebbe votare paritariamente insieme alla camera per numerosi tipi di leggi (articolo 70) tra cui quelle costituzionali, quelle che determinano le funzioni fondamentali dei comuni e delle città metropolitane, e che inoltre il nuovo senato eserciterà la sua funzione su ciò che concerne la materia europea (articoli 55 e 80), che riguardano molteplici aspetti della vita di un paese membro.
  3. Ancora, si dimentica di segnalare che con la riforma Boschi il parlamento passerebbe da due possibili procedure legislative a un numero non ancora ben individuato di procedure alternative (secondo alcuni 7, secondo altri 9, secondo altri ancora 10 o 11). Anche questa incertezza sul numero di procedure è di per sé rivelatrice: gli stessi costituzionalisti, infatti, non sono in grado di elaborare un’interpretazione certa e unanime del nuovo testo costituzionale.
  4. Rispetto al titolo V si trascura di ricordare che la riforma in alcuni casi ripartisce in modo ambiguo le materie. Per quanto riguarda, per esempio, il patrimonio culturale (articolo 117) se da un lato la tutela e la valorizzazione sarebbero in capo allo stato, dall’altro la promozione spetterebbe alle regioni, con conseguenti conflitti di competenza davanti alla corte costituzionale onde definire l’incerto confine tra “valorizzazione” e “promozione”. Anche in materia di salute, il ritorno della competenza legislativa in capo allo stato – che tanto ha entusiasmato il mondo della sanità – riguarda solo le “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute”, mentre resta alle regioni la competenza in materia di “organizzazione dei servizi sanitari e sociali”, il vero punto debole del sistema da cui discende l’impossibilità di garantire a tutti un uguale diritto alla salute.
  5. Si dimentica di sottolineare che la nuova riforma darebbe al governo il potere (articolo 120) di commissariare gli enti locali per dissesto finanziario (potere che nel 2013 gli era stato negato dalla sentenza n. 219 della corte costituzionale), e quello di poter applicare la cosiddetta “clausola di supremazia” anche rispetto alle materie di competenza regionale (articolo 117). L’impressione generale è che la riforma abbia modificato l’equilibrio dei poteri senza ripensare a un bilanciamento adeguato.

In conclusione, dietro un’apparente semplificazione in nome della “governabilità” a noi sembra si celi il pericolo di un caos istituzionale in cui a restare al comando sia di fatto un solo potere: quello dell’esecutivo. Un rischio accresciuto dal legame tra l’Italicum e la riforma Boschi, che amplifica i suoi perniciosi effetti in termini di concentrazione del potere nel capo del governo e di indebolimento dell’autonomia delle istituzioni di garanzia. Ricordiamo, infine, che osservazioni molto simili a queste sono state mosse da un appello di 56 costituzionalisti (tra cui ben 11 presidenti emeriti della corte).

Da lettori di Internazionale, ci auguriamo che queste puntuali osservazioni trovino spazio nelle vostre pagine.

Salvatore Settis
Tomaso Montanari
Maurizio Viroli
Alessandro Pace
Gianni Ferrara
Gaetano Azzariti
Paolo Maddalena
Massimo Villone
Luigi Ferrajoli
Alberto Lucarelli
Enzo Di Salvatore
Geminello Preterossi

Anna Fava
Anna Falcone
Nicola Capone
Marica Di Pierri
Daniela Palma
Sandro Mezzadra
Luca Nivarra
Maurizio De Stefano
Mario Rusciano
Massimo Angrisano
Antonio Locoteca
Nicola Mandirola
Mirko Canevaro
Gabriella Argnani Viroli
Roberto Passini
Aldo Pappalepore
Giovanni Lamagna
Patrizia Gentilini
Giovanni Malatesta
Paola Lattaro
Paola Gargiulo
Nunzia Di Maria
Giovanna Ferrara
Vincenzo Benessere
Alessandra Caputi
Angelo Genovese
Antonio Locoteca
Wanda D’Alessio
Massimo Amodio
Raffaella Dellitto

 

Il populismo s’è fatto bullo

Tira una brutta aria nel campo del referendum costituzionale. Aria densa, che puzza di fritto e che s’appiccica addosso. Aria di propaganda che si fa lama là dove la distruzione dell’avversario è l’obiettivo nemmeno troppo simulato: fa niente se la Costituzione diventa la carta igienica per pulirsi la bava. Non è nemmeno banale populismo; sarebbe meglio forse. Invece qui siamo di fronte al circo delle pulci con l’animo da zecche. Derisioni, congetture spacciate per verità e un certo qualunquismo altezzoso di chi s’atteggia a snob e invece è solo stupido.

Oggi su Repubblica si legge la definizione “il teatrino del no”. “Il teatrino del no” consiste, secondo l’ennesimo illuminato editorialista, nel mettere insieme tutti quelli che sono contro la riforma senza rispettarne i ruoli, le storie e le sensibilità. È il comandamento di Renzi, del resto: “metteteli insieme tutti, fate vedere che stanno insieme alla destra” ha detto catechizzando i suoi. E fa niente se con la destra Reni ci ha governato per anni, si prepara a rivedere la legge elettorale e se con gli scarti della destra (Verdini docet) ha trovato una risicata maggioranza per imporre la riforma della Costituzione. Lui martella sul populismo (mentre dichiara di cercare i voti a destra, eh) e gli altri per eccesso di servilismo bullizzano senza averne contezza.

Ma no, non è nemmeno questo il punto. A questo portamento ormai stinto ci abbiamo fatto il callo. Il tema vero è che l’antipolitica così lungamente condannata per tentare di scalfire il M5S quand’era appena nato e in crescita (a proposito, ha funzionato un mondo, tra l’altro) oggi è l’asse portante della propaganda di governo. Come scrive anche Pippo qui, dei politici che maledicono i politici sono il monumento equestre all’idiozia che ormai s’è attorcigliata su se stessa. Pur di raschiare il fondo del barile ci si riduce a produrre cartelloni pubblicitari i cui si invoca un’Italia con meno politici con una campagna finanziata dagli stessi parlamentari del PD. Ve lo ricordate Totò Cuffaro quando da presidente della regione siciliana appese un po’ dappertutto i cartelloni con scritto “la mafia fa schifo”? Ecco, il sapore del conato è simile a quei tempi lì.

Di cosa c’è bisogno quindi per costruire consenso? Di instupidire il tutto per essere immediati e non dover dare spiegazioni. Quello che Berlusconi faceva con la magistratura, che Salvini fa con gli immigrati e che Trump sta facendo con i messicani qui da noi Renzi e la sua banda lo stanno facendo alla Costituzione. Tirate le somme.

Il fatto è che in campo per questa campagna ci sono tante brave e preparate persone. Tante, davvero. C’è un’Italia fortemente politica che vuole fare politica oltre che sentirsela dire: ci sono professori, costituzionalisti, giornalisti, imprenditori, studenti, ricercatori, insegnati, giovani e giovanissimi, anziani, casalinghe disoccupati. C’è tanto Paese. Tantissimo. Sia del sì che del no, intendiamoci. E mentre questi discutono con misura e impegno, mentre questi studiano i cannoni di governo fanno il deserto tutto intorno. Colpendo anche i loro, se fossero ancora capaci di accorgersene, se fossero ancora capaci di intendere un senso di comunità che non sia utilitaristico nell’immediato.

Che in fondo se lo scopo è davvero quello di “meno politica”, beh, cari Renzi e renzini, ci siete già riusciti senza nemmeno bisogno di togliere il diritto di voto per il Senato che avete in mente: dovrebbe essere un dibattito e invece è una fanfara. La politica, quella alta, è rimasta a casa, ha già spento tutto e chiuso le finestre.

Ma non è tutto male, credetemi: mentre questi giochicchiano a convincerci che destra e sinistra siano uguali noi continuiamo ad impegnarci ad essere seri. Convinti che anche il “come” insieme al “perché” sia politica nonostante questi si siano incagliati sul “per chi”. E prima o poi arriverà, come negli spettacoli troppo superficiali e troppo immaturi, la replica stanca con il patetico sforzo dell’orchestrina. E non riusciranno a cancellare le loro orribili orme. E nemmeno questo teatrino di editorialini.

Il partito del ni

(scritto per i quaderni di Possibile, qui)

Ieri Romano Prodi ha dichiarato che la la campagna referendaria è “una rissa più dura di quella del confronto tra Hillary Clinton e Donald Trump” aggiungendo che non prenderà posizione nemmeno “sotto tortura”. Di Bersani e Speranza, insieme alla cosiddetta “sinistra del PD”, ne leggiamo praticamente tutti i giorni: a loro la riforma così com’è non piace, dicono, forse voterebbero “no” al referendum ma non sanno dirci cosa voteranno, lasciando intendere che c’è spazio per una trattativa. Su cosa vorrebbero trattare in realtà si è capito ancora meno. Giuliano Pisapia, sempre messianico nelle interviste, si dilunga per dirci che non ci dice cosa voterà. Da altre parti, qui a sinistra, fuori dal PD ogni tanto si scorge qualche incertezza sulle posizioni del “no” dove incertezza in realtà è un eufemismo per non scrivere imbarazzo e un poco di viltà: le posizioni referendarie più disparate compaiono negli articoli di indiscrezioni parlamentari ma non vengono smentite. In compenso le leggono tutti.

Stessa cosa sull’ultima renziata del ponte sullo Stretto: evidentemente è bastata una notte per portare consiglio e oggi in molti si scoprono favorevoli a ciò che hanno sempre combattuto. Dicono che è di sinistra creare lavoro e verrebbe voglia di citare Loredana Lipperini e Giovanni Arduino che nel loro ultimo libro (Schiavi di un dio minore, UTET) scrivono che se “è di sinistra creare lavoro, non parlarne, dunque i faraoni erano di sinistra”. Ma, anche sulla questione del Ponte di Messina, a pesare sono i silenzi. Tanti, troppi e ormai tristemente preventivabili.

C’è in Italia, di questi tempi, il consolidamento del nuovo grande partito del “nì”. Una coalizione bipartisan che galleggia dentro e fuori il Parlamento e che coinvolgi intellettuali, uomini di spettacolo, ex girotondi e un pezzo di ex cittadinanza rumorosa attiva. Attenzione, non sono quelli che concordano con il governo e con le sue riforme: quelli tengono (più o meno coerentemente con la loro storia) una posizione politica e la esprimono. Questi invece, i professionisti del non prendere posizioneciondolano aspettando di vedere la piega che prenderà il Paese: lucrano sul tempo e sulle energie (degli altri) spacciando l’esitazione per saggezza. Intervengono ampollosi riuscendo a non dire nulla mentre si scrollano la responsabilità di stare in campo.

È obbligatorio prendere una posizione? No, certo che no. Ma è obbligatorio prendersene la responsabilità politica. Anche del non decidere, se necessario. E conviene ricordarsene, segnarsene i nomi perché in questo Paese in cui ritorna tutto (e soprattutto in cui resuscitano le pulsioni peggiori del berlusconismo) poi almeno non vorremmo prendere lezioni da maestri fannulloni. La prossima ramanzina dei santini della sinistra che è stata e che non decide almeno evitatecela. Almeno quella.

Noi intanto non cadiamo nella tentazione di inseguire il frastuono delle promesse e delle sparate. Continuiamo a essere seri e, possibilmente, ad essere abbastanza intelligenti da nutrire continuamente dubbi, anche ad alta voce. I chilometri che stiamo percorrendo in giro per l’Italia con il nostro Tour Ricostituente sono un patrimonio politico che abbiamo il dovere di investire. E rivendicare.

Proviamo a essere dappertutto. Casa per casa, nei paesi minuscoli come nei capoluoghi. Abbiamo costituzionalisti commessi viaggiatori che rendono potabile ciò che parrebbe difficile; compagni che allestiscono tavoli, dispiegano bandiere, sistemano l’acqua e distribuiscono volantini; seminiamo incontri e dibattiti con l’impegno di restare nel merito e ci confrontiamo con quelli che (quegli altri) non invitano. Il nostro Tour Ricostitutente, insieme all’attività parlamentare e alla polvere di costruire un movimento, sono risultati inimmaginabili fino a qualche mese fa. E, senza proclami, lo facciamo grazie ai nostri elettori e alle vostre donazioniPer questo vi invitiamo a sostenerci con una donazione o acquistando un nostro gadget.

Grazie a chi condivide con noi la sfida costituzionale.

A sinistra, se il NO fosse occasione d’unione?

Convergenza di obiettivi, ideali e motivazioni: se esistesse una formula matematica per condensare la politica forse si partirebbe da qui, dalla comunione d’intenti e di modi. C’è un fronte del NO che si assomiglia moltissimo: sono gli stessi ostinatamente sparsi che in questi ultimi anni sembra che abbiano avuto difficoltà anche solo per accordarsi per un aperitivo insieme, sono gli stessi che si sfilacciano spesso quando sarebbe il caso di fare fronte comune e sono gli stessi che ci promettono a cadenza regolare di ricostruire ciò che loro hanno demolito.

C’è sinistra, nel NO. Ci sono tutte le sinistre. E se è vero che hanno pensieri diversi sul rapporto con il potere è pur vero che hanno (se non mi sbaglio) un impianto comune nella valutazione negativa degli effetti di questa riforma costituzionale. Allora senza perdersi troppo sulla provocazione del “votate come i fascisti” come dicono i renziani (a proposito: potete tranquillamente rispondere che undici ex Presidenti della Corte Costituzionale sono contro la riforma) si potrebbe per una volta, se non costa troppa fatica, vedere il bicchiere mezzo pieno. Che non è sicuramente un banchetto ricco, per carità, ma è un punto reale e politico da cui ripartire.

(il mio buongiorno per Left continua qui)