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costituzione

Per chi vorrebbe convincerci che questa sia la stessa riforma dell’Ulivo

Andrea Pertici, professore di diritto costituzionale e punta di diamante della nostra squadra nel Tour RiCostituente, entra nel merito. Come piace a loro:

«L’argomento – rilanciato da Arturo Parisi in un’intervista a La Stampa – è ricorrente: questa riforma costituzionale sarebbe quella dell’Ulivo. Probabilmente il richiamo a questa positiva esperienza di centrosinistra – essenzialmente confinata nel biennio 1996-1998 (nonostante qualche successivo tentativo di rianimarla) – è dovuto al tentativo di alcuni esponenti del Partito democratico di convincere gli elettori “ulivisti” che quella è la loro riforma.

Ora, in realtà, il governo dell’Ulivo (cioè il primo governo Prodi) si tenne lontano dalle riforme costituzionali (non aveva neppure un ministro incaricato in materia), ma nel programma presentato dalla coalizione nel 1996, in effetti, la tesi n. 4 se ne occupava (brevemente). A scanso di ogni equivoco, vale la pena riportare letteralmente questa parte alla quale i sostenitori del parallelo con l’attuale riforma si attaccano con tanta enfasi.

Tesi n. 4

Una Camera delle Regioni

La realizzazione di un sistema di ispirazione federale richiede un cambiamento della struttura del Parlamento.

Il Senato dovrà essere trasformato in una Camera delle Regioni, composta da esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche locali e possano quindi esprimere il punto di vista e le esigenze della regione di provenienza.

Il numero dei Senatori (che devono essere e restare esponenti delle istituzioni regionali) dipenderà dalla popolazione delle Regioni stesse, con correttivi idonei a garantire le Regioni più piccole.

Le delibere della Camera delle Regioni saranno prese non con la sola maggioranza dei votanti, ma anche con la maggioranza delle Regioni rappresentate.

I poteri della Camera delle Regioni saranno diversi da quelli dell’attuale Senato, che oggi semplicemente duplica quelli della Camera dei Deputati. Alla Camera dei Deputati sarà riservato il voto di fiducia al Governo. Il potere legislativo verrà esercitato dalla Camera delle Regioni per la deliberazione delle sole leggi che interessano le Regioni, oltre alle leggi costituzionali.

Ora, salva la qualificazione del «Senato della Repubblica» (questo rimane il nome) come «rappresentativo delle istituzioni territoriali», su ognuno dei punti di merito, la riforma costituzionale del 2016 risulta distante da quella prefigurata sinteticamente nel programma dell’Ulivo. Vediamo perché andando per punti:»

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Renzi, Boschi e le cretinate sul referendum

Maria Elena Boschi, sempre peggio. Ieri ha dichiarato che chi voterà no al prossimo referendum sulla riforma della costituzione (che porta il suo stesso nome) “non ha rispetto per il Parlamento”. Si sono rizzate le orecchie di (quasi) tutti, “ma davvero ha potuto fare un’affermazione del genere?“ si sono chiesti i presenti e lei ha puntualizzato: si riferiva, ha spiegato, al lavoro fatto in Parlamento per approvare questa riforma e al lavoro che si dovrebbe fare di nuovo nel caso in cui passasse il no al referendum. In pratica il disaccordo è un ostacolo alla democrazia secondo la ministra e il Parlamento è la salvietta umidificata della banda di paninari che governa questo bistrattato Paese.

Lui, Matteo, è andato alla Festa dell’Unità, che se ci pensate quest’anno suona ancora più grottesca del solito la parola “unità” applicata a un partito che è composto dalla banda di servetti e poi un rivolo di mille bande blande. Poi Renzi, al solito coerente solo con l’amore per se stesso, ha dichiarato di avere sbagliato a personalizzare troppo il referendum fingendo di dimenticare di essere incapace di interpretare in qualsiasi altro modo la politica. E cosa si è inventato il fantasioso Matteo per spersonalizzare? L’ha affiliato a una altro. Giuro. Il mandante di questa pessima riforma (non l’ha detto così ma il sottotesto è questo) sarebbe Giorgio Napolitano. Napolitano, il Presidente: quello che avrebbe dovuto essere una garanzia e invece è stato uno sfacelo. Il comunista più destrorso del west. Prima di avere la sventura dell’arrivo di Renzi, ovviamente.

Quindi la geniale operazione simpatia del PD prevede di affibbiare la riforma Boschi non più a Renzi ma direttamente a Napolitano. Senza personalizzare, eh. Solo un po’ di cognomizzazione, al massimo.

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Quelli del PD che sono contro le riforme che hanno votato

Bello, tutto bene, per carità. Ma chissà che ne dicono Civati, Mineo, Fassina o D’Attorre che dal PD si sono presi la briga di uscire quando sarebbe bastato restarci per fare la minoranza nella sua nuova versione: contro se stessa. Sì perché Tocci è entusiasta di comunicarci che è riuscito a racimolare una decina di parlamentari che voteranno contro la riforma Boschi al prossimo referendum sulla costituzione.

«Mi fa molto piacere pubblicare qui il documento sottoscritto in tal senso da dieci parlamentari democratici: Corsini, Dirindin, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ricchiuti, Tocci, al Senato; Bossa, Capodicasa, Monaco alla Camera.», scrive Tocci sul suo sito esultando per la sua sporca decina di dissidenti. Bello, tutto bene, per carità, ma nel voto finale di quella mostruosa riforma solo Tocci aveva votato contro. Solo lui. E, a ben vedere, Corradino Mineo che per coerenza se n’è andato. Il resto sono smemorati, convertiti, illuminati, distratti, improvvisamente coraggiosi, fulminati o semplicemente (banali) strateghi.

Il voto in Parlamento ormai è considerato un incidente di percorso: gente che ci tritura per votare l’Italiacum e poi ci dice che non va mica bene; gente che vota la fiducia zerbina al premier per poi dimettersi dalla vigilanza Rai; antirenziani che diventano renziani e oggi di nuovo antrenziani; pentiti di essersi pentiti di non essersi pentiti di asservirsi a Renzi. Opposizione al cubo: un’opposizione che si oppone a se stessa.

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La riforma costituzionale? Il convento dei piccoli potenti.

Salvo Ognibene fiancheggia il nostro Tour RiCostituente con uno scritto che vale la pena leggere:

«Referendum costituzionale, che cosa ci aspetta? Non è un segreto che il presidente del Consiglio e segretario del Partito Democratico abbia deciso di personalizzare un referendum che di privato non ha nulla e che ci riguarda tutti. Anche quelli che voteranno per la prima volta solo tra qualche anno. Ora, lasciando stare da parte propagande e populismi e soffermandoci sul testo della riforma costituzionale “Renzi-Boschi” è innegabile notare quante differenze sono presenti tra l’attuale e il nuovo testo proposto.

Gli inciuci, che non sono iniziati certo ieri, potrebbero aumentare in caso di vittoria del SI a differenza del pensiero del presidente del Consiglio che dice: “se vince il No, sarà il paradiso terrestre degli inciuci”. Rimane la paura di sapere che molte materie potrebbero diventare di potestà statale e tolte alle regioni e ai comuni contrariamente a quanto stabilito in un passato non troppo lontano. La paura di trovarsi dei consiglieri regionali che per sfuggire a qualche processo si vadano a rintanare nel Senato e godere di quella immunità parlamentare tanto abusata. E anche sulla legge elettorale c’è molto da preoccuparsi, in un modo o nell’altro. Per non parlare di quella scelta di evitare le preferenze per eleggere i nuovi parlamentari, con le conseguenze che ne comporta.

Un Senato che in caso di vittoria del SI passerà dai 315 ai 95 seggi di cui 74 riempiti dai consiglieri regionali, 21 dai Sindaci e 5 nominati dal Presidente della Repubblica per 7 anni. Un mandato, quello da espletare a Palazzo Madama, che coinciderebbe con quello degli organi delle istituzioni territoriali dai quali i futuri senatori sono stati eletti. Un doppio mandato, insomma. E se questi devono partecipare alle sedute dell’assemblea e ai lavori delle commissioni come faranno a stare sul territorio? E i Sindaci? Ancora peggio. Un Senato che eliminerà il voto dei cittadini e che, svilito del suo ruolo, potrà essere utilizzato come un rifugio per i referenti politici delle mafie, quando, ovviamente, non verranno inseriti nelle liste per la Camera designate dai partiti.»

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Perché votare No (secondo un iscritto al PD)

Marco Cucchini lavora presso le Università degli Studi di Trieste e di Udine, insegnando Scienze Giuridiche ed è un iscritto al PD. Ecco il suo intervento:

“Per la prima volta mi presento con un intervento scritto, ma quanto devo dire mi è fonte di particolare sofferenza, dato che – in oltre 20 anni di militanza – sempre forte è stato in me il richiamo all’unità del partito, alla lealtà verso le nostre scelte, così come la voglia di far prevalere le ragioni del sentirmi parte, dello stare insieme, anche quando l’istinto o la pulsione del momento avrebbero indotto scelte diverse.

Ci è chiesto impegno in vista del referendum d’autunno e io impegno lo sto garantendo, ma a malincuore a favore del NO e ne spiego in estrema sintesi le ragioni. Non mi soffermerò su aspetti di natura giuridica, per questi rimando al documento firmato – tra gli altri – da ben 11 ex presidenti di Corte Costituzionale. Preferisco in questi pochi minuti sottolineare le ragioni essenzialmente politiche, interne ed esterne al partito.

Innanzitutto, perché sento i valori della Costituzione come prevalenti sulle strategie di un partito o sul bisogno di sopravvivenza di una classe dirigente, ma soprattutto perché i contenuti di questa riforma non sono mai stati discussi con la cittadinanza o tra noi… Non erano previsti nel programma elettorale 2013 e neppure nella scarna mozione congressuale di Matteo Renzi. Una riforma uscita dal cilindro che avrebbe potuto comunque diventare patrimonio unitario se solo si fosse voluto sanare il gap di democraticità, partendo da noi e rafforzando la condivisione dei contenuti e dei fini attraverso il ricorso a forme di consultazione tra gli iscritti – come pure previsto dallo Statuto – ma non si è mai, neppure in minima parte, ritenuto di attenuare la verticalità dell’intero processo. Lo stesso vale per il contesto regionale. La Costituzione viene cambiata anche in parti che potrebbero alterare la nostra autonomia eppure neanche una volta in 2 anni, la Direzione o l’Assemblea sono state chiamate per esprimere un parere o dare una qualche indicazione ai nostri parlamentari.

E dunque, per quale altra ragione che non sia il mero spirito di fazione dovrei sentire “mia” una riforma della quale non condivido il percorso, lo spirito, le finalità e nella quale – come cittadino e iscritto al partito – non sono mai stato coinvolto in nessun momento?

Conosco perfettamente tutta la retorica del SI – o del SignorSI – sull’ineluttabilità della riforma, sul contesto, sui rischi della non approvazione e tutto il corollario allarmistico e strumentale messo in piedi – spesso con caotici taglia-incolla di citazioni di statisti morti, mancando la fantasia per crearne di nuove – ma non riesco a convincermi… Bisognava fare di più per ascoltare le voci del dissenso nella nostra comunità e per quanto possibile farsene carico. Molti di noi – io per primo – non chiedevano di meglio che un gancio, anche piccolo per dire SI e riconciliare coscienza e appartenenza. Non lo si è voluto fare, si è preferita l’ostentazione muscolare e ora se ne paghi il prezzo.

Ma sono contrario alla riforma anche per profonde ragioni politiche. Innanzi tutto, l’idea di democrazia. Se leggiamo il testo emerge infatti che:

(1) il Senato non sarà più eletto dai cittadini ma nominato dai partiti nei consigli regionali; (2) il monopolio dell’indirizzo politico apparterrà a una Camera eletta con legge fortemente distorsiva del rapporto voti espressi/seggi ottenuti; (3) le firme necessarie per presentare una proposta di legge di iniziativa popolare vengono triplicate; (4) dal 7° scrutinio il presidente della Repubblica potrà essere eletto da una minoranza dei membri del Parlamento; (5) viene abolito il CNEL che – per quanto inadeguato – rappresentava il principio di un maggiore coinvolgimento dei corpi intermedi nelle scelte di carattere economico; (6) vengono abolite le Province, organo a legittimazione popolare diretta presenti nel nostro ordinamento dal 1848; (7) vengono ridotte le materie di competenza legislativa regionale in favore del centralismo statale; (8) le materie residue possono essere sottratte alle regioni su richiesta del governo e voto favorevole della Camera dei Deputati, senza neppure un parere dell’effimero Senato delle Regioni.

Nulla di questo, preso singolarmente, è totalmente errato. Ma lo è l’impianto complessivo, la lettura “ideologica” che emerge: ogni volta che ci si è trovati al bivio tra valorizzazione del pluralismo e della partecipazione da un lato e il rafforzamento del decisionismo verticistico dall’altro, si è scelta questa seconda strada. La visione politica che si cela dietro la riforma è claustrofobica. Si sostituisce un modello di democrazia certo più lento, più complicato, ma più plurale, legato alla partecipazione e alla vitalità dei corpi intermedi con un’altra idea, meramente elettorale, più scarna, poco esigente.

La sovranità continua ad appartenere al popolo, ma è esercitata una sola volta ogni cinque anni per eleggere un Capo. E’ la resa culturale e politica a una idea di società tutta verticista, a un tempo pigra e elitaria. Si finge di essere moderni, ma è solo un ritorno alle prassi del liberalismo censitario dell’800.

La seconda ragione politica del mio NO nasce dalla consapevolezza che le Costituzioni non sono solo testi giuridici, ma “patti politici” tra diversi e solo se altamente consensuali sono pienamente vitali sul lungo periodo. Da almeno 15 anni – invece – ogni maggioranza politica ha imposto la propria idea di Costituzione. Nel 2001 fu il Centrosinistra a approvare con ristretto margine la riforma del Titolo V che oggi si vuole smontare. Nel 2006 fu il Centrodestra e grazie alla saggezza del popolo italiano quella riforma fu bocciata. Oggi siamo noi, che presentiamo agli elettori non un testo nobile e condiviso, ma un pasticcio approvato a furia di trucchi procedurali, risse e ricatti, in un clima in cui tutti – governo e opposizione – hanno dato il peggio di sé.

Il testo che si vuole approvare non sarà vitale perché non è condiviso. E spero che il referendum fallisca perché con esso – forse – fallirà definitivamente l’idea che la Costituzione sia solo una delle tante leggi a disposizione del leaderino di turno. Così come la scuola e l’università, stravolte a ogni giro di valzer ministeriale; le norme sul lavoro, cambiate da cima a fondo almeno 4 volte in 20 anni; il sistema pensionistico, costantemente sotto stress dai tempi del governo Dini… Un continuo riformismo nevrotico, senza implementazione, valutazione, stabilità, continuità.

E risparmiamo la cantilena de “la I Parte non è toccata”. Sarà toccata domani, quando chi governerà saprà di non essere più il Custode, ma un padrone e la Costituzione avrà perso ogni parvenza di sacralità. E quindi, davvero al Paese serve una Costituzione – per citare il presidente Scalfaro – “costantemente tenuta in bilico sul cestino della carta straccia”?

Chiudo sottolineando come la mia contrarietà nasca anche da questioni interne alla nostra comunità. Dietro la riforma c’è infatti – rivendicata varie volte – la volontà di far nascere un nuovo partito, più in linea con il pensiero dominante. Un partito privo di legami non solo ideologici, ma ideali con le grandi tradizioni culturali e politiche novecentesche che hanno dato vita al PD. Un partito di Vassalli, Valvassori e Valvassini.

In quel partito non può esserci spazio per gli spiriti liberi come me. E – per quanto io non sia particolarmente intelligente – lo sono abbastanza da non giocare a fare il capretto (o il caprone) che bussa alla porta del cuoco per ricordargli che Pasqua sta arrivando…”

Marckuck, 14 Luglio 2016

(*) Marco Cucchini lavora presso le Università degli Studi di Trieste e di Udine, insegnando Scienze Giuridiche.

Per fare l’albero ci vuole un fiore. Con il referendum la riforma.

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Ma dai, ma davvero? Quando l’ho visto ammetto di avere pensato ad uno scherzo e non tanto per il messaggio in sé (arrivano sms di qualsiasi tipo da qualsiasi azienda, non scandalizziamoci per così poco) ma soprattutto per la forma. Perché le parole contano. Le parole sono importanti e, come diceva spesso una delle mie direttrici preferite, chi scrive male pensa male. Non c’è che dire.

Così quando ho letto il messaggio che il Partito Democratico ha inviato a molti italiani (a proposito: costa poco, un’interrogazione scritta, per sapere in base a quale iscrizione e con quali autorizzazioni) mi sono soffermato sulla prosa. Soffermato, inchiodato. Gelato forse. Sì Meglio.

«Per fare la riforma ci vuole il referendum, per fare il referendum la tua firma conta. Se non l’hai ancora fatto, puoi andare nel tuo comune e firmare il modulo blu del comitato Basta un sì. Lorenzo Guerini.»

Secondo Lorenzo Guerini (o chi per lui, e se si tratta di un ghost writer mio dio licenziatelo in fretta) dalla nostra firma dipende la riforma Boschi. Altro che democrazia diretta; qui di direttissimo c’è un messaggio che arriva come una spada di Damocle. Già si immaginano le scenette famigliari: “amore scappo in comune perché sto facendo saltare la riforma costituzionale!”, oppure un “mi scusi per il ritardo ma avevo un fine settimana al mare in famiglia e non pensavo di rallentare le riforme”. E fa niente se in fondo il referendum si farà comunque al di là delle firme raccolte (che come scrive Guerini “contano” nel senso che sono un euro l’una per ogni voto poi preso come ricco montepremi elettorale), l’importante è entrare nella testa. Rimanere in mento. Essere un motivato che si ricorda facilmente.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

La riforma costituzionale? Insensata. Parla la costituzionalista Fernanda Contri.

Fernanda Contri (Ivrea, 21 agosto 1935) è giurista, magistrato e costituzionalista. È stata membro del Consiglio Superiore della Magistratura di nomina parlamentare, Ministro per gli affari sociali nel governo Ciampi e giudice della Corte costituzionale della Repubblica italiana su nomina del Presidente Oscar Luigi Scalfaro. Fu amica di Giovanni Falcone, che conobbe durante un convegno nel 1983. Nel 2013 si fece il suo nome per il rinnovo della Presidenza della Repubblica. Fernanda Contri, come ci sottolinea con passione e orgoglio, è vedova dell’avv. Giorgio Bruzzone, Partigiano nella 107 Brigata Garibaldi.

«Ai tempi della Costituente, nello scenario di un Paese devastato dalla guerra, si lavorò per consegnare agli italiani la Costituzione anche con accesi dibattiti, ma in modo unitario. Il governo si guardò bene dall’interferire, e si raggiunse un compromesso di altissimo livello con l’accordo della stragrande maggioranza dei Costituenti, eletti col metodo proporzionale. Oggi, nello scenario di un Paese devastato dalla crisi, si modifica la Costituzione in più di 45 articoli su proposta del Governo che di tale riforma fa la sua bandiera, in un clima di scontro pesantissimo fra maggioranza e opposizioni, in un Parlamento eletto in base a una legge dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Come spiega queste radicali differenze di metodo e di stile?

Credo che alle radici della differenza, così evidente, ci sia la storia, la sofferenza, la sensibilità, il senso civico dei costituenti del 1946. Essi avevano sofferto la dittatura, la mancanza della libertà e soprusi di ogni genere.

Con la Resistenza gli italiani avevano finalmente smesso l’abito del suddito e, anche attraverso la scelta repubblicana, avevano riconquistato la piena libertà di cittadini. I Costituenti hanno scritto regole valide per tutti, proprio per tutti, all’insegna di un principio: “Perché non succeda mai più”. Le hanno ideate e approvate 70 anni fa anche per noi che viviamo in pace nel 2000 e per i nostri figli e per i figli dei figli e per i loro nipoti. Perché le massime regole, tutte, sono state pensate per evitare in via definitiva che la dittatura si riproponesse, che il fascismo si ripresentasse.

Una delle preoccupazioni dominanti nei Costituenti fu quella di varare una Costituzione che fosse una barriera contro il ritorno del fascismo sotto qualsiasi forma e contro il pericolo di una nuova guerra. Alcuni sostengono che è opportuno modificare la Costituzione anche perché tali rischi sarebbero tramontati.

Purtroppo il rischio non è per niente tramontato; basta pensare a quel che succede in Austria, in Francia, negli Stati Uniti e a tanti orribili segni di razzismo così presenti nel nostro Paese, per non parlare della dilagante paura che si trasforma in aggressione.

Non dobbiamo dimenticare che su 550 Costituenti solo una sessantina furono di diverso avviso. Le riforme, sopra tutto le più importanti e radicali, devono essere condivise e votate dal maggior numero possibile degli aventi diritto. Mi viene da ricordare il non felice esito delle modifiche apportate al titolo V nel 2001 approvate con esile maggioranza: gli errori non dovrebbero essere ripetuti. Nella Costituente è sempre prevalsa la continua ricerca del maggior consenso possibile; nessuna norma è stata scritta per favorire in futuro un raggruppamento politico piuttosto che un altro; mai il Governo dell’epoca ha fatto pesare la sua “forza”.

Non si dimentichi che i membri della Costituente sono stati investiti di un preciso compito attraverso elezioni finalmente democratiche, mentre le proposte di modifica vengono da un parlamento eletto in base ad una legge incostituzionale, rimasto in vita solo per il principio della necessaria continuità.

La riforma costituzionale, abbinata alla nuova legge elettorale – l’Italicum – consegna al partito più votato (per ipotesi, dopo il primo turno in cui nessuno raggiunge il 40%, vince un partito al 29%) il 54% dei parlamentari della Camera, conferendo di fatto a tale partito e al suo leader un potere smisurato alla luce della riduzione dei poteri del Senato e del numero dei suoi membri. Sembra che non siano stati studiati gli opportuni contrappesi e sia stata sottovalutata la questione della divisione dei poteri.

Direi di più. Essendo ritenuti fastidiosi gli opportuni contrappesi (studiati a quel nobile scopo) e con disprezzo della tripartizione dei poteri, si vuole facilitare l’accesso al comando con buona pace del popolo sempre meno sovrano! Mi trovo d’accordo con chi si esprime in favore di una piena garanzia, piuttosto che di una pretesa efficienza.

Elezioni-in-Albania-l-incognita-dell-astensionismoAssistiamo da tempo – in particolare dall’inizio degli anni 90 – ad un apparentemente inarrestabile aumento della disaffezione al voto, che indica un profondo scollamento fra elettori ed eletti. Secondo lei la riforma consentirà presumibilmente un’inversione di tendenza o c’è il rischio addirittura di un aumento dell’area dell’astensione?

L’inarrestabile aumento della disaffezione non verrà certamente fermato dalla riforma appena votata, né dalle proposte modalità di consultazione, che potrebbero allontanare ancora altri elettori. Un’inversione di tendenza potrebbe derivare dall’impegno di tutti – e sopra tutto dall’impegno di chi ha responsabilità – all’osservanza scrupolosa di un articolo della nostra Costituzione: l’art 54 tanto vistosamente e ripetutamente dimenticato e violato (ndr: art. 54: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”).

Ho sempre pensato che la Carta scritta col sangue dei Partigiani dovesse essere prima di tutto attuata nell’interesse di tutti gli italiani. Non dimentico mai che la Costituzione voluta dal popolo italiano non è l’ombra di un passato, né un rifugio nostalgico: è il nostro patto sociale nato nel confronto più ampio, il disegno futuro della nostra società liberata dal fascismo, da custodire libera. Come sovente ha ricordato il Presidente Ciampi, la Costituzione non è una legge come tante, ma essendo identificazione di storie e memorie sacre, è il nostro breviario laico. Da considerare con il massimo rispetto e da non asservire a scopi di parte.»

Referendum: la Rai dedica 7 ore al Sì e 1 minuto al No. Non è uno scherzo.

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Ne ha scritto Marco Palombi:

Sette ore contro un minuto e 19 secondi contando tutti i programmi gestiti dai telegiornali Rai (Tg1, Tg2, Tg3 e Rainews) nei 47 giorni che corrono dal 20 aprile al 6 giugno scorso. Le sette ore sono quelle in cui Matteo Renziha parlato del referendum costituzionale di ottobre o è stata riportata la sua posizione sul tema, mentre il minuto e 19 secondi è il tempo che la tv pubblica ha dedicato per lo stesso motivo ad Alessandro Pace, uno dei più importanti costituzionalisti italiani e presidente del Comitato per il No.

Questi due dati sono contenuti nelle tabelle (grezze) su cui l’Autorità per le comunicazioni (Agcom) effettua poi le sue rilevazioni e danno l’idea dell’aria che tira nella tv di Stato rispetto alla “madre di tutte le sfide”, come la chiama il premier, ovvero il voto che tra qualche mese gli italianisaranno chiamati a dare sulla riforma Boschi. I dati, come detto, sono grezzi: riguardano solo il minutaggio riferito al referendum costituzionale. In gergo viene rilevato il “tempo di parola” (quello in cui il soggetto parla) e il “tempo di notizia” (quello in cui si parla di ciò che ha detto o fatto il soggetto): la somma dei due è il cosiddetto “tempo di antenna”, quello che Renzi ha avuto per 7 ore e Pace per 79 secondi.

Martedì le opposizioni avevano chiesto un’audizione del direttore generale Rai, Alessandro Campo Dall’Orto, per chiedergli conto dell’occupazione di governo e sostenitori del Sì delle reti Rai (con annesso bavaglio al No); ieri le tabelle dell’Agcom – che Il Fatto ha potuto visionare – hanno dimostrato che non si trattava di un vaneggiamento. Ovviamente, i dati sono grezzi: il tempo di notizia, in particolare, andrebbe analizzato secondo criteri oggettivi, ma la “preferenza” accordata al Sì è patente. Restando al tempo di antenna, oltre alle 7 ore di Renzi, va segnalata l’ora e 25 minuti appannaggio di Maria Elena Boschi e i 36 minuti di Giorgio Napolitano.

Il costituzionalista Pace, come detto, ha avuto un minuto e 19 secondi, mentre il capofila del fronte del No (finché non cambia idea) è Silvio Berlusconi con 55 minuti di presenza in Rai, più del doppio dei venti minuti di Luigi Di Maio del direttorio 5 Stelle, a sua volta imparagonabilmente più seguito dell’ex vicepresidente della Consulta Valerio Onida.

Più affidabili, quanto a significato politico ed editoriale, sono i dati del “tempo di parola”, cioè quanto effettivamente i vari protagonisti hanno parlato del referendum. La classifica per il periodo 20 aprile-6 giugno è questa: primo Renzi con 1 ora e 40 minuti; segue Boschi con 33 minuti; poi Berlusconi con 27 minuti, Napolitano con 19 e Gianni Cuperlo(minoranza Pd, schierato per il Sì) con 16 minuti, Di Maio con 13, Brunetta con 10. Il primo “tecnico”, per così dire, è Onida (7 minuti e 50 secondi). Carlo Smuraglia, partigiano e presidente dell’Anpi, più volte insolentito dalla ministra Boschi, ha avuto tre minuti e mezzo per replicare.

Il conteggio supera di parecchio i cento nomi e sigle, fino alle minuzie tipo i 18 secondi a testa strappati dai renziani Alessia Rotta e Ernesto Carbone o i 13 della grillina Carla Ruocco. Le tabelle dell’Agcom, però, forniscono pure l’interessante dato percentuale del “tempo di parola” nei programmi giornalistici della Rai. Qui il dominio del governo e dei sostenitori del Sì si fa più evidente del puro minutaggio: il solo presidente del Consiglio, infatti, ha accumulato il 26,3% di tutte le dichiarazioni in merito al referendum costituzionale nei 47 giorni presi in considerazione.

Tradotto: per oltre un minuto ogni quattro, se qualcuno stava parlando di referendum in Rai, si chiamava era Matteo Renzi. Buona seconda Maria Elena Boschi, che ha collezionato il 9% del tempo di parola nella tv di Stato. La trimurti delle riforme si completa con Giorgio Napolitano, quarto classificato, col 5% del microfono di viale Mazzini: i tre assieme fanno oltre il 40% del “tempo di parola” in Rai sulle riforme. Se si tiene conto di tutti i personaggi apertamente schierati per il Sì si arriva ail 54% del totale, a cui va aggiunto un 10% circa dedicato alle cariche istituzionali (Boldrini e Grasso) e alla sinistra Pd (schierata per il Sì, ma tiepidamente).

Il conto del No – in cui domina Forza Italia (Berlusconi ha il 7,3% del tempo di parola, Brunetta il 2,8%) – arriva al 33% contando però tutta una serie di mini-dichiarazioni di pochi secondi. I “professori” del No, cioè quelli che stanno raccogliendo le firme per chiedere il referendum, in questo calderone sono praticamente annullati: tutti insieme non arrivano al quarto d’ora. Se non è un bavaglio, gli somiglia.

(fonte)