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costituzione

Io non resto a guardare

522312_10150668285752756_1631376447_nAvremo modo di parlarne a lungo ma intanto vi scrivo per dirvi che non ho nessuna intenzione di restare fermo a guardare una riforma costituzionale che non mi trovo d’accordo per molti motivi (chi segue questo piccolo blog ne ha trovato traccia). Per questo nei prossimi mesi sarò in moto per un viaggio riCostituente su e giù per l’Italia. Lo faccio al fianco di Pippo Civati, per la stima e l’amicizia che ci lega, ma soprattutto con tutti quelli che vedono (l’ho scritto qui) la grande occasione di dibattito politico che ci offre questo referendum. E lo faccio perché chi mi conosce sa che sono di parte. Parteggio. Sono fatto così.

Intanto domani sarò a Napoli con Luigi De Magistris (l’evento qui) e lunedì a Milano con Civati e Basilio Rizzo (info qui) e Vittorio Angiolini, costituzionalista. Insomma, ci divertiamo. Tutti i miei appuntamenti li trovate qui.

 

Una palestra estiva? Il referendum.

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Ecco perché il referendum è un’occasione sana, gratuita e con risultati certi: perché se non si cade nella tentazione di farne una battaglia pro o contro Renzi (che è quello che Renzi vorrebbe) ci regala mesi per riflettere sui delicati equilibri che stanno tra la rappresentanza democratica e i meccanismi di governo; ci permette di discutere del peso reale dei poteri dell’esecutivo e del Parlamento; ci costringe a riflettere su un superamento del bicameralismo perfetto con la delicatezza però di chi vuole preservare i criteri democratici di selezione dei rappresentanti; ci propone l’occasione di una rilettura (o forse di una prima lettura, per molti) di una Costituzione che è figlia di un Paese in bilico tra mestieranti del consenso, imbonitori e appassionati costruttori di diritti; ripropone la bellezza di scorgere nelle leggi le opportunità per cui sono state pensate e scritte e soprattutto rischia di rendere terribilmente pop il tornare alla politica.

(il mio buongiorno per Left è qui)

Dice la Boschi che l’ANPI è come Casapound

Cioè, non ha detto proprio così ma se dovessimo fare lo stesso giochetto che ha usato lei contro “quelli di sinistra che votano no al referendum di ottobre” il risultato sarebbe questo. Perché le parole sono importanti e perché una frase come quella della ministra è sbagliata per almeno cinque motivi. Ne ho scritto per Fanpage:

È forse il primo, grossolano, errore di Maria Elena Boschi: preferendo il fare al dire la ministra ha cercato sempre di parlare il meno possibile, concentrandosi sul legare il proprio cognome ad una serie di riforme. A differenza di altri membri del governo la Boschi sembra avere imparato la lezione renziana: lasciare a Matteo la comunicazione e concentrarsi sulla sensazione di essere impegnati, al lavoro, in movimento. Per questo l’uscita di ieri della Boschi a Desenzano del Garda, tappa del tour che il PD ha voluto programmare per tutta Italia in previsione del referendum costituzionale di ottobre, è un errore marchiano: “Sappiamo – ha detto Boschi – che parte della sinistra non voterà le riforme costituzionali e si porranno sullo stesso piano di CasaPound e noi con CasaPound non votiamo“. Incassando un applauso (per altro imbarazzato) da parte dei tifosi presenti.

È un autogol, quello della Boschi, per diversi motivi ma soprattutto è la prima vera “caduta di stile” di una campagna che dimostra già ora mostra di tendere i nervi ai componenti del governo: quella che dovrebbe essere una discussione nel merito (“stare nel merito delle cose” è un altro dei comandamenti del gruppo di comunicazione vicino al premier che dall’inizio della legislatura sembra essersi perso per strada) si sposta, al solito, sulla delazione degli avversari che questa volta non sono solo più conservatori o gufi ma addirittura parafascisti.

(continua qui)

A proposito di referendum, Senato e demagogia

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Per chi volesse approfondire, dal Corriere, un passaggio dell’intervista a Ugo De Siervo, giudice costituzionale:

Il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, sostiene che il No è animato anche da voi professori «perfezionisti», incapaci di essere «d’accordo su come si sarebbe dovuta cambiare la Costituzione».
«Non siamo perfezionisti. Siamo realisti. E non possiamo farci prendere in giro da false promesse. Vari di noi sono stati giudici costituzionali abituati a valutare gli effetti, oggi non rappresentati all’opinione pubblica, derivanti dall’applicazione delle norme costituzionali».
Napolitano, sempre nell’intervista al «Corriere della Sera» di Aldo Cazzullo, sostiene che il No comporterebbe «la paralisi definitiva, la sepoltura della revisione della Costituzione». È così?
«Dal ‘48 a oggi la Costituzione è stata modificata 35 volte. Tutti i cambiamenti andati a buon fine erano leggeri, compatti, omogenei. Poi è arrivata la stagione degli interventi pesanti. Il Titolo V nel 2001, letteralmente disastroso nei suoi effetti, e la riforma proposta da Berlusconi nel 2005 poi bocciata al referendum. Due interventi fatti a maggioranza come questo proposto ora, eterogeneo, che modifica oltre 40 articoli della Costituzione».
È possibile uno spacchettamento del quesito referendario per separare i temi da sottoporre all’elettore?
«La materia non è disciplinata. L’articolo 138, che disegna il percorso della revisione costituzionale, funziona per le riforme medio piccole».
Cosa teme di più della riforma che cancella il Senato?
«Il caos che si cela dietro nove diversi procedimenti legislativi e il fatto che si riporta indietro, a prima degli anni 70, il livello di potestà legislativa delle Regioni».
Faccia un esempio di iter legislativo che finirà davanti alla Consulta.
«Mentre dobbiamo ancora chiarire bene a cosa servirà il nuovo Senato, la riforma prevede che la Camera si occupi di tutto tranne di quello che non è “espressamente” attribuito alla competenza dello Stato. Bene, tra le materie non disciplinate ci sono l’industria, l’agricoltura, l’artigianato, le miniere, la pesca. Cosa succederà se una Regione interverrà? Finirà che la Corte dovrà continuare a fare il vigile urbano».
Il premier Renzi farà la sua campagna sul contenimento dei costi della politica. Come farete a controbattere un tema così popolare?
«C’è molta demagogia sul punto. È vero che si risparmia in modo considerevole tagliando 200 senatori ma si poteva ottenere un risultato analogo decurtando del 10% l’indennità dei parlamentari. E poi bisogna spiegare agli italiani perché sono stati mantenuti i privilegi delle Regioni a statuto speciale. Restano spese enormi che potranno essere modificate solo con il consenso delle Regioni speciali interessate. Mentre le Regioni ordinarie sono ridotte a mega Province».

Che meraviglia il Comitato del Sì per il referendum, eh

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Ne scrive Marco su Il Fatto Quotidiano:

«No, dài, non si fa così. Con tutti i disoccupati che ci sono in giro, non si trova un costituzionalista indipendente degno di questo nome – a parte il trio delle meraviglie Boschi-Renzi-Verdini – disposto a intrupparsi nel fronte del Sì al referendum sulla schiforma. Figurarsi a presiederlo, dopo i cortesi rifiuti di Napolitano e Violante, che sarebbero per il Sì, ma senza esagerare. E così, se la squadra del No schiera 11 ex presidenti della Consulta e tutti i migliori cervelli del diritto costituzionale di ogni orientamento e colore, compresi alcuni ex “saggi” di Re Giorgio come Onida, quella del Sì è roba da partitella fra scapoli e ammogliati. Nel senso che tengono quasi tutti famiglia o hanno ottimi motivi non proprio giuridici per votare e far votare Sì.

L’ unico di cui si sia mai sentito parlare è Stefano Ceccanti, già deputato Pd, che ha incidentalmente vinto un bando indetto dalla Boschi per uno studio sull’ Italicum della Boschi: quindi Sì, perbacco. Salvatore Vassallo è un dirigente Pd, ex parlamentare Pd, nonché fondatore della prestigiosa Bodem, la rivista del Pd bolognese, dunque Sì. Marilisa D’ Amico era consigliere comunale a Milano, sempre nel Pd, che poi l’ ha nominata al Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa: pertanto Sì. Felice Giuffrè è marito di Ida Nicotra, nominata dalla Madia membro dell’ Anac: Sì tutta la vita. Massimo Rubechi è il consulente giuridico della Boschi per le riforme costituzionali alla modica cifra di 49 mila euro l’ anno: ergo Sì. Carlo Fusaro era il prof di Diritto costituzionale della Boschi a Firenze, quindi Sì.
Giulio Vigevani è consigliere del sottosegretario Lotti e membro della commissione Lotti per la legge sull’ editoria: e allora Sì.

Problema: se dall’ altra parte ci sono Zagrebelsky, Rodotà, Carlassare, Pace, Onida, De Siervo, Flick, Gallo, Chieppa, Bile, Amirante e chi più ne ha più ne metta, qualcuno potrebbe persino pensare che è meglio il No. Ma, a pareggiare il conto, scende in campo la fu Unità con tutto il suo peso editoriale e un’ idea geniale: visto che i testimonial del Sì sono tutti emeriti carneadi, basta prenderli a due a due e formare delle coppie per fare buon peso. Come se due sconosciuti, sommati, facessero una celebrità. Ecco dunque Elisabetta Gualmini (vicepresidente Pd della giunta dell’ Emilia Romagna) e Salvatore Vassallo (ex deputato Pd, poi trombato) firmare a quattro mani una croccante lezioncina ai prof del No, che i due trattano da pari a pari. Anzi li conciano per le feste.»

(continua qui)

Dal processo riformatore in corso il popolo esce privo di voce, esce sconfitta la democrazia: parla Lorenza Carlassare

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(di Lorenza Carlassare)

Non è facile parlare di riforme senza essere ripetitivi, da troppo tempo ne discutiamo. Tuttavia è ancora utile ribadire le osservazioni critiche: il testo della legge costituzionale non è definitivamente stabilito e ai gravi punti di disaccordo ne corrispondono altri non meno essenziali sui quali l’accordo è sicuro. L’esigenza di modificare l’assetto del bicameralismo è generalmente condivisa, come pure l’idea di superare il bicameralismo paritario lasciando alla sola Camera i poteri politici – in primo luogo il potere di dare la fiducia al governo e di revocarla –, attribuendo al nuovo Senato la rappresentanza delle autonomie territoriali.

Già qui la compattezza s’incrina: come va costruito un Senato destinato a rappresentare al centro il punto di vista delle autonomie? Deve essere espressione dei cittadini o dei lorogoverni?

La risposta del testo governativo è netta, così come quella dei suoi sostenitori: il popolo delle Regioni non c’entra, il Senato rappresenta le ‘istituzioni’ territoriali, ed è questa in primo luogo la giustificazione della scelta di far eleggere i senatori dalle istituzioni regionali anziché dal popolo di ciascuna Regione. Una scelta comunque bizzarra per le modalità di tale elezione: i consiglieri regionali si eleggono fra di loro e così tutto resta all’interno di ciascun Consiglio, all’interno dell’attuale classe politica, con la sola aggiunta di qualche sindaco. Una complicazione, questa, per gli estensori del Progetto, ma inevitabile. Era difficile ignorare i Comuni considerato il loro antico radicamento nel Paese. Ma ancor più difficile sembra pensare che i Sindaci, come del resto i Consiglieri regionali, possano svolgere un doppio ruolo trovando il tempo per continuare ad esercitare seriamente le loro vecchie funzioni e quelle di senatore insieme.

Un’altra questione incerta riguarda le funzioni da attribuire al Senato, anche perché la composizione dovrebbe essere in relazione alla natura delle funzioni ad esso attribuite: in una democrazia, esercitare le più alte funzioni costituzionali è consentito soltanto a chi sia dotato di legittimazione popolare. Nel testo governativo, invece, un Senato così malamente costruito partecipa addirittura alla funzione legislativa del più alto livello, la revisione della Costituzione, con i medesimi poteri della Camera elettiva, ed è chiamato pure ad eleggere due giudici della Corte costituzionale acquisendo così un potere ben più incisivo di quello del Senato attuale. Oggi, infatti, cinque dei quindici giudici costituzionali sono eletti dal Parlamento in seduta comune, all’interno del quale il minor numero dei senatori rispetto a quello dei deputati significa un loro minor peso. La riforma invece attribuisce l’elezione di tre giudici alla Camera (dove i deputati sono più di seicento) e di due giudici al nuovo Senato composto da sole cento persone. Il divario di potere tra le due Camere – e tra i loro componenti – è tanto evidente quanto ingiustificato: solo se il nuovo Senato fosse concepito quale organo di garanzia (com’era secondo alcune proposte) un simile potere potrebbe trovare giustificazione, ma è evidente che nella composizione stabilita dal progetto governativo è del tutto impensabile considerare i Senatori una ‘garanzia’. Il ruolo decisivo delle segreterie dei partiti sulla loro elezione (sostanzialmente una nomina) di certo non lo consente e la funzione loro attribuita non può che apparire un espediente per mettere le mani in modo indiretto sulla Corte costituzionale. Vale a dire sulla composizione dell’organo che ha l’alto compito di garantire il rispetto della nostra Carta! Due giudici, a disposizione dei politici, possono spostare i delicati equilibri della Corte.

In verità si tratta di una norma che la Camera aveva giustamente eliminato in un momento di lucida coscienza, in questi giorni ricomparsa al Senato come il terzo degli emendamenti proposti dal Governo per trovare l’accordo con la minoranza Pd. E questa, inspiegabilmente, ne sembra soddisfatta. È augurabile che una competenza dalle implicazioni tanto pericolose sparisca di nuovo quando il testo tornerà alla Camera.

Il nodo politico di fondo – la rappresentatività democratica del parlamento se non addirittura la sorte del ‘popolo sovrano’ – emerge più chiaro guardando al complesso delle riforme, in particolare guardando la riforma del Senato e la nuova legge elettorale insieme. Una legge approvata con forzature procedimentali evidenti e senza un reale confronto, che distorce la volontà degli elettori attraverso l’attribuzione di un ingente premio, e così alterando l’esito del voto, può consentire ad una minoranza esigua di impadronirsi di tutte le istituzioni, comprese quelle di garanzia. Parlo di una minoranza esigua perché la soglia del 40% richiesta per ottenere il premio è solo un ingannevole schermo; se nessun partito la raggiunge, non avviene come disponeva la ‘legge truffa’ del 1953, che nessuna ‘coalizione’ (altra essenziale differenza) goda del premio e ciascuno abbia i seggi corrispondenti ai voti ottenuti. Con la legge attuale i due partiti più votati partecipano comunque al ballottaggio, qualunque percentuale abbiano raggiunto; uno dei due necessariamente supererà l’altro ottenendo il premio in seggi e il dominio su tutti, pur avendo un consenso elettorale bassissimo.

Senza una soglia per partecipare al ballottaggio e senza possibilità di coalizzarsi, un solo partito prende tutto in nome della stabilità, della governabilità, della velocità del ‘decidere’: ma la stabilità prodotta artificialmente da meccanismi elettorali creati per tacitare il dissenso e nascondere le fratture sociali serve solo a portarci fuori dalla democrazia costituzionale. Si annullano le voci, non le fratture, mentre è il divario tra le persone e tra le fasce sociali a mettere a rischio la stabilità del sistema politico; ed è questo divario che si dovrebbe colmare, come la Costituzione esige, attraverso la ‘solidarietà’ se si vuole una stabilità che non sia fittizia.

Tirando le somme: i cittadini non eleggono più il Senato; nell’elezione della Camera la loro volontà viene distorta ed ha scarsissimo peso; nelle Province abolite, che in realtà sopravvivono, abolito è solo il Consiglio provinciale, vale a dire l’organo elettivo!

Dal processo riformatore in corso il popolo esce privo di voce, esce sconfitta la democrazia: nulla “giustifica la sostituzione della definizione di democrazia come governo del popolo con una definizione dalla quale il popolo, come potere attivo, sia eliminato o sia mantenuto soltanto come fattore passivo in quanto è richiesta da parte sua l’approvazione di un leader, comunque espressa”. Sono parole di Hans Kelsen, grande giurista democratico del secolo scorso. Da poco le ho ricordate in altra sede; mi sembra di doverle, ancora una volta, ricordare.

(Lorenza Carlassare, Professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università di Padova, fa parte del Consiglio di Presidenza di LeG, fonte)

Dieci bugie sul referendum

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Le ha smascherate Alessandro Gilioli su suo blog:

1. «Al referendum si vota per abolire il Senato».
Falso. Il Senato, seppur ridotto di poteri e per numero di senatori, continuerà a esistere, nello stesso Palazzo in cui si trova. Sembra ovvio, ma solo pochi giorni fa una tivù nazionale ha mostrato un cartello secondo il quale si sarebbe votato «per abolire il Senato». Lo stesso Renzi oggi a Firenze ha detto testualmente che «non esisteranno più i senatori», un’evidente falsità.

2. «Con la riforma si faranno le leggi più in fretta».
Falso. A parte le materie in cui il Senato mantiene funzione legislativa paritaria (“leggi bicamerali”), negli altri casi il Senato può proporre modifiche per una seconda lettura alla Camera e in molti casi la Camera, per approvare le leggi senza conformarsi al parere del Senato, deve poi riapprovarle a maggioranza assoluta dei suoi componenti (non basta quella dei presenti in aula). In tutto, sono una decina le diverse modalità possibili di approvazione di una legge. Il che porterà non solo a una serie di rimpalli, ma soprattutto a conflitti sulla tipologia a cui appartiene una proposta di  legge, quindi sul suo iter.

3. «Il nuovo Senato abbatterà i costi della politica».
Parzialmente falso e di sicuro molto esagerato. I risparmi consistono nel fatto che i nuovi senatori (in quanto consiglieri regionali o sindaci) non saranno pagati per le loro funzioni senatoriali, ma avranno comunque le spese di trasferta a Roma dalle Regioni di provenienza e probabili forme di rimborso. Il personale di palazzo Madama che non resterà al Senato verrà trasferito. Si calcola ottimisticamente che il risparmio sulle spese oggi a carico di Palazzo Madama sarà di circa il 20 per cento rispetto alle spese attuali. Una riforma che avesse avuto come obiettivo il risparmio sui costi della politica avrebbe potuto dimezzare il numero complessivo dei parlamentari (315 deputati e 150 senatori, totale 450) ottenendo risparmi molto maggiori. Con questa riforma i parlamentari stipendiati restano infatti 630 (i deputati), più i rimborsi e le trasferte a Roma dei 100 senatori.

4. «Il nuovo Senato non sbilancia i contrappesi democratici».
Falso, se combinato con l’Italicum. La legge elettorale per la Camera (Italicum) assegna al partito vincente e al suo leader il controllo di 340 seggi. Data l’assenza di un’altra Camera con funzioni legislative altrettanto forti, ne consegue un accentramento di potere nelle mani dell’esecutivo e del premier. Inoltre nelle elezioni in seduta comune con i senatori (ad esempio per la scelta del Presidente della Repubblica e dei membri non togati del Csm) questo meccanismo consegna al premier un potere molto maggiore. La possibilità che il Quirinale diventi un’espressione più diretta della sola maggioranza rende a sua volta maggiori i poteri del premier anche nell’elezione dei giudici della Consulta: la maggioranza di governo ne esprimerebbe direttamente 3 (tramite la Camera) e altri 5 attraverso il Presidente della Repubblica (se questi fosse espressione della sola maggioranza), più altri 2 se la maggioranza al Senato è la stessa che c’è alla Camera. Quindi su 15 giudici della Consulta un numero tra 8 e 10 (su 15) rischia di essere scelto direttamente o indirettamente dalla maggioranza di governo.

(continuano qui)

Il referendum sarà (anche) una battaglia contro la mistificazione

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Guardate bene l’immagine qui sopra, è la fotografia di quel che sarà da qui fino al referendum: una mistificazione continua in cui si soffierà sulla superficialità e il populismo raccontando che il “comitato per il no” sia un gruppo di conservatori che vuole mantenere gli antichi (e odiosi) privilegi. Bisognerà, giorno per giorno, casa per casa, raccontare che la riforma Boschi non abolisce per niente il Senato ma semplicemente abolisce la possibilità di votare i senatori delegando la loro nomina ad un astruso meccanismo politicista. E il giochetto sarà quello di far credere che abbiamo un governo pronto a siglare grandi riforme e impossibilitato a farlo. Esattamente come quando c’era Silvio.

E allora davvero, al di là dell’essere a favore o a sfavore di questo governo, i prossimi mesi ci chiedono di armarci di tutto il nostro dovere di cittadinanza attiva: conoscere la Costituzione, conoscere la riforma e avere un’idea sui possibili effetti. Perché se è vero che mette i brividi pensare che questa classe dirigente (più i verdiniani) si metta a toccare la Costituzione è anche vero che il referendum delega ai cittadini una reale capacità di scelta. I padri costituenti, in fondo, diventiamo noi pur con tutto il veleno d’informazione che ci ritroveremo in campo.

Una Repubblica che vorrebbe essere laica. Ma non ci riesce.

C_4_articolo_2141586_upiImageppIl campo è irto, brullo e sempre a rischio di integralismi e controintegralismi ma un giro, in questi giorni, credo che valga la pena farselo: sotto traccia e con una modernissima veste accattivante il Vaticano,negli ultimi mesi, è tornato ad essere partito di maggioranza nelle scelte (e soprattutto in alcune non scelte) politiche. Basterebbe partire dalla vicenda delle dimissioni del sindaco di Roma per capire come la valutazione politica (mica etica o di morale) abbia assunto toni tutt’altro che spirituali:

«Marino – ha scritto l’Osservatore Romano – ha motivato la scelta (del ritiro delle sue dimissioni ndr), chiedendo un confronto in aula con la maggioranza che lo ha sostenuto nei due anni della sua amministrazione. Ben sapendo, tuttavia, che una maggioranza disposta a sostenerlo non esiste più. Tanto è vero che, dopo una lunga riunione svoltasi ieri sera nella sede del Pd, sono attese per oggi le dimissioni di almeno 25 consiglieri capitolini, dimissioni che, salvo ulteriori sorprese, dovrebbero portare allo scioglimento immediato del Consiglio comunale e dunque al decadimento di sindaco e giunta […] «Questa vicenda sta assumendo i contorni di una farsa. Al di là di ogni altra valutazione resta il danno, anche di immagine, arrecato a una città abituata nella sua storia a vederne di tutti i colori, ma raramente esposta a simili vicende»

(continua qui)