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costituzione

#Left cosa ci abbiamo messo dentro: Nino Di Matteo che vota no

Numero 46 di Left in edicola (o disponibile nello sfogliatore online qui). Dentro ci trovate la mia lunga intervista con Nino Di Matteo tutta sulla riforma costituzionale e sull’aria greve di questa campagna referendaria. Come al solito il magistrato non lesina giudizi e non si nasconde dietro questa “cortesia istituzionale” che ammanta più di qualcuno. Ci dice che la riforma Renzi-Boschi è invotabile perché pensata  male e scritta ancora peggio, ci spiega i rischi che comporterebbe anche per gli equilibri della Giustizia e, soprattutto, ci indica gli articoli della nostra Costituzione che andrebbero applicati piuttosto che riformati.

Il sommario del numero (con l’apertura tutta sui risultati delle elezioni americane) lo trovate qui. Come al solito siamo tutte orecchie per giudizi, suggerimenti e proposte. Buona lettura.

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Se ne accorge anche Mentana: «così si falsa il referendum»

“Non si può rischiare di falsare questa consultazione cercando un rapporto unilaterale, che è possibile soltanto a chi guida l’istituzione governativa nei confronti degli italiani all’estero” – Così il direttore del Tg La7 Enrico Mentana, dopo che il premier Matteo Renzi ha inviato agli italiani residenti all’estero una lettera con le indicazioni e le istruzioni sulle modalità di voto per il referendum costituzionale. Secondo quanto si apprende, nella lettera sono precisate le ragioni per cui votare Sì, a partire dalla fine del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei parlamentari – “Teoricamente e seriamente ci vorrebbe una lettera, anzi una busta con dentro due lettere” – precisa il direttore – “Le ragioni del Sì e le ragioni del No, perché raggiungerli solo da un lato comporta il rischio veramente forte di avere qualcuno che nel dibattito referendario fa la parte del leone”

Ecco con chi riscrivono la Costituzione: chiesti 4 anni per Verdini

Massone, lobbista, piduista. La requisitoria del pm che oggi ha chiesto 4 anni per Denis Verdini è uno spaccato del Paese sbrodolante di illegalità e corporazioni. Questo è quello che ha salvato il governo. Questo è quello che la Boschi è corsa a baciare per festeggiare la riforma costituzionale. E noi discutiamo dell’ANPI, intanto. Capite? Leggere per credere:

ROMA – Richiesta di condanna per 18 imputati, tra cui il senatore Denis Verdini e l’uomo d’affari Flavio Carboni, ed una di assoluzione. È quanto chiesto dalla procura di Roma al processo sulla P3, presunto comitato d’affari segreto che puntava ad influenzare e condizionare gli organi costituzionali. I pm Rodolfo Sabelli e Mario Palazzi hanno chiesto nove anni e sei mesi di reclusione per Carboni, otto anni e sei mesi per l’ex giudice tributarista Pasquale Lombardi e l’imprenditore Arcangelo Martino, quattro anni per Verdini.

Queste le altre richieste di condanna sollecitate dalla Procura in relazione a episodi minori, non legati all’associazione per delinquere e destinati in buona parte a cadere in prescrizione nei prossimi mesi: un anno di reclusione per l’ex coordinatore toscano di Forza Italia Massimo Parisi, un anno per il legale rappresentante della società Ste srl Pierluigi Picerno, 2 anni per il presidente di un consorzio Pinello Cossu, un anno per l’allora presidente dell’Arpa Sardegna Ignazio Farris, 1 anno per l’ex Governatore della Sardegna Ugo Cappellacci, 2 anni per l’imprenditore Alessandro Fornari, un anno e mezzo per l’imprenditore Fabio Porcellini. Ci sono poi i presunti ‘prestanomi’ di Flavio Carboni e cioè Giuseppe Tomassetti (un anno), Antonella Pau (3 anni) e Maria Laura Scanu Concas (un anno).

Completano la liste degli imputati l’allora direttore Unicredit di Iglesias Stefano Porcu (chiesta condanna al pagamento di 10mila euro), l’ex sottosegretario Economia del Governo Berlusconi Nicola Cosentino (un anno e 6 mesi), l’ex assessore regionale della Campania, oggi sindaco di Pontecagnano, Ernesto Sica (un anno e 6 mesi), e l’ex primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone (5 anni). L’assoluzione è stata chiesta per Marcello Garau, che nella vicenda era coinvolto nella veste di dirigente del comune di Porto Torres.

(Fonte)

 

Nel merito. Ecco le bugie del Sì.

(di Lorenza Carlassare)

Le ragioni del «no» sono persino troppe. Una forte mobilitazione è indispensabile per opporsi a una riforma costituzionale costruita sul falso e sull’inganno che cela la sua reale sostanza, antidemocratica e illiberale, con trucchi miserabili. Lunga è la catena dei «falsi», a cominciare dagli obiettivi dichiarati:

1. Fine del bicameralismo paritario è l’ingannevole slogan. Ma il Senato, in posizione di parità con la Camera esattamente come adesso, partecipa ancora alla più alta forma di legislazione, la revisione della Costituzione e in molti casi alla legislazione ordinaria. Si approvano infatti secondo le regole del bicameralismo paritario leggi di forte rilievo politico: elezione del Senato (art. 55), referendum, Unione europea, ineleggibilità e incompatibilità con l’ufficio di senatore, elezioni e ordinamento di comuni e città metropolitane, e altre ancora (art. 70, comma 1). Il Senato, inoltre, in modi vari e differenziati, ha voce sulla legislazione intera.

2. Falso è anche l’altro facile slogan: iter legislativo semplificato, mentre l’unica semplificazione non riguarda il procedimento legislativo, ma la fiducia al governo che sarà data dalla sola Camera. Basta leggere i commi 3-4 del nuovo articolo 70 per rendersi conto di come l’iter legislativo venga «semplificato»: «Ogni disegno di legge approvato dalla Camera deve essere immediatamente trasmesso al Senato», il quale, entro dieci giorni, può disporre di esaminarlo, e, nei trenta giorni successivi «può deliberare proposte di modifica del testo», e in tal caso si torna alla Camera per la pronuncia «definitiva».

Lo schema ha però alcune varianti; a seconda della materia su cui verte la legge e dell’atteggiarsi dei consensi, si prevedono iter legislativi diversi per tempi, termini e maggioranze. In conclusione, per «semplificare», al procedimento attuale si sostituisce una pluralità di procedimenti – sette dice Gaetano Azzariti che ha avuto la pazienza di contarli – più l’ulteriore variante di un possibile intervento del governo nel procedimento legislativo (art. 71, ultimo comma). Incertezze e confusioni apriranno conflitti, che la riforma stessa ritiene inevitabili preoccupandosi di indicare chi dovrà comporli: i presidenti di Camera e Senato d’accordo fra loro. E se non trovassero l’accordo? Una «semplificazione complicante», la si potrebbe definire!

3. È falso che il Senato conti poco e non abbia funzioni di rilievo, come si ripete per toglier peso alle critiche verso la sua inqualificabile composizione (consiglieri regionali che si eleggono fra loro ed eleggono 21 sindaci!). Minimizzarne il ruolo fa parte dell’inganno. Tanto rumore per nulla è l’idea che si vuole accreditare: è inutile perder tempo a discutere sulla composizione di un organo che non conta nulla, che fa cose poco importanti. L’argomento, che si ritorce contro chi lo propone – se il Senato non serve a nulla, perché non abolirlo eliminando le enormi spese di apparato, servizi, sede? – è assolutamente falso.

Il Senato partecipa intanto alla funzione legislativa, la più importante funzione da sempre riservata al popolo sovrano o ai suoi rappresentanti che un sistema democratico non consente sia affidata a un organo scollegato dai cittadini. Proprio questa funzione rende quella composizione più difficile da giustificare, per il costante collegamento di essa con il popolo; un principio antico che attraversa la storia, dai pensatori medievali come Marsilio da Padova, ai massimi giuristi della modernità come Hans Kelsen. L’affermazione di poter fare, da solo, le leggi del suo regno fu una delle accuse a Riccardo II, che poi ritorna negli atti di deposizione di Giacomo II e Carlo I. E su quel principio, risalente agli albori della storia, si basa per intero la nostra struttura costituzionale: la sovranità – disse Meuccio Ruini alla Costituente – «spetta tutta al popolo», e dunque, «il fulcro dell’organizzazione costituzionale» è nel parlamento «che non è sovrano di per sé stesso, ma è l’organo di più diretta derivazione del popolo: e come tale […] ha la funzione di fare le leggi». L’anomala composizione del Senato figlio della riforma, in una democrazia non è assolutamente compatibile con le funzioni ad esso attribuite. Ma il governo non ha consentito ripensamento alcuno.

Al Senato, oltre alla legislazione, restano altre rilevanti funzioni co-stituzionali come l’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali; e qui, addirittura, grazie alla riforma, il Senato aumenta il suo peso e i senatori diventano determinanti in una scelta tanto delicata per l’equilibrio delle istituzioni di garanzia.

4. È falso che la riforma aumenti le garanzie, come si insiste a dire della modifica delle maggioranze necessarie all’elezione del presidente della Repubblica, organo di garanzia che deve essere super partes. Ad evitare che diventi, invece, espressione della maggioranza di governo la Costituzione esige un ampio consenso: per le prime tre votazioni la maggioranza dei due terzi, dal quarto scrutinio in poi, la maggioranza assoluta dei componenti. La riforma invece, a partire dal settimo scrutinio, prescrive la «maggioranza dei tre quinti dei votanti». La modifica è presentata come un vanto della riforma; sostituendo la maggioranza assoluta (metà più uno) con i tre quinti – si dice – si alza il quorum necessario all’elezione del capo dello Stato e dunque si aumenta la garanzia. Una falsità anche questa, ma il trucco è evidente: la nuova maggioranza richiesta è di tre quinti dei «votanti», non più dei «componenti»; il che fa una bella differenza! La norma svuotata di senso rende agevole al governo e ai suoi fedeli eleggere («portarsi a casa», nel linguaggio del premier e della sua ministra) un presidente su misura. Nel segno del comando, si potrebbe dire, dell’unico comando, che non deve trovare ostacoli sul suo cammino; tantomeno un capo dello Stato indipendente, garante della Costituzione!

Ma è solo un tassello del disegno complessivo. Sempre in tema di istituzioni di garanzia, nella legge di riforma la competenza a eleggere cinque giudici della Corte costituzionale non è più del parlamento in seduta comune; tre li elegge la Camera, che ha 640 membri, e due il Senato che ne ha 100. I numeri parlano. Il divario di potere tra Camera e Senato è evidente, com’è evidente la voglia di mettere le mani sulla Corte attraverso i senatori, «uomini di paglia», la cui obbedienza è persino più sicura di quella di deputati, eletti con una legge truccata, ma pur sempre «eletti» dal popolo.

5. È falso che la riforma costituzionale non cambi la forma di governo. È vero che il testo non ne parla, ma il trucco è proprio qui. La trasformazione risulta da un disegno complessivo il cui perno non è la riforma costituzionale ma la legge elettorale, approvata anch’essa con frenetica velocità perché, senza l’Italicum, la riforma costituzionale non poteva raggiungere l’obiettivo finale: verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti.

Siamo di fronte a un doppio inganno (o doppia «furbata»): il primo sta nel modificare la forma di governo in modo indiretto (e meno appa-riscente) con legge ordinaria, la legge elettorale e il suo bel «premio», perno di tutto. Il secondo inganno sta nell’apparente rispetto della condizione richiesta dalla Corte costituzionale per l’attribuzione del premio, l’indicazione di una «soglia». Ma la soglia del 40 per cento prevista dall’Italicum è del tutto fittizia, è apparenza pura, scritta per non mostrare in modo vistoso il contrasto con la sentenza 1/2014. Il 40 per cento in realtà non interessa a nessuno, è un semplice schermo; se non lo si raggiunge, interviene infatti il ballottaggio per il quale nessuna soglia è richiesta. Il trucco è qui, attraverso il ballottaggio il legislatore ha aggirato la sentenza costituzionale: le due liste più votate partecipano qualunque percentuale abbiano ottenuto al primo turno. Così, anche conseguendo un risultato modesto (il 20 per cento o meno) chi vince piglia tutto, e una minoranza esigua, grazie al premio, può dominare il sistema intero: parlamento, governo, istituzioni di garanzia.

Il ballottaggio è la chiave per cambiare la forma di governo, per arrivare in modo traverso all’elezione diretta del premier. Due liste vi partecipano e, nella competizione a due, il vincitore, forte della vittoria, tenderà ad attribuire al voto popolare il valore di un’investitura personale. Così il ballottaggio, fase finale del procedimento di elezione della Camera dei deputati, assumerà il senso di una decisione popolare finalizzata a investire di potere il governo e il suo capo. Il quale – come già Berlusconi – potrà definirsi «l’unto del Signore».

Senza mutare il testo si supera la forma di governo parlamentare; e non per avvicinarsi al modello presidenziale americano col suo sistema di «freni e contrappesi», di limiti reciproci fra «poteri» rigorosamente separati e indipendenti, ma piuttosto al modello autoritario novecentesco che l’Italia ha costruito ed esportato.

6. È falso che la riforma non tocchi la forma di Stato: la democrazia costituzionale ne risulta travolta. Travolta per primo è il sostantivo, «democrazia». I cittadini alla fine sono rimasti senza voce: con un Senato non più eletto dal popolo ma da consiglieri regionali che si eleggono fra loro; con le province abolite che però funzionano ma senza un organo eletto dai cittadini; con una Camera dove, alterata la rappresentanza, domina una maggioranza artificiale creata distorcendo l’esito del voto. Una Camera in cui una simile maggioranza – che può essere una minoranza esigua – è in grado di dominare le istituzioni tutte estendendo la sua influenza oltre la sfera politica, alle stesse istituzioni di garanzia. Così un gruppo di potere può dominare senza trovare limiti politici – le altre forze sono ridotte all’irrilevanza – e neppure limiti giuridico-costituzionali.

Neutralizzati i contrappesi del sistema costituzionale repubblicano, nessun limite infatti è stato creato dal nuovo sistema per contenere l’enorme potere prodotto dai meccanismi distorsivi; nessun freno è posto al concentrarsi di potere nel governo e nel suo capo cui il parlamento non si contrappone, obbedisce. Troppo forte è il vincolo creato dai meccanismi elettorali perché i parlamentari, legati a doppio filo a un vertice da cui dipende la loro rielezione, possano mostrarsi indipendenti.
«Democrazia costituzionale» rischia così di divenire espressione vuota: travolto il sostantivo, è travolto anche l’aggettivo che la qualifica. Il potere, senza limiti e freni, potrà dispiegarsi liberamente, alla faccia del costituzionalismo, della separazione dei poteri, degli «immortali princìpi del 1789», che Mussolini odiava. Non dobbiamo permetterlo!

Il referendum non è – non deve essere – scontro su una persona: non interessa la sorte di Renzi, interessa salvare la «democrazia costituzionale», i nostri diritti, i valori repubblicani. Un triste conformismo vela la vita della Repubblica; la libera stampa, l’informazione tutta già ne risente. Vogliamo liberarci dal pericolo che la nebbia offuschi il nostro orizzonte.

Micromega online, martedì 1 Novembre 2016

L’ultima trovata per il referendum: trumpizzare Renzi. A proposito di stare nel merito. Appunto.

Quindi mentre Trump si insedia alla Casa Bianca e un po’ dappertutto si chiede di cominciare a fare politica concreta, quella che cambia per davvero e incide, quella che risolve i problemi considerati “bassi” come il lavoro, il reddito troppo basso, la difficoltà di assistenza sanitaria e l’accesso ai servizi di base, Jim Messina, l’americano arrivato a Palazzo Chigi per rivoluzionare la comunicazione di Matteo Renzi, pensa a un processo di “trumpizzazione” del premier? Ecco cosa scrive l’Huffington Post:

«Al comitato Basta un Sì oggi scatta la parola d’ordine: insistere sul messaggio che dipinge “quelli del No come la casta, quelli del Sì per il cambiamento”. Di primo mattino il sito del comitato per il Sì sfodera un post con i volti del No: da D’Alema a Fini, Meloni, Quagliariello, Ferrero, fino a Rodotà. “Il cambiamento vota Sì, la casta vota No”.

Così Renzi cerca di spogliarsi dall’abito di establishment che indossa da quando è al governo, anche solo per semplici motivi istituzionali. La convinzione emersa dalle riunioni con i suoi tra ieri sera e stamattina è che l’unico modo per vincere il 4 dicembre è riuscire a identificarsi con l’anti-sistema, la forza del cambiamento rispetto a un sistema che ha governato in Italia negli ultimi 30 anni.»

Sempre per stare nel merito. Appunto.

Nel merito. La risposta a chi dice che il NO è conservatore. Di Carlo Smuraglia.

Non solo non lo sono, ma sono veri conservatori, invece, quelli che vogliono “conservare” il peggio della politica, lasciando da parte i problemi di fondo; ad esempio: l’attuazione della Costituzione, la garanzia di un lavoro dignitoso, libero e sicuro, la messa in sicurezza del territorio, la custodia e lavalorizzazione dell’immenso patrimonio artistico e naturale di cui può vantarsi il nostro Paese?

La risposta sarebbe facile; ma poiché molti insistono nel sostenere che il sistema prospettato con la riforma è il migliore possibile e che d’altronde non abbiamo indicato nessuna soluzione alternativa, perché siamo solo capaci di criticare, senza riuscire a proporre nulla di serio, tornerò ad una data insospettabile, assai prima della campagna referendaria e riprodurrò qui il testo di una parte del discorso che ho tenuto al Teatro Eliseo, il 29 aprile 2014, quando si stava cominciando a parlare – appunto – della riforma del Senato e l’ANPI decise di entrare in campo, ponendo una questione, essenzialmente, di democrazia

A fronte del progetto di eliminare il “bicameralismo perfetto”, come se fosse il male peggiore del mondo, osservavo che una correzione si poteva certamente fare, differenziando anche il lavoro delle due Camere, ma ad alcune imprescindibili condizioni, che riproduco testualmente qui di seguito, proseguendo poi col ragionamento conclusivo che ritenevo di svolgere e che trovo, oggi più che mai, valido.

Dunque, le condizioni fondamentali erano cinque:

a) che si mantenga il sistema elettivo

b) che si colga l’occasione per trasformare il Senato in una vera camera Alta, per la rappresentatività, per la qualità dei componenti, per il tipo di funzioni

c) che contemporaneamente si faccia una legge elettorale conforme alle indicazioni della Corte Costituzionale, sì da ridare possibilità di scelta ai cittadini, consentendo forme effettive di rappresentanza (senza esclusioni eccessive); limitando il premio di maggioranza a misure ragionevoli.

d) che si indichino forme adeguate per qualificare (nel senso di migliorare, per qualità e competenza) la composizione del Senato (autonomia, competenza culturale e scientifica, non interessi corporativi).

e) che si riservino ai regolamenti parlamentari la disciplina dei tempi ed i casi di priorità, ponendo fine al sistema per cui sono i Governi che dettano tutto, perfino i tempi della discussione, sempre in nome della governabilità.

Quanto ai modelli, la scelta è molto ampia, fra i modelli studiati e quelli sperimentati. Va notato, peraltro:

1. Al di là della conta numerica, che non ha significato, il dato è che tutti i Paesi del G8 sono bicamerali; quindici Paesi del G20 sono bicamerali; quattro miliardi di persone su 5,5 (esclusa la Cina, che fa parte a sè) sono rappresentati da sistemi bicamerali: tutte le grandi democrazie adottano il modello bicamerale (un vero modello bicamerale, nel senso che le due Camere hanno pari rilievo e pari autorevolezza), particolarmente diffuso quanto più il Paese è caratterizzato da complessità;

2. I Senati, in genere, rappresentano uno strumento di equilibrio e di riflessione nei confronti della Camera bassa, espressione della maggioranza di Governo;

3. Un bicameralismo vero (ancorché differenziato) garantisce, secondo la diffusa opinione degli esperti e studiosi, una migliore qualità della legislazione e una maggiore stabilità dell’ordinamento giuridico;

4. Sui metodi di elezione, esistono due grandi criteri: Senatori eletti direttamente e Senatori eletti in secondo grado, a cui si aggiunge il gruppo dei Senatori eletti con sistema misto. L’elezione di secondo grado non è mai occasionale, ma è sempre diretta allo scopo specifico di comporre il Senato con persone elette specificamente per quella funzione. Non è concepibile, in nessuno dei Paesi europei, un Senato di serie B, composto di “volontari” elettiper fare altre cose.

5. Il Senato, come strumento di governo delle complessità, si esprime particolarmente attraverso:- la funzione di Camera di riflessione nel procedimento legislativo (salvo alcune materie di rilievo sulle quali si esprime in forma di compartecipazione).

– la funzione di controllo dell’attività di Governo rispetto alla possibilità di “dittatura della maggioranza”; e di trasparente monitoraggio sull’azione dell’esecutivo, sulle nomine, sugli enti pubblici, ecc.;

– la funzione di raccordo ed espressione delle entità e realtà territoriali che costituiscono lo Stato.

6. I processi di riforma del Senato nell’ultimo ventennio, nei Paesi di maggior rilievo, presentano queste caratteristiche comuni:

a) differenziazione tra i due rami del Parlamento

b) specializzazione “alta” delle funzioni del Senato

c) tendenza ad incrementare la democraticità complessiva

d) garanzia di maggiore efficacia nel rappresentare i territori, nei rapporti

di carattere internazionale e nei diritti fondamentali dei cittadini;

e) esigenza di razionalizzazione nei rapporti con l’esecutivo

f) rafforzamento dell’equilibrio dei poteri

g) esaltazione della funzione di raccordo con le realtà territoriali e istituzionali.

In conclusione, i modelli possono essere diversi, ma hanno molte caratteristiche comuni, tra cui il rafforzamento (con funzioni differenziate) di una Camera che deve essere “ALTA” per qualificazioni e per competenze, deve avere funzioni di equilibrio di poteri, deve consentire una piena rappresentatività dei cittadini.

Tendenze che rendono ancora più evidenti le linee da perseguire nel nostro caso, anziché pensare ad una legge elettorale antidemocratica e anticostituzionale; perché il mix di questi fattori (Senato declassato e legge elettorale che dà un potere quasi esclusivo ad una maggioranza di governo) può essere addirittura disastroso, per gli effetti e gli squilibri che può produrre.

Insomma, sui modelli si può discutere, ma sulle linee di fondo no, perché le stesse tendenze in atto dimostrano che in tutto il mondo avanza l’esigenza di rappresentanza e di democrazia, anche per contrapporsi alle tendenze e spinte di una destra autoritaria e populista.

Su questo dobbiamo attestarci, per avere una riforma del Senato non finalizzata al risparmio, ma ad esigenze di funzionalità e di democrazia.

Abbiamo parlato di una “questione democratica” anche e soprattutto per questo. In tutta Europa avanzano tendenze autoritarie e rigurgiti fascisti o neofascisti; c’è una forte tendenza, in diversi Paesi, a restringere le libertà anziché a renderle effettive. Ebbene, questo è il momento di rafforzare la democrazia, in ogni Paese, non di indebolirla; questo è il momento di assicurare più partecipazione e più diritti ai cittadini, perché facciano sentire non solo la loro voce, ma la forte esigenza di rappresentanza e di sovranità.

Questo era il discorso di due anni fa; l’ho riportato almeno nella parte essenziale, perché costituisce – ancora oggi – la ferma risposta a quanti si vantano di essere innovatori e ci accusano di conservatorismo e di incapacità

Nel frattempo, peraltro, nel corso delle audizioni in Parlamento, durante il cammino della riforma, sono stati ascoltati illustri costituzionalisti, che hanno formulato proposte e fornito indicazioni, ma senza essere ascoltati e presi in considerazione.

Il professor Zagrebelsky mandò una lettera, il 4 maggio 2014, alla Ministra Boschi, col suo parere; e non ebbe -come riferisce in un suo recente libro- alcuna risposta, anche solo in ordine alle proposte alternative che venivano avanzate.

Tutto questo non solo smentisce certe accuse, ma la dice lunga circa le reali intenzioni dei promotori della riforma del Senato.

Carlo Smuraglia, Anpinews – n. 222 – 8/15 novembre 2016

«Era una testimone della battaglia per il Sì»: il necrologio elettorale

Certo non la pietà, non l’umiltà, non l’ingenuità, non la debolezza possono salvarci, ma forse il disporsi con orrore a povere, sconfitte e disperate cose come queste.  
Sergio Quinzio, La croce e il nulla, 1984

 

Strana campagna referendaria questa: ci si indigna (giustamente) per la strumentalizzazione degli altri e poi si finisce per fare lo stesso. Sì e No non conta: le miserie sono un partito trasversale. Leggere per credere:

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Chissà cosa avrà pensato Veronesi dopo tutta una vita di studi, ricerche e rapporti internazionali di essere ricordato dal Presidente del Consiglio per la sua posizione espressa riguardo al quesito referendario. Chissà, soprattutto, dove si trova l’acume di sfruttare tutto e tutto, ma proprio tutto e tutti, con un’idea fissa in testa.

(trovate tutto qui)

Dai che si riparte. #TourRicostituente

Domani a Rieti, poi Verona, poi Tradate, poi Cavriago, poi Busto Arsizio, poi Reggio Emilia, poi Milano, poi Bologna e così via. Da qui alla data del referendum il Tour Ricostituente accelera in giro per il Paese. E poi c’è il sito io iovoto.no e le infografiche, le Faq per rispondere a chiarimenti e obiezionie il calendario di tutti i compagni di viaggio.

Per vedere tutte le date vi basta andare qui (e molte date saranno aggiunte nei prossimi giorni, in continuo aggiornamento) e ogni serata è un confronto di idee. Tutti dentro, nessun fuori fuori. E soprattutto con l’impegno di pensare anche e soprattutto al 5 dicembre perché c’è un Paese da costruire, al di là di tutto. Perché la priorità è studiare senza sosta il modo di applicare la Costituzione. Altro che modificarla.

 

Nel merito. Zaccaria: «Ecco i numeri dell’invasione refendaria del governo nell’informazione»

(di Roberto Zaccaria, professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico nell’Università di Firenze, dove insegna Diritto costituzionale generale e Diritto dell’informazione)

Il presidente del Consiglio, che aveva dichiarato di voler spersonalizzare il referendum costituzionale da ogni collegamento con se stesso e di escludere ogni conseguenza sul governo legata al voto del 4 dicembre, non perde occasione per invadere la tv e di invaderla in prima persona. In questo segue perfettamente le orme del maestro Berlusconi.

Ieri ne abbiamo avuto una dimostrazione esemplare. Tutti i telegiornali, a partire dal mattino, per arrivare a quelli del pranzo e poi all’ora di cena, hanno aperto sull’intervento conclusivo di Renzi alla Leopolda.

Difficile classificare l’intervento nella categoria degli interventi istituzionali. Il taglio è stato piuttosto quello del capo partito, con accenti molto coloriti da super tifoso che non a caso ha definito la partita del referendum come il derby d’Italia. Un modo inconsueto per definire il referendum sulla costituzione, sulla nostra Carta fondamentale.

Pensiamo solo per un attimo se De Gasperi avrebbe potuto usare questa immagine per definire il referendum istituzionale tra monarchia e repubblica che molti evocano proprio in questi giorni. Non contento di questa super presenza, che certamente segnerà un record, nel panorama dei TG, il presidente è corso (uso l’espressione in forma letterale) negli studi de La7 per farsi intervistare (naturalmente da solo) nella nuova trasmissione di Giovanni Minoli, dal titolo Faccia a faccia, collocata alle 20.30 nello stesso spazio di Otto e mezzo di Lilli Gruber.

Forse, come scherzosamente si è detto, per utilizzarne il traino. L’ascolto comunque è stato discreto 4,1% pari a 1.105 mila spettatori. Sul livello del TG di Mentana. Sullo stesso livello della trasmissione della Gruber di sabato (4,2), ma decisamente più basso di Otto e mezzo di Venerdì che aveva raggiunto il 6,6 con 1.673 mila spettatori.

Naturalmente si è parlato molto, direi soprattutto, di referendum anche se Minoli ha provato a ingentilire il discorso con riferimenti famigliari o con spazi dedicati alle private virtù del Premier. Sarebbe interessante soffermarsi sul format che assomiglia alla Mezz’ora di Lucia Annunziata anche se qualcuno ricorderà anche Mixer dello stesso Minoli. A me è parso che non ci sia stato un vero contraddittorio e soprattutto non ricordo una nuova domanda di fronte a una risposta evasiva o sommaria.

Su due diverse questioni voglio però soffermarmi un momento. Entrambe riguardano il rispetto della par condicio in questa fase delicatissima della campagna elettorale. In una competizione che si svolge sul filo del rasoio, la presenza preponderante di una parte in tv può risultare decisiva. Lo sanno anche i ragazzi!
Abbiamo detto nei giorni scorsi che i “programmi dedicati” risultano in equilibrio tra Sì e No, ma che il presidente del Consiglio e il governo hanno una presenza debordante nei tg e negli spazi extra tg. Questo è grave per la par condicio perché Matteo Renzi è il principale testimonial del Sì e questo aiuta vistosamente (e scorrettamente) una delle due parti in gioco.

L’Agcom, cioè l’arbitro della partita, aveva detto il 19 ottobre che sia Rai che Sky avevano tempi eccessivi dedicati al governo e aveva richiamato le emittenti a un maggior equilibrio perché la legge impone agli organi istituzionali in campagna elettorale la maggior sobrietà possibile.

Nella riunione della settimana scorsa, nonostante i dati della Geca continuino a evidenziare un tempo di parola molto alto nelle edizioni principali dei tg Rai (42%) e anche delle altre emittenti, l’Agcom non ha fatto ulteriori richiami e forse si sarà limitata alla tradizionale moral suasion. Certo con il passare dei giorni ed il probabile persistere del fenomeno, un atteggiamento morbido sarebbe assolutamente ingiustificato.

La seconda considerazione riguarda sempre l’autorità della comunicazioni e l’emittente La7.
Questa tv, accusata dai sostenitori del Sì di essere più favorevole alle tesi del NO, non solo è stata richiamata per ben due volte dall’Agcom, ma è stata oggetto di un esplicito ricorso da parte del Comitato del SI, a causa delle sue presunte parzialità.

In questo contesto si inquadra dunque l’intervista a Renzi nel nuovo programma Faccia a faccia di Minoli andato in onda ieri sera. A prescindere da ogni altra considerazione, un bello spot a favore del SI.

Dopo tutto questo accanimento verso la tv, come si spiega tutto ciò? Visto che non mi sembra il caso di scomodare la sindrome di Stoccolma, non so se interpretare il comportamento come un indennizzo anticipato o semplicemente come una soluzione editoriale legata a pure logiche di mercato. Se così fosse sarei curioso di sapere quale altra personalità politica del NO verrà intervistata nei prossimi giorni.

(fonte: Huffington Post qui)

Nel merito. Nadia Urbinati: «Ecco come la propaganda per il referendum fa leva sulla paura»

In una “Lettera aperta ai coordinatori dei circoli del Pd” del 13 ottobre scorso, i Democratici per il No argomentavano il loro dissenso con la dirigenza del loro partito affidandosi al “Manifesto dei valori del partito democratico” approvato il 16 febbraio 2008 (firmato tra gli altri, da Alfredo Reichlin, Giorgio Ruffolo, Pierluigi Castagnetti, Piero Terracina, Paola Gaiotti de Biase).

Questa l’idea centrale del Manifesto: “la sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difendere la stabilità, a mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza”.

Parole che non hanno bisogno di commento e che ci convincono senza troppi giri di parole a votare No (anche se alcuni dei firmatari oggi sono schierati con il Sì). Ma più interessanti, e inquietanti, sono le parole con le quali la “Lettera aperta” si chiude: “Queste parole basterebbero per dare un giudizio sul metodo scelto per arrivare a una modifica così importante della Costituzione. Ma queste parole dovrebbero soprattutto servire a convincere della bontà, nelle settimane che ci separano dal voto, di favorire nei circoli che voi coordinate confronti tra le ragioni del Sì e le ragioni del No: del confronto tra le diverse posizioni e delle idee, in particolar modo sui temi costituzionali, non si deve e non si può avere paura.”

Sono molte le riflessioni che questa “Lettera aperta” suscita, anche in chi come la sottoscritta ha per anni sentito di appartenere idealmente a una formazione politica di sinistra, di condividere le ragioni del riformismo e della giustizia civile e sociale, di pensare che la cittadinanza democratica abbia nel voto un momento importantissimo benché non il solo. Quella che vorrei qui proporre è una riflessione centrata sulla lealtà al Partito – ovvero sul problema della scelta morale: fino a che punto il dovere di lealtà può imporsi al dovere di seguire con onestà la propria coscienza.

Ovviamente se un partito chiede di perseguire o sostenere atti illeciti il problema non si pone perché in questo caso la lealtà sarebbe omertà, propria dei gruppi criminali. Il problema si pone quando si tratta di opinioni, e di divergenze relative alle opinioni su questioni importanti. Quali?

Ora, se la divergenza riguarda l’interpretazione della dottrina politica che il partito abbraccia, allora il dissenso incontra un legittimo dubbio: se infatti una persona decide di iscriversi a un partito è perché ne accetta l’ideologia, per questo essere in dissenso significa far cadere la ragione stessa della propria adesione. In questo caso l’opposto della lealtà sarebbe l’uscita dal partito.

Altrettanto può dirsi della violazione dello statuto del partito – un atto che dà alla dirigenza del partito l’autorevole legittimità di intervenire. È vero che partiti dottrinari non ce ne sono più, e che gli stessi statuti sono (quello del PD in particolare) improntati al pluralismo: questo li rende molto meno severi nella richiesta di disciplina di partito.

Anche per questa ragione, la “Lettera aperta” sopra riportata è inquietante, perché dimostra che la richiesta di fedeltà agli iscritti del Pd sia più forte ora di quando c’era un partito fortemente ideologico come il PCI. Più forte, e soprattutto, con un’ombra di paura di emarginazione che traspare dalla chiusa della lettera laddove si invita a “non aver paura” a disobbedire al partito trattandosi di Costituzione.

Il dissenso sulla revisione della Costituzione è non solo legittimo ma sacrosanto, poiché la fedeltà alla Costituzione viene prima nella gerarchia delle fedeltà politiche di un cittadino democratico. E se un partito chiede la fedeltà al di sopra della Costituzione o lascia credere che la fedeltà al partito sia più importante, allora c’è da essere davvero preoccupati perché sembrerebbe che il bene perseguito con questa revisione non sia prima di tutto quello del paese e della sua democrazia, ma quello del partito che la vuole a ogni costo. La vittoria del partito viene prima e sopra tutto.

L’appello ai Democratici del No a “non aver paura” è un argomento fortissimo per stare dalla loro parte e votare NO. Il NO salva loro dalla “paura” di disobbedire e salva tutti gli Italiani da una riforma imposta non solo a colpi di maggioranze variabili in Parlamento, ma poi con il ricatto, anzi con vari ricatti a tutti noi: da quello ormai classico per cui se vincesse il NO l’Italia piomberebbe in una crisi al buio dagli esiti incerti (e perché mai, visto che le costituzioni contengono le procedure per risolvere crisi di governo?), a quello più recente per cui se vincesse il NO l’Italia si troverebbe ad affrontare una crisi peggiore della Gran Bretagna con Brexit.

La propaganda fa il proprio lavoro, e per vincere fa leva sulle passioni negative come la paura. Chi non vuole questa riforma fa leva sulle passioni positive e respinge al mittente il peso della paura.

(Nadia Urbinati, Presidente di Libertà e Giustizia)

L’Huffington Post, 3 novembre 2016