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costituzione

La battaglia di Cuperloo

Povero Cuperlo che si accontenta di un selfie con la Boschi. Tocca citare Alfonso Gianni nel suo post per l’Huffington Post:

Così stando le cose, se il referendum dovesse confermare – cosa che ovviamente non mi auguro nel modo più assoluto – il testo della legge Renzi-Boschi, per permettere ai cittadini di eleggere direttamente i senatori bisognerebbe modificarlo di nuovo con una apposita nuova legge costituzionale che dovrebbe seguire l’iter previsto dall’art. 138 Cost, ovvero la doppia lettura da parte delle due camere distanziata da un intervallo non inferiore ai tre mesi, con la maggioranza assoluta richiesta nella seconda votazione. Ma il lodo non fa la minima menzione di tutto ciò.

Quindi in ogni caso, anche per i suoi estensori, il senato resterebbe una camera che continua a esistere, seppure in forma ridotta, con compiti anche rilevantissimi – come intervenire sulle leggi costituzionali e su molto altro, come viene confusamente dettagliato nella modifica dell’articolo 70 Cost. – ma che è sottratta al voto diretto dei cittadini.

Evidentemente gli estensori del medesimo pensano semplicemente che eleggendo i consiglieri regionali e i sindaci i cittadini possano esprimere una preferenza su chi di loro può diventare senatore. Qui entrerebbe in scena la proposta di legge Fornaro-Chiti. Ma non è un caso che uno dei primi a prendere le distanze dal lodo sia stato proprio il senatore Fornaro.

Secondo questa proposta i cittadini riceverebbero due schede in occasione delle elezioni regionali. Con la prima procederebbero al rinnovo dei consigli regionali e del nuovo presidente della Regione, con la seconda indicherebbero chi deve diventare un “doppiolavorista”, ovvero un consigliere – senatore. Ma a questo punto si pongono altri problemi. Se, secondo la Renzi-Boschi nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a due, ma uno di questi deve essere un sindaco, e la ripartizione dei seggi tra le regioni “si effettua in proporzione alla loro popolazione”, va tenuto presente che ben 10 delle regioni eleggono un solo consigliere regionale.

In quel caso come potrà mai essere assicurato il criterio della proporzionalità? Inoltre vi è un altro pasticcio: gli statuti di regioni a statuto speciale prevedono l’incompatibilità tra la carica di consigliere e quello di parlamentare sia italiano che europeo.

E chi decide quali sono i sindaci a essere prescelti nel comporre il nuovo Senato? Qui i cittadini spariscono nuovamente, perché, se facciamo riferimento sempre alla proposta Fornaro-Chiti scopriamo che sarà il Consiglio Regionale a farlo pescando in una terna di nomi fornita dal Consiglio delle Autonomie Locali di ogni regione, un istituto introdotto dalla riforma del Titolo Quinto della Costituzione operata nel 2001.

Insomma il lodo non solo è scritto sulla sabbia, poiché non costituisce alcun atto ufficiale, ma appare come un pasticcio persino contradditorio con la revisione costituzionale voluta da Renzi. Quella che lo stesso Cuperlo si appresta a votare. Un poco di coerenza non guasterebbe.

Nel merito. Gherardo Colombo: «Perché questa riforma è un pasticcio»

“Con il sistema disegnato dalla riforma costituzionale, i nuovi senatori risponderebbero ai partiti, non alle autonomie locali. E, questo, diminuirebbe lo spazio della democrazia”. Per Gherardo Colombo – ex membro del pool Mani pulite, saggista, credente della regole anti autoritarie, autore con Piercamillo Davigo di un libro-dialogo dal titolo “La tua giustizia non è la mia” (Longanesi, 176 pp., 12.90 euro) – l’architettura istituzionale immaginata da Matteo Renzi e compagni “è un pasticcio che non aiuterà a far funzionare utilmente il sistema italiano”. E nemmeno il livello del dibattito pubblico è all’altezza: “La discussione a cui stiamo assistendo – dice all’Huffington Post – è molto più prossima alla propaganda che all’analisi e all’informazione. I punti veri non vengono quasi mai toccati. Si enfatizza la riduzione dei costi della politica e la semplificazione legislativa, ma il primo aspetto è marginale, il secondo va contro la reale necessità dell’Italia: che avrebbe bisogno di meno leggi, non di più velocità nella loro approvazione”.

Definirebbe “populistico” questo confronto?
No, perché non voglio fare un torto al popolo.

Cosa non la convince del referendum?
Non si possono chiamare i cittadini a rispondere solo con un ‘sì’ o con un ‘no’ quando devono valutare argomenti così differenti: la composizione del senato, l’abolizione delle province e del Cnel, le regole per l’elezione del presidente della repubblica. Sono materie diverse. Sarebbe stato necessario formulare un quesito per ognuna di queste proposte.

Il problema maggiore che riscontra?
L’erosione delle autonomie regionali, peraltro solo delle regioni a statuto ordinario. Semmai, sarebbe giusto abolire quelle a statuto speciale. Mi chiedo, poi, come riusciranno i nuovi senatori a fare contemporaneamente i senatori e i sindaci.

C’è qualcosa che apprezza?
L’abolizione del Cnel e delle province.

Che cos’è la costituzione per lei?
È la legge fondamentale, che coincide al novantanove per cento con l’idea di giustizia.

Non rischia di sacralizzare la costituzione identificandola con la giustizia?
Intendo la mia idea di giustizia. Ma credo di no: la costituzione garantisce a ciascuno la libertà di esprimere la propria diversità, cioè di essere cattolico, protestante, ebreo, socialdemocratico, conservatore, estremista o moderato. Allo stesso tempo, però, impedisce che queste diversità diventino causa di discriminazione, stabilendo che tutti siano eguali di fronte alla legge e abbiano pari opportunità.

Nella costituzione italiana non c’è un riferimento al diritto di ricercare liberamente la felicità, presente invece nella dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America: la invidia?
Non la invidio perché la nostra costituzione esprime lo stesso concetto con parole diverse, enunciando all’articolo 3 che è compito della repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono la realizzazione delle persone.

Ma realizzazione e felicità sono due cose diverse.
Provi a immaginare una legge che imponga per diritto la felicità: sarebbe un controsenso.

La dichiarazione d’indipendenza statunitense però riconosce un diritto, non impone di essere felici.
Nel tempo in cui la costituzione è stata scritta, era difficile enunciare il diritto alla felicità in un paese cattolico come era il nostro. Oggi forse lo si potrebbe fare. Tuttavia, una legge si può mettere al servizio della felicità di tutti solo garantendo la libertà di chiunque. E questo la costituzione italiana lo fa.

(continua su Huffington Post qui)

Nel merito. Perché con questa riforma si rischia l’autocrazia (di Lucia Maniscalco)

(Articolo di Lucia Maniscalco)

La riforma della Costituzione pensata dal Governo Renzi, così come pubblicata in Guri n. 88 del 15 aprile 2016 dopo le prescritte due distinte votazioni da parte della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, è al centro del dibattito politico in considerazione del referendum costituzionale di cui all’art. 138 Cost. che si terrà il 4 dicembre p.v.

Le modifiche interessano una parte cospicua della Costituzione e, nonostante le dichiarazioni del Governo circa la non alterazione del sistema di governo, innescano sul punto perplessità non indifferenti anche alla luce di quanto sta accadendo in riferimento alle modifiche, seppure relative a materie di competenza legislativa ordinaria, all’impianto ordinamentale complessivo, dalla cui analisi non si può prescindere per ovvie ragioni di sistematicità.

Un premier con più poteri?

L’ampliamento dei poteri del premier si legge in via indiretta e non per espressa previsione, ma ciononostante non se ne può sottovalutare la portata. L’analisi degli articolati mette in luce infatti un panorama riconducibile ad un disegno che si integra perfettamente con un sistema a forte connotazione presidenziale, che fa addirittura temere l’autocrazia se letto in combinato disposto con la legge elettorale c.d. “Italicum” che prevede un premio di maggioranza al partito che ottiene un numero di voti di poco superiore al 25 per cento, a cui spetta, in omaggio al principio della governabilità, la guida del Paese. Alla classe di potere è deferito anche un ruolo decisivo nell’elezione del Presidente della Repubblica, nella scelta dei giudici della Corte Costituzionale e nella nomina del Consiglio Superiore della Magistratura, oltreché nella determinazione dell’indirizzo generale con particolare riguardo alle politiche di bilancio.

Il Senato delle Autonomie al posto del Senato della Repubblica

Come si è avuto modo di puntualizzare da parte di illustri giuristi, l’eliminazione del bicameralismo paritario più che rassicurare in ordine alla riduzione dei costi e allo snellimento procedurale dell’iter di formazione delle leggi, preoccupa per la semplice ragione che il Senato rimane in vita, con competenze e numero ridotti ma pur sempre in vita. Il Senato delle Autonomie sostituirà così il Senato della Repubblica con la conseguente eliminazione di uno dei contrappesi disposti dai Padri costituenti per arginare il rischio di una ricaduta in senso autoritario dello Stato.

Il regime elettorale cui esso va incontro è quanto meno inquietante atteso che si elimina l’elezione diretta da parte del popolo come suole in democrazia, per fare posto ad elezioni di secondo grado di competenza dei consigli regionali per eleggere alla carica consiglieri regionali e sindaci di comuni in misura di uno per ciascuno nell’ambito dei rispettivi territori. Il principio della sovranità del popolo subisce senz’altro una grave lesione che fa perdere al Senato il suo ruolo di bilanciamento e di moderazione in caso di eccessi da parte della Camera dei deputati.

E’ certo comunque che la confusione tra i ruoli, consiglieri o sindaci da una parte e senatori dall’altra, regnerà sovrana. Al Senato non compete inoltre l’espressione della fiducia al governo che è riservata alla Camera dei deputati. Né si intravede per esso uno spiccato ruolo con specifico riguardo alle materie di interesse delle autonomie locali tenuto conto che le leggi di bilancio sono riservate alla competenza della Camera e dunque si percepisce chiaramente lo svuotamento di contenuto di tale organo rispetto all’attuale. La trasformazione del ruolo del Senato ha riflessi sulla democraticità di tale organo e sulla rappresentatività politica dello stesso.

Il procedimento legislativo si complica e distingue tra leggi approvate dalla sola Camera dei deputati, sulle quali il Senato può richiedere il riesame, e  leggi di competenza di entrambe le Camere. Nell’insieme però non sfugge la perdita di valore del Senato anche se si inserisce il criterio della rappresentanza dei territori come elemento di partecipazione nella fase della formazione delle leggi che li riguardano. A tal proposito va però considerato che tutta la riforma, e in particolare quella del titolo V della Costituzione, è pervasa dall’esigenza di fare riassumere allo Stato  un ruolo centrale e di ridurre le competenze che con la riforma della Costituzione del 2000 sono state estese agli enti territoriali nella formulazione del decentramento.

La predominanza dell’Esecutivo sul Parlamento

In genere si osserva una predominanza dell’Esecutivo sul Parlamento così come emerge, oltreché dalla previsione di termini ristretti per l’esame e l’ approvazione delle leggi, come se si trattasse di un compito qualsiasi non avente influenza sulla qualità della produzione legislativa, e dalla previsione normativa che autorizza il Governo a richiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro 5 giorni dalla richiesta, che un disegno di legge, indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo, sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione. In tali casi, tra l’altro, i termini di cui all’articolo 70, terzo e quarto comma, che disciplinano la funzione legislativa e i rapporti con il Senato, sono ridotti della metà.

L’accelerazione delle procedure è un elemento che depone in senso contrario alla loro democraticità  poiché mette in secondo piano la qualità della normazione e, ciò che è ancora più importante, l’impatto che essa può avere sulla collettività.

Cosa cambia per i disegni di legge di iniziativa popolare

Di contro, per i disegni di legge di iniziativa popolare è previsto l’incremento a centocinquantamila delle firme per la loro presentazione rispetto all’attuale previsione pari a cinquantamila.

In conclusione, l’accentramento del potere nelle mani del leader del partito vincente, unito al procedimento di formazione delle leggi e alle strategie messe a disposizione del Governo per accelerare sulle leggi di iniziativa governativa, e in particolare su quelle indicate come essenziali per l’attuazione del programma di governo, nonché il quorum previsto per l’elezione del Presidente della Repubblica che si abbassa ai tre quinti dell’assemblea dal quarto scrutinio per arrivare ai tre quinti dei votanti dal settimo, la non diretta eleggibilità  del Senato e la riduzione delle sue competenze, la svalutazione del Parlamento con il contingentamento delle procedure, l’eliminazione dei contrappesi per evitare le derive in senso autoritario del potere, non lasciano sperare nulla di buono da questariforma della Costituzione, sebbene essa sia presentata dal Governo come la panacea di tutti i mali, e mettono in luce le storture di un sistema che tende chiaramente a ridurre le istituzioni democratiche e ad offuscare tale obiettivo attraverso la corsa al cambiamento a tutti i costi  lasciando però intuire che l’obiettivo vero è la trasformazione del sistema per consentire la facile governabilità ad una oligarchia contro le aspettative del popolo sovrano.

(fonte)

Nel merito. Referendum: approvate che lo stato sia tutto, le regioni niente e che uno solo decida la guerra?

(Di Raniero Valle)

Per parlare di una nuova Costituzione, che investe il presente e il futuro, è bene partire dai fatti del giorno.

Il primo di questi fatti è che il 18 ottobre l’UNESCO ha approvato una risoluzione che invita Israele a rispettare i diritti dei palestinesi a Gerusalemme, ma che ha il torto di chiamare la Spianata delle Moschee col suo nome arabo, ignorando la sua definizione ebraica come Monte del Tempio. Ciò ha provocato polemiche che dovevano avere degli sviluppi nei giorni successivi. Il più vistoso è stato che Renzi ha sconfessato il suo ministro degli esteri e ha definito “allucinante” il voto che l’Italia ha dato astenendosi su quella mozione. Di per sé una questione di denominazione non dovrebbe essere un casus belli, ma il fatto politico è il rovesciamento della politica italiana di neutralità attiva tra Israele e palestinesi, che risale a Moro e ad Andreotti. Ora Renzi nel conflitto fa una scelta a favore di Israele, cioè fa una scelta di campo, e la fa come se fosse scontata, come se l’Occidente a cui apparteniamo non fosse che un grande Israele.  E questo è un cambiamento della figura stessa dell’Italia, però non discusso e non deciso da nessuno; decide il primo ministro, e il suo stesso ministero degli esteri è preso in contropiede.

L’altra notizia da cui partire per il nostro discorso è che il 14 ottobre è stato eletto il nuovo Padre generale della Compagnia di Gesù, il venezuelano Arturo Sosa, che il giorno successivo, nella messa di ringraziamento, ha detto che dobbiamo avere l’audacia di intraprendere “l’improbabile e l’impossibile”. E la cosa che oggi sembra impossibile, per quanto sia necessaria, è di fare “una Umanità riconciliata nella giustizia, che vive in pace in una casa comune ben curata, dove c’è posto per tutti”.

Purtroppo siamo in una situazione opposta. Quello che dobbiamo fare, ha detto ancora il generale dei Gesuiti, è “pensare per capire in profondità il momento della storia umana che viviamo” e operare “per superare la povertà, la ineguaglianza e l’oppressione”.

Dunque, pensare la storia, dice la Compagnia di Gesù.

Ebbene, non c’è bisogno di essere cattolici per dire che nel momento in cui noi facciamo una nuova Costituzione che dovrebbe essere la nostra Regola per decenni, dovremmo misurarla con questi grandi temi che investono in profondità la nostra vita, e non con piccole cose come il numero dei senatori o il falso problema del ping pong tra Camera e Senato.

Un mondo in guerra

Vediamo allora la situazione in cui siamo e il modo in cui la nuova Costituzione vi risponde.

Siamo in una situazione di “guerra mondiale a pezzi”, come dice il papa, e ora siamo a rischio di una grande guerra su più continenti. A Mosul, l’antica Ninive, è cominciata la decisiva battaglia contro l’ISIS, che si difende in modo atroce, uccidendo e bruciando. Secondo l’UNICEF ci sono di mezzo cinquecentomila minori. Stati Uniti e Russia si fronteggiano militarmente in Siria. Aleppo è divisa in due, come Berlino. Solo che a differenza di quanto accadeva a Berlino, Aleppo ovest bombarda Aleppo est, e Aleppo est bombarda Aleppo ovest. Da una parte c’è Assad, con la Russia che lo difende, dall’altra ci sono i terroristi “moderati”, con gli Stati Uniti che li sostengono. Il vescovo cattolico maronita di  Aleppo, mons. Joseph Tobji, è venuto il 4 ottobre alla Commissione Esteri del Senato italiano, per far arrivare un grido all’Occidente. Ha detto che non c’è solo la sciagura di Aleppo est, tenuta dai governativi, di cui parlano tutti i giornali; anche Aleppo ovest è devastata, la popolazione è stremata, senza acqua né cibo né luce; ospedali e chiese cristiane sono distrutti, gran parte della popolazione della città, che ammontava a 4 milioni di persone, è profuga. Le guerre provocano le grandi fughe, le cui ondate arrivano in Europa che, illudendosi di chiudere le porte, si suicida.

Il vescovo di Aleppo dice: “siamo giocattoli in mano dei Grandi”, che si fanno la guerra per procura. La guerra è cominciata nel 2013 – ha detto – “sotto la minaccia di morte degli Stati Uniti”. Come si ricorderà nel settembre 2013 la guerra alla Siria, che era già pronta a partire, fu sventata da papa Francesco con la grande veglia di preghiera in piazza san Pietro. L’Occidente voleva il controllo della Siria e liquidare Assad, come aveva fatto in Iraq con Saddam Hussein, in Libia con Gheddafi, in Afghanistan con Bin Laden. Ma questa volta la guerra non la poté fare.  Allora essa fu intrapresa dai ribelli anti-Assad, chiamati liberatori e sostenuti e armati dagli Stati Uniti. Era prevedibile che dall’altra parte intervenisse la Russia, se voleva continuare ad avere quel ruolo mondiale che, nella miope percezione americana, essa aveva ormai perduto. Ed infatti la Russia di Putin è intervenuta con la sua forza politica, e con i suoi aerei e soldati. Se ora Russia e Stati Uniti negoziano un armistizio a Losanna, vuol dire che la guerra è tra loro.

Come se non bastasse, dopo la fine dei blocchi la NATO si è allargata ad includere i Paesi che avevano fatto parte del Patto di Varsavia, e addirittura i Paesi baltici che avevano fatto parte dell’Unione Sovietica, avanzando le sue basi fino ai confini della Russia: come ha detto Sergio Romano, che è stato ambasciatore a Mosca e alla NATO, questo è stato un errore, e non poteva essere vissuto dalla Russia che come un atto ostile. Poi, dopo l’intervento russo in Crimea e la crisi in Ucraina, l’Occidente ha imposto le sanzioni al Cremlino. Ora ha deciso di fare nel 2017 delle esercitazioni militari in Lettonia ai confini della Russia, e anche l’Italia manderà un corpo di spedizione di 150 uomini, come fece Cavour in Crimea. L’altro giorno da Washington è stato preannunciato un attacco cibernetico alla Russia. E Putin ha detto: attenti, state scherzando col fuoco.

Dunque oggi una guerra tra le grandi Potenze è tornata ad essere una possibilità reale.

Ora è evidente che questa guerra non ci riguarda, perché come sta scritto nella prima parte della Costituzione che ancora formalmente è in vigore, l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controverse internazionali; e tutte le guerre oggi in atto o minacciate appartengono a questo tipo di guerra che l’Italia rifiuta.

Allora la domanda è se la nuova Costituzione garantisce che non partecipiamo a guerre che ci sono estranee, o se invece rimuove gli ostacoli e apre la strada a un nostro coinvolgimento nelle guerre presenti e future.

Ebbene, è proprio la seconda cosa che accade; di fatto il popolo non avrà più alcuna garanzia costituzionale di non essere trascinato in una guerra non sua.

Poi ci sarà un don Milani che lo denuncerà, ma sarà troppo tardi.

Vediamo dunque la nuova Costituzione renziana. Riguardo alla guerra c’è un’innovazione esplicita e dichiarata, e ci sono delle innovazioni implicite e non dette che però travolgono tutte le garanzie.

L’innovazione esplicita è che il Senato, il quale non è affatto abolito, secondo l’articolo 78 della nuova Costituzione è escluso dal partecipare alla deliberazione della guerra e al conferimento al governo dei relativi poteri, deliberazione che invece è riservata al primo ministro e ai suoi deputati. E ciò è molto strano, perché secondo la riforma il Senato dovrebbe rappresentare le realtà territoriali, dove ci sono le case e i corpi delle persone che più di tutti sarebbero colpiti dalla guerra; ed è molto strano anche perché secondo la riforma il Senato dovrebbe funzionare come raccordo con l’Unione Europea, dovrebbe partecipare alla formazione e attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione Europea; inoltre dovrebbe valutare le politiche pubbliche all’interno e l’impatto delle politiche dell’Unione Europea sui territori. Dunque dovrebbe mettere becco su tutto ma non sulla guerra, e dovrebbe avere un peso determinante nel rapporto con gli Stati europei, ma non avrebbe alcun potere nella decisione più importante riguardante il rapporto con tutti gli Stati, europei e non europei, che è precisamente la decisione sulla guerra.

Il Senato, una testa di turco

Questo dimostra quale era la vera intenzione dei riformatori riguardo al Senato. Il Senato è la vera testa di turco della riforma ed è la cartina di tornasole che rivela il discrimine tra ciò che è falso e ciò che è vero nella riforma che ci viene proposta.

E’ falso l’argomento che il Senato venga riformato perché Camera e Senato oggi fanno la stessa cosa, sicché uno dei due sarebbe inutile. Anche il Tribunale e la Corte d’Appello fanno la stessa cosa, fanno gli stessi processi, ma non è affatto inutile che la libertà dei cittadini sia tutelata da due gradi di giudizio. Anche la polizia e i carabinieri fanno la stessa cosa, ma non è affatto inutile che se un colpo di Stato lo fanno i carabinieri, la polizia glielo possa impedire, o viceversa. Le Costituzioni democratiche sono lì proprio perché, quando si tratta del potere, le cose possano essere viste da due parti diverse.

E’ falso che il Senato venga riformato per valorizzare le Regioni e le autonomie locali. Anzi proprio nel momento in cui si fa finta di fare un Senato delle autonomie, la scelta autonomistica viene rovesciata, potremmo dire ripudiata.

Infatti si passa dal regionalismo della Costituzione del ’48 al centralismo statale, in base alla ideologia che tutto è dello Stato, e nulla al di fuori dello Stato. Non si tratta solo di una diversa ripartizione di competenze tra le regioni e lo Stato; in questo quadro, come dicono giustamente i fautori del Sì, una correzione rispetto a una eccessiva varietà di normative (ad esempio riguardo al turismo e al commercio estero) era necessaria. Si tratta invece del fatto che mentre nella Costituzione vigente, all’art. 117, si prevede che alle regioni spetti la potestà legislativa sulla generalità delle materie, tranne quelle espressamente attribuite allo Stato, e quelle di competenza comune, nella riforma  – abolita la legislazione concorrente – c’è un’invadente esclusiva competenza legislativa dello Stato, di cui alcuni residui sono lasciati alle Regioni. Ma si tratta soprattutto di leggi di ordine organizzativo e promozionale (come ad esempio la “promozione”, ma non la tutela e la valorizzazione, dell’ambiente e dei beni culturali). Nulla si toglie invece ai privilegi delle Regioni a statuto speciale (che potranno essere modificati solo d’accordo con le Regioni stesse), mentre altri frammenti di autonomia potranno essere gentilmente concessi per legge dallo Stato a qualche Regione meritevole o più ricca, dotata di bilanci virtuosi, in seguito a specifiche trattative ed intese tra quella Regione e lo Stato. Per esempio si dovrà vedere se la Regione Puglia, che ha fatto una legge per attribuire un “reddito di dignità” ai non abbienti, per poterlo fare anche in futuro, a norma dell’art. 116, 3 comma dovrà chiedere allo Stato che glielo conceda per legge, sempre che dimostri di essere “in condizioni di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”. In ogni caso, sia nella legislazione che nel sostituirsi agli organi degli enti locali, a norma dell’art. 120, il governo può avvalersi della “clausola di supremazia” in nome dell’unità giuridica ed economica della Repubblica. In sostanza mentre si rottama il Senato, per gabellarlo come Senato delle autonomie, le autonomie non ci sono più, ed è perciò che si dice che il Senato si riunirà per poche ore al mese; e dunque si passa dalla forma di Stato articolato in Regioni,  che in un recente dibattito televisivo Luciano Violante ha definito come un “policentrismo anarchico” al ristabilimento della supremazia dello Stato e della sua piena sovranità rispetto agli enti territoriali. Ma la forma di Stato è anche la forma della democrazia. E l’alternativa di società fatta di “formazioni sociali” e di autonomie che sta scritta nella prima parte della Costituzione, fu scelta dal costituente del 1947 come antidoto a quella che è stata chiamata “la sindrome del tiranno”.

Resta allora che i veri obiettivi della riforma del Senato erano due: il primo, quello di togliere al governo il fastidio di dover ottenere la fiducia di due Camere; il secondo, quello di sterilizzare il Senato e le comunità territoriali che esso dovrebbe rappresentare, rispetto alle decisioni supreme relative alla pace e alla guerra.

Quali garanzie contro guerre inconsulte?

Venuta meno la doppia garanzia di una conforme decisione di Camera e Senato sulla deliberazione dello stato di guerra, si potrebbe pensare però che l’ostacolo a guerre inconsulte sarebbe rappresentato da quanto previsto, e non formalmente abrogato, nella prima parte e segnatamente nell’art. 11 della Costituzione.

Ma purtroppo così non è, perché di fatto quel limite all’ingresso dell’Italia in guerre non sue è stato cancellato e poi superato dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda. Fino a quel momento, secondo gli articoli 11 e 52 della Costituzione, l’unica guerra ammissibile, l’unica guerra in cui legittimamente l’Italia potesse e dovesse combattere, era quella corrispondente al “sacro dovere” – come lo definisce l’art. 52 – della difesa della Patria. E per difesa della Patria si intendeva la difesa del popolo e del territorio, tant’è vero che l’esercito era schierato sulla soglia di Gorizia  per far fronte ai famosi cosacchi che dovevano venire dall’Est.  Ma nel 1991 l’Italia sdoganò la guerra partecipando alla prima guerra del Golfo contro l’Iraq. E il 26 novembre 1991,  come ho raccontato in un recente discorso a Messina, il governo venne da noi in Parlamento e presentò alla Commissione Difesa alla Camera (di cui facevo parte) un Nuovo Modello di Difesa in cui la guerra tornava a essere legittimata e la difesa non era più identificata con la difesa dei sacri confini della Patria, ma con la tutela degli interessi anche economici e produttivi dell’Italia dovunque essi fossero in gioco; a tale  scopo veniva potenziato un esercito professionale ristrutturato come Forza di intervento rapido e di proiezione di potenza e più tardi lo stesso servizio obbligatorio di leva veniva lasciato cadere. In più si provvedeva alla sostituzione del nemico, che non essendo più quello sovietico veniva individuato nell’Islam secondo il modello del conflitto divenuto ormai permanente tra Israele e mondo arabo.

Il Modello di Difesa non venne mai discusso né approvato dal Parlamento, ma venne di fatto tradotto nella legislazione sulle Forze Armate, nei bilanci della difesa e nelle scelte dei governi. Venuto meno il limite stabilito dalla Costituzione, la decisione sulle guerre da fare veniva di fatto affidata ai governi, e i loro primi ministri ne fecero largamente uso. Addirittura l’Italia partecipò ad una nuova guerra in Europa contro la Jugoslavia e il presidente D’Alema teorizzò il valore politico di quella scelta interpretandola come una espressione necessaria della politica estera dell’Italia e del suo contare nel mondo.

Poiché un’analoga concezione della difesa e dell’uso delle forze armate è stata nello stesso tempo adottata dalla NATO e da tutto l’Occidente, tutto ciò che ne è seguito, ivi compreso il terrorismo, la catastrofe delle Due Torri, il parto cruento dello Stato islamico, lo scontro con l’Islam, i soldati italiani in Libia e a Mosul, e ora la sfida alla Russia, sono conseguenze di quella scelta.

Si direbbe che l’Occidente il cui sistema economico e politico è entrato in una profonda crisi essendosi mostrato incompatibile con l’ordine del mondo, cerchi nell’incremento delle armi, nell’estensione del dominio e nella disseminazione delle guerre una risposta alla sua angoscia riguardo al futuro; ed è come se noi dovessimo partecipare a tutte le guerre di un capitalismo sfrenato, invece che operare, come dice il generale dei Gesuiti, “per superare la povertà, l’ineguaglianza e l’oppressione”.

In questa situazione, in cui si accentua la discrezionalità dei governi, diventa molto pericoloso che non si possano esprimere le voci dei popoli e che le decisioni possano essere prese da capi politici dai poteri incondizionati e liberi da controlli e garanzie.

Questa è la ragione per cui una Costituzione che tende ad assicurare una governabilità insindacabile per cinque anni e a ridurre il controllo del Parlamento sul  capo politico di turno, mentre si stende come un’ombra l’ipoteca dei grandi poteri militari e finanziari mondiali, sguarnisce i popoli di ogni difesa contro inconsulte decisioni di guerra. Nel caso italiano il nuovo sistema costituzionale risultante dal combinato disposto della Costituzione riformata e della legge elettorale maggioritaria, istituisce una nuova forma di governo che è stata chiamata in dottrina una “forma di governo di legislatura a vertice monocratico elettivo” . Questo modello, costruito sulla formula del “Sindaco d’Italia”, ormai al di fuori della forma della democrazia parlamentare,  finisce per attribuire al primo ministro un solitario potere di decidere tra la pace e la guerra. Il fatto che per la sua sussistenza, mediante la fiducia, il governo dipenda solo dalla Camera e che la maggioranza assoluta dei deputati, pur necessaria per la deliberazione dello stato di guerra, sia rappresentata da parlamentari di un solo partito, per di più scelti dallo stesso primo ministro e non eletti dal popolo, fa sì che nella situazione di massimo pericolo in cui il mondo è oggi precipitato il rischio di essere  portati verso una guerra, mentre giornali, televisioni e commentatori politici parlano d’altro, è molto elevato.

Basta ricordare che la decisione di muovere la guerra alla Turchia e di invadere la Libia, che fu l’inizio del lungo conflitto, che si ripete ancor oggi, fra l’Italia e l’Islam, nel settembre del 1911 fu decisa dal solo Giolitti, che se ne stava a Dronero, mentre il Re era in vacanza a San Rossore e il Parlamento era chiuso per ferie. Il problema è che il mondo di oggi è molto più pericoloso di quello di allora, ci sono le armi atomiche e i nuovi califfi, islamici o no, non sono affatto al tramonto come lo era allora il potere dell’Impero ottomano.

Facciamo questo discorso in un momento particolarmente delicato perché dobbiamo registrare il fallimento sul piano internazionale della presidenza di Obama. Voleva fare un mondo senza guerre, e lascia un mondo più frantumato e in guerra di prima. E ciò proprio per le politiche sbagliate degli Stati Uniti che hanno un’innata tendenza al dominio che passa da un’amministrazione a un’altra: essa fu formalizzata, all’inizio del 2000, nella scelta dell’obiettivo di “un nuovo secolo americano” a cui erano finalizzate le politiche di riarmo e di egemonia adottate nella cosiddetta nuova “Strategia della sicurezza nazionale”. La devastazione dell’America Latina, il braccio di ferro con la Russia, e soprattutto la spinta al dominio del mondo arabo nel Medio Oriente ne sono dei capitoli. E’ possibile che questa spinta verso un mondo e un tempo “americani”– caduti i tentennamenti di Obama – continui nella presidenza di Hillary Clinton (esorcizzato il fantasma di Trump), e che l’America sia portata a fare tutte le guerre del capitalismo in armi. Ed è solo grazie al papa che queste guerre non potranno più essere definite come guerre sante o di civiltà. Sono guerre e basta.

E qui si vede il pericolo di una totale dipendenza dei primi ministri italiani dal presidente americano, come quella manifestata ed enfatizzata da Renzi alla Casa Bianca,  perché vuol dire che l’Italia sarà chiamata a fare tutte le guerre che l’America deciderà di fare o vorrà che siano fatte. Ciò rende Obama uno sponsor non troppo affidabile del SI al referendum costituzionale. Anzi l’endorsement di Obama è un ottimo indicatore: proprio perché l’America dice di Sì, forse l’Italia dovrebbe dire di No.

(*) Pubblichiamo il quarto discorso di Raniero La Valle su “La verità del referendum”, tenuto alle Comunità parrocchiali di Bitonto nell’Auditorium dei Santi Medici Cosma e Damiano,il 19 ottobre, e al Circolo Arci Rinascita di Sesto Fiorentino, il 22 ottobre 2016. (fonte)

«Ci battiamo per la stabilità della Costituzione e per mettere fine alle riforme a colpi di maggioranza»: lo scriveva il PD. Firmava anche Mattarella.

Quando qualcuno mi chiede perché io mi stia spendendo per il No al referendum di solito mi basta tirare fuori il Manifesto dei Valori del Partito Democratico. Esattamente all’articolo 3. Leggere per credere:

«La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercè della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale. La Costituzione può e deve essere aggiornata, nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con riforme condivise, coerenti con i princìpi e i valori della Carta del 1948, confermati a larga maggioranza dal referendum del 2006.»

manifesto-dei-valori

Da wikipedia:

Romano Prodi in prima persona, nel corso del 2006, incaricò tredici personalità di spicco del mondo della cultura e della politica (Rita Borsellino, Liliana Cavani, Donata Gottardi, Roberto Gualtieri, Sergio Mattarella, Ermete Realacci, Virginio Rognoni, Michele Salvati, Pietro Scoppola, Giorgio Tonini, Salvatore Vassallo, Luciano Violante, più Giorgio Ruffolo che abbandonò in corso d’opera la stesura del testo per contrasti col resto del gruppo di lavoro) di redigere un Manifesto per il Partito Democratico, utile a enunciare i valori del nuovo soggetto politico, e possibile bozza e base provvisoria per un futuro manifesto di valori da redigere successivamente la nascita del partito.

Nel merito. Che c’entrano le donne con la riforma (Boschi esclusa)

Un gran pezzo di Giulia Sivierio:

Lo sfruttamento del femminismo come strategia di marketing non è un fenomeno recente: è stato usato per far cominciare le donne a fumare, per vendere trucchi, parrucchi, vestiti e persino libri, ma continua a produrre e a inventare nuovi modelli e obiettivi. L’ultimo dei quali è davvero stupefacente, visto il “prodotto” e visto che è stato usato in modo strumentale da chi dovrebbe stare ben lontana da questi trucchi. Questa è la conclusione: parto dall’inizio.

Maria Elena Boschi è ministra delle Riforme Costituzionali ed è anche delegata alle pari opportunità. Martedì 18 ottobre a Roma il PD ha organizzato l’incontro “Le ragioni delle donne per il Sì”. Il video integrale sta qui. La riunione è stata introdotta dicendo che «le donne hanno scelto di esprimersi e hanno deciso di dire sì». Le donne, non quelle che stavano lì al tavolo, non quelle in sala, non quelle del PD o altre fuori, tante o poche io non lo so. Le donne, dicevano. Molte, non l’hanno invece presa bene.

Ho scritto a delle amiche (il fatto che la delegata alle pari opportunità fosse intervenuta per piegare la questione femminile, o maschile, alla propria campagna elettorale a favore della riforma costituzionale, mi sembrava una cosa spregevole), ho pensato subito che le donne dovrebbero semmai essere più consapevoli della difficoltà di avere il diritto di voto e che quindi dovrebbero essere più sensibili ogni volta che una scheda (come quella del Senato non più elettivo) viene loro tolta di mano, poi ho cercato di non puntare la pistola, come mi dice spesso qualcuno, ho ascoltato e ho studiato la riforma da una prospettiva femminista.

La premessa è ovviamente che non ci sono argomenti da uomini e non ci sono argomenti da donne: ci sono semmai argomenti su cui la libertà delle donne è direttamente in gioco e su cui le donne si mobilitano maggiormente o sono più attente. Ecco, il referendum costituzionale è uno di questi?

(continua qui su Il Post)

Ma la credibilità è un fatto

(scritto per i quaderni di Possibile qui)

Ci vuole un gran fegato nel proporre una riforma costituzionale: significa essere convinti di avere lo spessore politico e morale di impugnare la penna in un testo che è costato sangue e richiede la convinzione di essere legittimati a un’operazione che avrebbe il dovere di unire un Paese che è sempre più diviso, crepato finanche nelle istituzioni e rabbioso. Questo non significa che la Costituzione sia sacra, no: la Carta Costituzionale è la legge madre delle leggi dello Stato e in quanto tale può essere migliorata. Di più: deve essere migliorata poiché il compito della politica, quella vera, è di alimentare e sintetizzare un continuo dibattito che tenda al meglio, alla limatura continua al passo dei tempi e delle esigenze.

La contrapposizione tra riformisti e conservatori nel prossimo referendum sulla riforma costituzionale Renzi – Boschi è un falso: qui c’è uno schieramento innamorato del feticcio del cambiamento per il cambiamento da una parte e chi invece crede che sia meglio il niente (ora, così) piuttosto che un “peggio di niente”. Poi di contorno ci sono di resto coloro che cavalcano il referendum per zuffe di partito o per spodestare il governo di turno ma questi ora non ci interessano.

Però nel minestrone del populismo e della strumentalizzazione la credibilità non c’entra. La credibilità di chi propone questa riforma è un fatto politico. La compagine di chi ha tessuto le trame di questa proposta di riforma (oltre che il modo) è un elemento caratterizzante e indicativo: in una democrazia parlamentare così tanto interferita dall’Europa finanziaria, un governo non è legittimato semplicemente dai banchi che si trova ad occupare. Troppo facile, no. Se una maggioranza si propone come elemento riformatore (se non addirittura stravolgente) in tema di Costituzione ha il dovere di farsi giudicare nella sua composizione.

Renzi e Verdini (ma anche Alfano ministro dell’Interno e la Pinotti ministra della guerra e la Lorenzin ministra alla riproduzione) sono connotazioni importanti: è la differenza tra chi vota no alla riforma “come” e questi che scrivono la riforma “con”. Per questo non dobbiamo avere remore nel giudicare la credibilità di questa strampalata ciurma: la credibilità è un fatto. Di merito. E va discussa dappertutto: nei banchetti, negli incontri, casa per casa.

Nel merito. Ecco perché con questa riforma il Parlamento diventa subalterno.

(intervista a Massimo Villone,  costituzionalista)

Roma. È da tempo che le Camere cercano di introdurre nei regolamenti la corsia preferenziale per i ddl più importanti del governo. Con la riforma la novità entra direttamente in Costituzione. Non le sembra positivo professor Massimo Villone?

«No. Mettere in Costituzione il voto a data certa per le leggi consegna al governo in via permanente il controllo dell’ agenda e dei lavori parlamentari, rendendo il Parlamento subalterno, per di più quando se ne riduce la rappresentatività con un Senato non elettivo. Inoltre, crea una rigidità che riduce la capacità del Parlamento di rimanere aderente al sistema politico».

Il voto a data certa dovrebbe ridurre la necessità di decreti e fiducie, strumenti molto abusati finora dagli esecutivi. Non è la mossa giusta?

«No. Si evitano forse decreti e fiducie, ma si mette la mordacchia al Parlamento in altro modo. Una legge pur contestata come il Lodo Alfano sull’ immunità per i potenti, è stata approvata in tre settimane tra Camera e Senato. Senza bisogno del voto a data certa che, paradossalmente avrebbe chiesto tempi maggiori. Oggi un governo con una maggioranza coesa può senza dubbio dettare scelte e tempi. Ma con il voto a data certa si vuole normalizzare la maggioranza di governo, marginalizzando il dissenso. In parallelo, con la clausola di supremazia nel Titolo V si normalizzano le comunità locali. È la “democrazia decidente” del Sì».

Al Senato assemblea e commissioni non dovranno più rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Come si articolerà Palazzo Madama?

«I consigli regionali sono eletti con sistemi maggioritari. Assegneranno i senatori in prevalenza alle forze vincenti nel territorio, spesso con l’ apporto di liste locali o civiche di ambigua identità politica. I senatori non avranno vincolo di mandato, diversamente dal Bundesrat tedesco. Avranno invece le prerogative dei parlamentari per arresti, perquisizioni, intercettazioni. Nella migliore delle ipotesi, una simile assemblea sarà luogo di interessi particolari e di egoismi territoriali».

(Repubblica, 19 Ottobre 2016)

Nel merito. I governi passano, la Costituzione resta

(testo dell’intervento pronunciato da Laura Ronchetti in occasione della presentazione del numero di Democrazia e diritto sulla revisione costituzionale, il 18 ottobre scorso a Roma)

Il volume di DEMOCRAZIA E DIRITTO che raccoglie le ragioni del No al referendum costituzionale esprime nel suo insieme un messaggio chiaro e a tutt’oggi rivoluzionario: si tratta del principio “che è il popolo a dare al governo una costituzione e non viceversa”.

Si tratta di un principio – “incontestabile” dal punto di vista del costituzionalismo – richiamato da Hannah Arendt a proposito della rivoluzione americana che, come quella coeva francese, ha colto la valenza delle Costituzioni quale fonte di legittimazione e di limitazione del potere.

Ne coglie il senso Ida Dominjanni quando parla di “paradosso inaudito di un governo costituente”. È un’illusione, infatti, pensare che il potere si autolimiti. Questo semplice ma grande principio (è il popolo ad imporre la costituzione al governo e non viceversa, sia nel procedimento di formazione che nel contenuto) va oltre la mera opportunità politica o prassi costituzionale; coglie, invece, nel vivo l’essenza del costituzionalismo democratico.

Le Costituzioni democratiche hanno visto la luce soltanto in seguito a moti di liberazione dal potere assoluto o falsamente autolimitatosi che le hanno imposte come argini, per non tornare più indietro, a forme così concentrate di potere da essere necessariamente autoreferenziali, oligarchiche. Le Costituzioni sono dighe per arginare la – per certi versi inarrestabile, irresistibile – tendenza e tentazione del potere di invadere, di esondare dalle proprie prerogative. Un potere accentrato e concentrato tende ad abusare, a strafare, a sopraffare. Sopraffare certamente le minoranze, ma non solo: un potere concentrato e non limitato può sopraffare anche le maggioranze, come insegna la storia remota, prossima e, con incredibile ricorso storico, quella presente.

La limitazione del potere si impone per poter perseguire i diritti fondamentali ma più in generale il bene comune dell’intera popolazione, non gli interessi di quella parte che sostiene il governo di turno. Per questo i limiti costituzionali che si pongono al governo sono di vario tipo: di attribuzioni, da dividersi con le altre istituzioni statali e quelle non statali (come le Regioni); di contenuto, con un indirizzo politico da ricavare dalla prima parte della Costituzione; di tempo: ogni governo è pro tempore. A prescindere dal loro succedersi tutti i governi sono tenuti per lo meno all’osservanza, se non all’attuazione, della Costituzione.

La Costituzione resta, i governi no.

La posta in gioco oggi, dunque, è fondativa del nostro stesso modo di concepire le forme politiche e sociali della convivenza tra di noi e con gli altri popoli, questione ben più seria di chi governerà dal 5 dicembre in poi. Per questo il voto del popolo del 4 dicembre deve essere il voto di un popolo che, rinnovando la propria fiducia nei principi del costituzionalismo democratico, dà al governo una Costituzione e respinge l’idea – parafrasando il contributo di Massimo Villone – che il “governo forte” possa scrivere una “Costituzione debole” per noi.

Noi, cittadine e cittadini, tutte le persone presenti sul territorio italiano, siamo le destinatarie e i destinatari della Costituzione. Ognuno di noi deve poter capire cosa dice la Costituzione, quali diritti e doveri riconosce, quali i principi fondamentali che devono fondare e orientare le forme del vivere comune e in comune, quali le istituzioni che assicurano l’attuazione di questi diritti, doveri e principi.

Per queste motivazioni pongo come questione democratica la questione del linguaggio, dello stile, della grammatica della Costituzione: non si tratta di far prevalere la forma sulla sostanza, ma al contrario di dare sostanza alla forma.

La Costituzione a chi parla? È il collante, il terreno comune, la norma fondamentale, la narrazione condivisa dalla comunità politica, a prescindere delle sue divisioni? Allora deve essere semplice, chiara, limpida e, proprio per questo, solenne. Deve essere per il popolo quel che è la lingua madre per ognuno di noi. A chi serve una Costituzione incomprensibile, respingente? Soltanto a chi vuole aggiudicarsi il monopolio della sua interpretazione. Soltanto a chi intende perseguire un ulteriore scollamento con il progetto politico contenuto nella nostra Costituzione, che rappresenta l’ultimo argine contro il pieno dispiegarsi della lex mercatoria nel nostro paese.

Noto è lo scempio che si fa dell’art. 70 che giustamente Roberta Calvano ha inserito per intero nel suo contributo invitando a guardare con i propri occhi e a toccare con mano, come san Tommaso, l’incredibile scelta di sostituire con un tortuoso testo di oltre due pagine (pp. 57-59 del volume) l’attuale disposizione: “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” che, per inciso, entra abbondantemente in un tweet.

Difficile sarà per l’elettore valutare la bontà dei nuovi procedimenti legislativi ma particolarmente facile sarà capire che non si sta semplificando se addirittura tra costituzionalisti ancora si discute quale sia il loro effettivo numero.

Questa fluviale revisione tocca, oltre all’art. 70, altri 46 articoli.

Come giustamente osserva Ferrajoli, non si tratta di revisione costituzionale ma di un’altra costituzione: non solo perché modifica ben 47 articoli su 139 ma anche perché le modifiche della Parte II della Costituzione dedicata all’ordinamento della Repubblica non possono non avere ricadute sulla Repubblica stessa che il soggetto di tutti i principi fondamentali della Parte I della Costituzione. Basti fare riferimento in modo particolare all’art. 3 della Costituzione: è la Repubblica nel suo insieme a dover perseguire il principio di uguaglianza sostanziale, che è a fondamento del nostro Stato sociale e dei nostri diritti sociali il cui godimento è indissolubilmente legato all’effettivo esercizio dei diritti civili e politici.

La revisione costituzionale in corso appare, dunque, una tappa dirimente di quel processo di naturalizzazione delle riforme, e in particolare di quelle neoliberiste, di cui parla Dominijanni. Si inserisce nel solco del “revisionismo regressivo” ripercorso da Claudio De Fiores. Perché? Perché persegue la spoliticizzazione delle istituzioni e, dunque, della comunità e delle collettività rappresentate da queste istituzioni, spoliticizzazione che è funzionale a quelli che si presentano come gli “imperativi” neoliberisti: come argomenta Wendy Brown nel suo ultimo libro è il mercato al posto della politica; non si tratta più di mera delegittimazione del conflitto ma di una drastica riduzione della possibilità stessa che il conflitto possa trovare spazio nelle istituzioni.

Ciò in parte spiega perché i contenuti di questa revisione costituzionale, come argomenta Mauro Volpi, richiamino quelli della riforma Berlusconi. La differenza più vistosa investe il ruolo delle regioni: nel 2006 fu respinta la cd devolution, dieci anni dopo ci confrontiamo con la proposta di una centralizzazione dei poteri che svuota in gran parte lo stesso concetto di regionalismo politico prescelto dai nostri Costituenti. Un regionalismo in funzione di contropotere dello Stato, quale visione ascendente del potere, di garanzia del pluralismo territoriale e politico.

Si tratta di un punto dolente, perché non di rado la letteratura costituzionalista associa l’uguaglianza allo stato centrale e la libertà al regionalismo che consente la differenziazione: in questa visione però l’uguaglianza è intesa come omogeneità, parità formale, che rifiuta di tenere in considerazione quelle diversità che richiedono differenziazione per perseguire l’uguaglianza sostanziale. È necessario rivedere il Titolo V per i gravi errori che sono stati compiuti nel 1999, nel 2001 e ancora nel 2012, ma non nella direzione di uno Stato centralizzato iperburocratizzato.

Con la presente riforma costituzionale, infatti, la spoliticizzazione tocca le regioni, ridotte a enti amministrativi, e con esse la Camera che dovrebbe rappresentarle.

Non solo si procede a una drastica contrazione delle competenze regionali, ma tra le materie di competenza delle Regioni elencate nel nuovo terzo comma dell’art. 117 sono presenti molti riferimenti alla mera programmazione e organizzazione, promozione e valorizzazione che suggeriscono una nuova visione della natura stessa delle autonomie regionali. Saremmo difronte, dunque, a una sorta di definitiva amministrativizzazione delle Regioni, concepite come meri enti funzionali all’indirizzo politico del governo e non più come autonomie politiche.

Analoga deriva sembrerebbe interessare il nuovo Senato. Se ne trova conferma nell’unica funzione attribuita a titolo esclusivo al Senato: la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni e la verifica dell’attuazione delle leggi si connotano chiaramente per essere attività non vincolanti e di carattere tecnico-amministrativo. Le Regioni e con esse la Camera che le rappresenta, dunque, costituiranno un bilanciamento, un contrappeso al potere dello Stato insoddisfacente.

Quando parliamo di Stato, a quale istituzione dobbiamo fare riferimento: alla Camera dei deputati, al Governo o al loro rapporto fiduciario?

Giustamente Azzariti invita a “interrogarsi su dove va a finire la perdita di potere del Senato riformato” e, aggiungerei, delle Regioni nell’assetto complessivo dei poteri. Sarebbe rassicurante rispondere nella Camera dei deputati che diventa davvero l’organo la cui centralità potrebbe dare slancio alla piena partecipazione di tutti i lavoratori alla vita economica sociale e politica del paese.

Nel contesto di predominanza della minoranza più forte che si determinerà nella Camera dei deputati nell’operare congiunto di Italicum e revisione costituzionale, purtroppo non sarà così.

È necessario valutare, infatti, quale peso l’ordinamento attribuisce al principio di maggioranza ovvero assicura alle posizioni minoritarie. Non esiste pluralismo possibile senza la pari dignità delle minoranze, non esiste costituzionalismo che non nasca per tutelare le minoranze dalla tentazione di sopraffazione delle maggioranze o, peggio ancora, della minoranza più forte, come ricorda Clemente di San Luca. Loranza Carlassare spiega chiaramente perché con l’Italicum la minoranza più forte è in una posizione di predominanza dell’intero assetto dei poteri: ottiene una maggioranza più che assoluta alla Camera dei deputati, e conseguentemente il controllo dell’elezione del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei membri laici del Csm, ed anche del procedimento di revisione costituzionale. Prova ne sia l’attuale applicazione dell’art. 138 Cost. ad opera di un Parlamento eletto con il Porcellum, strutturalmente simile all’Italicum. In questo modo, conclude Carlassare, “intere fasce sociali, private della rappresentanza, sono espulse dal sistema”.

Tutto ciò non potrà non incidere direttamente sulla materialità delle nostre esistenze. Inciderà, come scrive Chiara Giorgi, sul “potere di decidere delle e sulle nostre vite individuali e collettive”. Tutto ciò bloccherà ogni tentativo di espansione dei principi del costituzionalismo con una revisione in senso progressista come invita Michele Della Morte, in nome di una cultura non mercantile, aperta a rimettere del tutto in discussione il rapporto tra lavoro di produzione e quello di riproduzione sociale, come auspica Dominjanni. Viceversa contribuirà a determinare una democrazia minore, come scrive Prospero, se non la minorità per gran parte della popolazione, dalle classi ai soggetti subalterni, disconosciuti nelle loro differenze, a partire da quella sessuale fino a quelle territoriali.

Ciò significherebbe vivere senza costituzione o con una Costituzione decostituzionalizzata, come teme Dogliani, e tutto ciò ha poco a che vedere con una democrazia compiuta nella quale il governo è il potere esecutivo di un’assemblea rappresentativa di una comunità politica attiva e plurale.

Per questo auguro a tutti noi una vita activa, garantita dalla Costituzione.

(fonte)