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Criminalità Organizzata

Il sottosegretario dei migliori

Fanpage in una sua inchiesta che (c’è da scommetterci) difficilmente passerà nei telegiornali nazionali racconta la transizione politica dell’attuale sottosegretario all’Economia Claudio Durigon, uno dei fedelissimi di Salvini (e infatti per niente amato dalla Lega vecchia maniera). Ve lo ricordate Matteo Salvini quando tutto fiero presentava i suoi uomini nel governo Draghi? «Questo è il governo dei migliori?» gli chiese una giornalista e lui rispose «certo questi sono gli uomini migliori della Lega».

Bene, eccolo il migliore: come racconta benissimo Fanpage, Durigon è uno che avrebbe gonfiato i dati degli iscritti del sindacato Ugl di cui era dirigente, riuscendo a dichiarare 1 milione e 900mila iscritti mentre erano (forse) 70mila. Sapete che significa? Che stiamo continuando a parlare di una rappresentatività dopata che non esiste nella realtà (questo anche a proposito del nostro Buongiorno di ieri sulla sparizione del salario minimo dal Pnrr, su cui torneremo). Durigon da sindacalista ha avuto piena gestione sulla cassa da cui potrebbero essere passati i movimenti che la Lega non era libera di fare per quella storia dei suoi 49 milioni di euro. Durigon ha fatto prostituire un sindacato (pompato) alla Lega per ottenere qualche candidatura. Poi ci sono le amicizie che sfiorano certa criminalità organizzata nel Lazio (ma i lettori più attenti lo sapevano da tempo che certi clan hanno fatto campagna elettorale nel Lazio per Lega e Fratelli d’Italia) e infine c’è quella registrazione vergognosa in cui Durigon tutto sornione confida di non avere nessuna preoccupazione sulle indagini sui soldi della Lega perché il generale della Guardia di Finanza che se ne occupa è un uomo che hanno “nominato” loro: «Quello che fa le indagini sulla Lega lo abbiamo messo noi»

Tutto grave, tutto gravissimo. Tra l’altro fa estremamente schifo anche questo atteggiamento di politici con il pelo sullo stomaco che ancora si atteggiano come i peggiori politici socialisti, i peggiori unti democristiani che sventolavano il potere come se fosse un mantello, per piacere e per piacersi. Fa schifo questa esibizione dello scambio di favori. Fa schifo tutto.

Fa schifo anche Salvini che ieri alla Camera ha risposto ai rappresentanti del M5s che sottolineavano l’inopportunità di un tizio del genere come sottosegretario mettendosi a parlare di Grillo. Il solito gioco da cretini di buttare la palla in tribuna. Il solito Salvini. Se posso permettermi è parecchio spiacevole anche il composto silenzio del Pd che vorrebbe rivendere il poco coraggio come diplomazia. Siamo alle solite.

C’è però anche un altro punto sostanziale: della vicinanza tra Durigon e uomini della criminalità organizzata durante la sua campagna elettorale ne avevano scritto un mese fa Giovanni Tizian e Nello Trocchia su Domani, degli intrecci mafiosi su Latina ne scrivono da anni dei bravi giornalisti chiamati con superficialità “locali” e che invece trattano temi di importanza nazionale. Sembra che non se ne sia mai accorto nessuno e questo la dice lunga sulla percezione che in questo Paese si continua ad avere della criminalità organizzata. Anche questo fa piuttosto schifo.

Buon venerdì.

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Poi però non vi meravigliate se la gente comune impoverita scende in strada a protestare

Sì, è vero, da anni alcuni gruppi organizzati, che siano criminalità organizzata o estremisti politici e frange violente, sfruttano il disagio sociale per esercitare violenza e per sfruttare il malcontento. Alcuni sono semplicemente criminali che tentano di travestirsi da scontenti e che si infilano nelle manifestazioni degli altri. Le indagini ci diranno cosa è accaduto a Napoli, a Milano, a Lecce, a Trieste, in un’ondata di manifestazioni che ha attraversato tutta l’Italia.

Ed è vetro anche che non erano sicuramente commercianti preoccupati quelli che hanno devastato le vetrine (di altri commercianti) semplicemente per mettere in atto un furto con scasso. Però bisogna stare attenti, molto attenti, a non perdere l’equilibrio nelle situazioni difficili (e sarà sempre più difficile, vedendo i numeri) e cadere nel giochetto di criminalizzare per non analizzare, di bollare per non discutere perché insieme alla violenza di alcuni ci sono anche le manifestazioni pacifiche che stanno spuntando in tutto il Paese.

Manifestazioni che non finiscono sui giornali perché (per fortuna) non si distinguono per ferocia e sfregio delle regole ma che in questi giorni (solo ieri ne sono state fatte nel pomeriggio due a Milano) stanno raccontando tutto il disagio di intere categorie che si ritrovano sull’orlo del baratro.

È un esercizio di equilibrio e di misura delle parole, certo, ma in fondo è il compito primario della politica e del giornalismo quello di raccontare un Paese senza appiattirlo sulla rappresentazione più comoda. Questa seconda ondata di pandemia rischia di mettere fine a molte piccole attività imprenditoriali che non hanno la disponibilità di superare nuove chiusure senza un aiuto veloce e consistente dello Stato.

Anche le statistiche ci dicono che l’Italia, già povera, continua a impoverirsi durante la pandemia e le disuguaglianze si fanno ogni giorno più spiccate. Sarebbe un errore enorme mischiare quel disagio, un disagio vero, fatto di paura mischiata all’indigenza e mischiata alla mancanza di prospettive future, con quello che invece accade a causa di violenti e di rimestatori. Ed è anche una narrazione tossica che aggraverebbe ancora di più la sensazione di “non esistere” di chi non si vede riconosciuto dallo Stato. Se la tutela della salute impone il blocco, la sussistenza diventa un problema politico evidente e urgente, che non si può nascondere sotto il tappeto dei violenti.

Leggi anche: 1. L’Alto Adige non ci sta e sfida Conte: ristoranti, bar e cinema restano aperti / 2. Guerriglia nelle città d’Italia contro le misure anti-Covid: bombe carta a Milano, negozi saccheggiati a Torino / 3. Il negozio di Gucci saccheggiato a Torino: manifestanti rompono la vetrina e rubano i vestiti | VIDEO

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Ieri sera a Napoli, lo Stato dov’era?

Tanto tuonò che piovve. Metteteci dentro i toni non certo concilianti di un presidente di Regione come Vincenzo De Luca, sempre troppo abituato a gigioneggiare sfidando tutto e tutti, metteteci dentro lo scontro sociale che covava da mesi, aggiungeteci la paura e infine condite tutto con le solite frange di estrema destra, dei gruppi ultras e di criminalità organizzata che da sempre sfruttano la disperazione e la violenza per ottenere un po’ di consenso e eccoci alle vie di Napoli di ieri sera dove la protesta contro il lockdown annunciato dal presidente della Regione è sfociata in una deriva criminale che appare troppo bene organizzata per essere considerata semplicemente l’espressione dell’esasperazione.

Che la pandemia sia nata come semplice problema sanitario, poi problema sanitario e economico e che infine sarebbe sfociata in un problema sanitario, economico e di ordine pubblico era facilmente prevedibile: già nel pomeriggio di ieri Roberto Fiore, pregiudicato leader di Forza Nuova, aveva annusato l’aria e aveva capito di potersi travestire da malcontento per menare un po’ le mani, annunciando la discesa in piazza del suo partito “al fianco degli esercenti napoletani”. Che poi di “esercenti napoletani” ce ne fossero pochissimi e che il nucleo della protesta fosse il frutto di un’organizzazione che solo i clan e i gruppi ultrà possono redigere in modo così strutturato non è cosa da poco.

L’organizzazione della protesta è avvenuta nel pomeriggio attraverso i canali Telegram che da giorni organizzavano assedi e aggressioni: che la cosa sia sfuggita alle Forze dell’Ordine e non a certi giornalisti pone anche degli inquietanti interrogativi sulle capacità dello Stato di prevenire la violenza. Le immagini di ieri ci raccontano di poliziotti assolutamente impreparati a contenere quell’onda d’urto.

Spostare tutto sulla violenza e banalizzare il malcontento però è un esercizio pericoloso, soprattutto in vista di scelte ancora più stringenti sul territorio nazionale: non è possibile pensare alle chiusure totali senza immaginare un welfare con degli ammortizzatori sociali che accompagnino le decisioni. Forse sarebbe il caso che i politici lancino meno strali e spieghino, passo per passo al giusto tempo, quali siano anche le forze messe in campo per garantire che gli eventuali lockdown non diventino sinonimo di fame e fallimento. Se preservare la salute pubblica costa (eccome se costa) lo Stato se ne deve fare carico. Altrimenti l’assist ai violenti che aspettano l’occasione è subito servito.

L’INCHIESTA DI TPI SUI TAMPONI FALSI IN CAMPANIA: Esclusivo TPI: “Che me ne fotte, io gli facevo il tampone già usato e gli dicevo… è negativo guagliò”. La truffa dei test falsi che ha fatto circolare migliaia di positivi in Campania

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La questione immorale

Salvini che nega la pericolosità del Covid e sdogana idee mostruose e lesive contro i migranti. Meloni e la collusione di dirigenti di Fratelli d’Italia con la criminalità organizzata. Il trasformismo del M5s e il Pd che non mantiene le promesse. Nei partiti più grandi c’è un grave problema di etica, di coerenza e di senso civico

Ma come siamo messi con la questione morale in Italia in questo momento? Meglio: cosa ci dicono i partiti italiani, come svolgono il loro ruolo propedeutico e pedagogico, come era pensato nella politica alta, quella che si prometteva di essere anche un esempio oltre che semplicemente un mezzo di governo. Come siamo messi con l’etica degli organi di rappresentanza, quelli che dovrebbero convincerci a essere migliori, a seguire le regole, a rispettarle, a chiederne la modifica se non risultano abbastanza contemporanee e rappresentative… Siamo messi male, malissimo. E siamo messi male dappertutto, a destra, a sinistra e anche nel famoso terzo polo che era quello che nelle intenzioni avrebbe dovuto spaccare tutto e invece ora come una pianta rampicante si è attaccato ai posti di comando e sembra disposto perfino a rinnegarsi pur di lasciare attaccati alcuni dei suoi. È immorale Matteo Salvini, certo, ne abbiamo parlato spesso su queste nostre pagine e non finiremo di parlarne. È immorale perfino venirci a dire che dovremmo smettere, che attaccarlo di continuo fa il suo gioco: se per un trucco di propaganda fingiamo di non vedere l’orrore che ci circonda sperando che sparisca significa che anche noi ci sdraiamo sulla strategia piuttosto che sull’etica.

L’immoralità di Salvini è un marchio di fabbrica, ce n’è una parte addirittura esibita come se fosse qualcosa di cui andare fieri. Guardate per esempio la sua ultima foto mentre visita un caseificio nel suo lungo tour da food blogger: non ha mascherina, non ha guanti, si butta su una forma di formaggio come un topo, i proprietari dell’azienda lo guardano compiaciuto e probabilmente godono nel pensare alla visibilità inaspettata che potranno avere. Là dentro c’è tutto: l’atteggiamento è quello di chi dice “me ne fotto delle regole perché sono un bullo, voi votate un bullo perché così vi sentite protetti e io raccatto i vostri voti di servi che hanno bisogno di eleggere un padrone”. Messa così sarebbe anche abbastanza ridicola se non fosse che l’immoralità della Lega, quella che Salvini invece non vuole farci vedere e di cui non vuole che si parli, sta tutta nella gestione economica rapace dei fondi pubblici di partito (c’è una condanna, definitiva, che sembra non avere colpevoli), l’immoralità della Lega è nell’avere slacciato le…

L’articolo prosegue su Left del 21-27 agosto 2020

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«Non si uccidono perché ci sono abbastanza soldi»

“A Roma non ci sono i morti ammazzati perché qui ci sono soldi per tutti e non c’è bisogno di uccidersi”. Così il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, nel corso della presentazione del quarto rapporto dell’osservatorio Luiss sulla legalità dell’economia. Parlando della situazione nella capitale, Pignatone ha sottolineato che “il rapporto è un’ulteriore dimostrazione che la mafia a Roma c’è, ma ha caratteristiche particolari e diverse dalle altre”. “Più che di mafia a Roma si deve parlare di mafie – ha aggiunto il procuratore – la capitale ha un’estensione territoriale troppo grande per essere controllata da un solo clan, e i soldi che girano sono molti, abbastanza per tutti e abbastanza per evitare le stragi che invece hanno caratterizzato le mafie del sud”.

Le parole di Pignatone però non valgono solo per Roma. O no?

Mafia: si consegna Tommy Parisi, il mafioso neomelodico

tommyparisi

Si è consegnato nel pomeriggio all’autorità giudiziaria Tommy Parisi, figlio del boss del quartiere Japigia, Savinuccio. Il 33enne cantante neomelodico era ricercato dal 15 marzo, quando la maxioperazione antimafia “Do ut des” ha smantellato l’impero del clan più importante di Bari, svelando un pericoloso intreccio fra imprenditoria e criminalità organizzata. Restano ancora latitanti il fratello di Savino, Giuseppe Parisi detto “Mamès”, vero reggente del clan quando Savinuccio è detenuto, e il cognato Battista Lovreglio, anche lui ritenuto uomo di fiducia del capo.

In mattinata durante perquisizioni e appostamenti, gli uomini della squadra mobile della questuradi Bari avevano arrestato un altro ricercato, Donato Catinelli, 44 anni, considerato il referente dell’organizzazione mafiosa sulla zona di Polignano a Mare. Compare nelle indagini anche come l’istigatore di un violento pestaggio, commesso da Michele Parisi e da un altro uomo ai danni del cognato di Catinelli, perché convincesse sua sorella (ex moglie di Catinelli) a lasciare la casa popolare, già occupata abusivamente, e alla quale secondo loro non aveva più diritto dopo la separazione.

Gli investigatori della squadra mobile e i colleghi del Servizio centrale operativo hanno eseguito anche le misure patrimoniali disposte dal gip Alessandra Piliego con un decreto di sequestro preventivo. Sotto sigillo tre pizzerie, tre bar, due rivendite di frutta, pesce e carne, due imprese edili, tre immobili, sette auto, quattro moto, sei conti correnti bancari con un saldo attivo di 43mila euro, oltre a 3mila euro in contanti. E ancora: sette orologi di valore, oggetti d’oro (alcuni con particolare valore simbolico) per un peso di tre chili e pietre preziose. Il sequestro, operato fra Bari e Bitonto, è stato stimato per un valore di 5 milioni di euro.

 (fonte)

Expo 2015: Nando Dalla Chiesa illustra i “buchi” d’ingresso delle mafie

(dal blog del sempre attento Roberto Galullo):

UpkPfA5XLjgQ4tF9fgMfrD7r4B9WJIqintARxUP+Z5s=--expo_milanoIl 24 febbraio Nando Dalla Chiesa, direttore dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università degli studi di Milano, è stato nuovamente audito dalla Commissione parlamentare antimafia.

In quell’occasione ha presentato il secondo rapporto trimestrale sulle aree settentrionali, nell’ambito di un incarico della Commissione relativo a un’analisi sulle principali dinamiche di azione della criminalità organizzata e della loro evoluzione nel contesto sociale ed economico delle regioni del nord Italia.

Dalla Chiesa, ad un certo punto, descrive la situazione di Expo 2015, che tra un batter d’occhio aprirà i battenti e illuminerà il mondo della scienza italica.

Bene. La ricerca dipinge delle tappe di avvicinamento alla Esposizione mondiale che non sono propriamente costellate di petali di fiori così come le veline istituzionali puntano costantemente a farci credere.

Ci sono delle volte in cui il cronista non ha nulla da aggiungere rispetto a quanto plasticamente descritto da una ricerca (su questo umile e umido blog mi concentrerò, anche la prossima settimana, su diversi aspetti interessanti).

Leggete, quindi, cosa dichiara testualmente Dalla Chiesa di fronte ai commissari: «È interessante vedere con quali modalità e meccanismi concreti le organizzazioni mafiose sono riuscite a entrare nei lavori di Expo. Mi sembra particolarmente interessante sottolinearlo perché i lavori di Expo sono stati accompagnati da una grande attenzione a evitare l’ingresso delle organizzazioni mafiose, con riflettori che sono stati puntati dalla stampa per anni su quei lavori, la nascita di una commissione consiliare e di un comitato antimafia di esperti da parte del sindaco, un prefetto che ha svolto attività di controllo con decine e decine di interdittive nei confronti di imprese in odore di mafia.
Insomma, non si può dire che ci sia stata una disattenzione del sistema nei confronti del fenomeno mafioso. Eppure, stiamo rilevando ancora oggi, alla vigilia di Expo, delle presenze che abbiamo segnalato nella relazione dell’ultimo comitato antimafia del sindaco Pisapia e che chiedono di proporre alla Commissione parlamentare questi meccanismi che abbiamo cercato di isolare in questo modo.
Come abbiamo detto, entrano in punto di fatto, non di diritto, quindi non perché ricevono degli appalti o dei subappalti. È particolarmente interessante vedere questi meccanismi. Innanzitutto, i controlli che vengono annunciati e che sembrano tutelare pienamente lo svolgimento di quei lavori a volte non sono realizzati o non lo sono per molto tempo.
Per esempio, c’è stata un’estrema episodicità dei controlli interforze per tutta la fase degli sbancamenti, quella in cui c’è stato il movimento terra, che è verosimilmente quella della più forte presenza e attività di imprese di natura mafiosa. Ecco, la fase degli sbancamenti ha visto una presenza bassissima dei controlli interforze (solo 3 controlli nei primi sei mesi).
Vi è stata, poi, una prolungata inesistenza dei controlli elettronici agli ingressi, che erano stati annunciati dalle autorità, ma che per due anni non hanno funzionato. Ciò vuol dire che per due anni i camion sono entrati e sono usciti senza essere rilevati, con un uso parziale dei famosi Gps per seguire i percorsi fino ai luoghi di consegna del materiale. Anche in questo caso, soltanto una parte dei camion e solo da un certo punto in poi è stata seguita attraverso il sistema Gps.
Abbiamo identificato un’inefficacia dei controlli effettuati, cioè carenza di controlli notturni o sulle imprese operanti sul terreno. Anche le modalità di svolgimento dei controlli Arpa sono stati deficitari. Non ci sono state verifiche sulle cave di conferimento dei rifiuti tossici, un paio delle quali sono particolarmente a rischio. C’è un’infedeltà dei controlli praticati. Ci sono, cioè, indicazioni discrezionali del peso dei materiali in ingresso e in uscita perché le pese erano inattive o inaccessibili, quindi quanto entrasse e uscisse non era misurato da nessuno strumento di rilevazione attendibile, così come c’era una valutazione a occhio della qualità del materiale trasportato dentro e fuori dai cantieri. Come sappiamo e come è dimostrato anche dal caso Perego, spesso la terra che sta sopra il carico che viene trasportato nasconde altro.
Vi è stata, per giunta, un’insofferenza delle strutture Expo rispetto ai controlli, con il diniego anche nei riguardi del comitato Pisapia e delle richieste dei settimanali di cantiere. Questo è stato inserito nell’ambito dell’ostruzionismo burocratico, con la difficoltà per gli stessi consiglieri comunali di entrare, lo scoraggiamento delle visite della polizia locale, le domande di sbrigafaccende per le emergenze operative. Ecco, i meccanismi veri sono stati questi
».

Ora, a vostro giudizio, rispetto a questa plastica chiarezza testimoniale sulla inefficienza e scarsità dei controlli, di fronte alla limpida esposizione sulla insofferenza dei taluni apparati perfino all’ingresso di commissioni comunali (alla faccia della trasparenza e della casa di vetro), di fronte alla denuncia sulle carenze, un giornalista può aggiungere altro? Non credo.

Ma Dalla Chiesa (ergo il gruppo di ricerca che ha sapientemente tirato su e a loro va il mio grazie anche per le citazioni a miei articoli fatte nel rapporto) va oltre e fa anche degli esempi.

«Rispetto al modo in cui sono entrati, faccio soltanto due esempi che sono stati rilevati ultimamente – spiegherà infatti il professore di fronte ai commissari –. Fatti dei controlli di notte (proprio perché abbiamo imparato che bisogna controllare di notte), si è presentata sui lavori che venivano svolti un’impresa che risultava regolarmente titolare di un subappalto; gli operai avevano la targhetta dell’impresa regolarmente titolare del subappalto sulle loro tute, ma quegli operai non erano dipendenti dell’impresa regolarmente vincitrice del subappalto. Appartenevano, invece, a un’impresa che aveva nel suo consiglio di amministrazione dei pregiudicati che provenivano dai luoghi classici di provenienza delle imprese di ’ndrangheta. Come avevano fatto a essere presenti ? Ecco, questo è significativo. Avevano subaffittato il ramo d’azienda, ma questo subaffitto non era stato comunicato, quindi operavano a nome dell’azienda, ma non erano l’azienda».

Già: come avevano fatto a essere presenti? Chissà se almeno le Forze dell’ordine sono in grado di dare una risposta. Ma andiamo avanti con il racconto di Dalla Chiesa.
«Un altro caso più recente ha dimostrato, invece – ha proseguito il professore –  che l’azienda è stata acquistata dopo aver vinto l’appalto, ma naturalmente ha mantenuto la sua ragione sociale, anche se dentro c’era l’impresa di mafia. Per questo, l’orientamento a vedere nei fatti che cosa accade ci sembra più importante. In questo rapporto diciamo che c’è una realtà terrena che è fatta dai mestieri, dall’economia, dai modus operandi delle organizzazioni mafiose. Lo stesso vale per la zona grigia. A questo proposito, vi presenterei uno schema classico della corruzione perché «zona grigia» è un’espressione che viene impiegata per indicare un’area della società in cui professioni e ruoli contribuiscono al successo delle strategie delle organizzazioni mafiose in modo inconsapevole o esterno, cioè danno un proprio contributo senza far parte di questa logica».

Non c’è nulla da aggiungere se non meditare, sperare e darsi appuntamento alla prossima settimana su questo umile e umido blog con altri approfondimenti sulla ricerca dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università degli studi di Milano, partendo proprio dalla cosiddetta zona grigia (che per me non è mai esistita perché o si sta da una parte o si sta dall’altra, visto che per quanto i riguarda valori e principi di legalità non si possono contrattare).

Eppure gli emiliani andavano a fare campagna elettorale a Cutro (e dei viaggi di Delrio). Seconda puntata.

Ne avevo scritto qui e qualcuno si era offeso. Quindi vale la pena tornare sul tema con il (bel) pezzo di Mario Portanova e David Marceddu:

Graziano Delrio
Graziano Delrio

Il viaggio a Cutro nel 2009 nella cittadina del boss Nicolino Grande Aracri, e soprattutto l’incontro con il prefetto antimafia insieme ai rappresentanti della comunità cutrese. Era il 17 ottobre 2012 quando i pm della Dda di Bologna sentivano, come persona informata sui fatti, Graziano Delrio, allora sindaco di Reggio Emilia, nell’ambito della maxi-inchiesta della procura di Bologna sulla ‘ndrangheta che ha portato all’arresto di 117 persone a fine gennaio. L’attuale sottosegretario alla presidenza del consiglio, braccio destro del presidente del Consiglio Matteo Renzi era stato convocato perché chiarisse i suoi rapporti con la vasta comunità calabrese trapiantata nel reggiano, originaria in prevalenza dal paese in provincia di Crotone, il ruolo dei cutresi nell’economia e nella politica cittadina e il loro atteggiamento rispetto alle pressioni della ‘ndrangheta sulle attività economiche.

Delrio, va sottolineato, non è indagato nell’inchiesta Aemilia. Dai verbali emerge però alcuni tentennamenti da parte dell’attuale sottosegretario nell’affrontare il tema e – stando a quanto dichiara – una conoscenza approssimativa del fenomeno che cozza un po’ con la sua fama di sindaco consapevole e attivo sul fronte dell’antimafia. Era stata proprio la sua amministrazione a commissionare a Enzo Ciconte, uno dei massimi esperti di criminalità organizzata, lo studio “Le dinamiche criminali a Reggio Emilia“, pubblicato nel 2008 e ancora oggi disponibile sul sito del Comune, dove lo studioso citava diversi elementi poi confermati dall’inchiesta Aemilia; l’ascesa criminale di Nicolino Grande Aracri e la penetrazione nell’economia e in particolare nell’edilizia: “Gli ‘ndranghetisti sono stati in grado di condizionare vita ed attività economica di altri imprenditori e commercianti”, scriveva Ciconte sette anni fa, “di costituire società edili in grado di raccogliere appalti da altri imprenditori e di mettere in piedi un sofisticato sistema di false fatturazioni”.

Durante l’audizione i pm vogliono sapere di più sull’incontro in Prefettura con esponenti della comunità cutrese, avvenuto, probabilmente nel 2011. Da alcuni mesi il prefetto Antonella De Miro aveva iniziato a colpire con provvedimenti interdittivi le imprese considerate infiltrate dalla ‘ndrangheta, che quindi perdevano commesse. Delrio racconta di avere raccolto i timori di alcuni esponenti della comunità cutrese su una criminalizzazione della loro gente. “Li ho accompagnati perché il prefetto potesse spiegare le ragioni…”, si legge nel verbale di quella audizione, “perché avessero garanzie che in tutto questo non c’era una vena anti-meridionalista o discriminatoria nei confronti della comunità”. Poi aggiunge una curiosa precisazione sul fatto che tutto gli appariva “superfluo perché il prefetto viene dalla Sicilia”. Nell’inchiesta Aemilia, alcuni degli imprenditori calabresi arrestati sono stati accusati di aver organizzato una campagna di stampa contro lo spesso prefetto, basata proprio sulla presunta discriminazione dei calabresi, e per questo è finito in carcere un giornalista ritenuto compiacente, Marco Gibertini di Telereggio.

L’allora sindaco Pd di Reggio Emilia non ricorda con certezza chi erano gli esponenti della comunità con lui in quell’occasione. Sicuramente c’era l’allora consigliere Pd Salvatore Scarpino. Poi, ma senza certezza, Delrio fa il nome di Antonio Olivo, altro consigliere comunale del Pd. E ancora cita, ma anche in questo caso senza sicurezza, Rocco Gualtieri, consigliere comunale del Pdl. Gualtieri era tra i presenti all’ormai famosa cena organizzata dalla comunità calabrese al ristorante “Antichi Sapori”, durante la quale i il capogruppo Pdlin Provincia Giuseppe Pagliani, poi arrestato nell’operazione Aemilia, incontrò personaggi indicati come capi della organizzazione mafiosa.

Altro argomento toccato dai magistrati, il viaggio di Delrio a Cutro, avvenuto poche settimane prima delle elezioni comunali 2009, quando il primo cittadino uscente si era ricandidato per un secondo mandato. Già ai tempi tra gli oppositori politici ci fu chi vide in quella trasferta in terra di ‘ndrangheta un viaggio per influenzare i voti delle migliaia di cutresi emigrati da decenni a Reggio. Delrio però fin da allora aveva sempre parlato solo di un viaggio istituzionale. Così fa anche coi pm: “Sono andato a Cutro nel 2009 in occasione della festa del Santo Crocefisso che è una festa religiosa molto importante a Cutro. Noi abbiamo un gemellaggio”. Per Delrio niente di strano, tanto che spiega ai magistrati che probabilmente ci sarebbe tornato anche l’anno successivo. A questo punto però i pm fanno notare all’attuale numero due di Palazzo Chigi che Cutro è la città di Nicolino Grande Aracri. “So che esiste Grande Aracri. Nicola non… non lo avevo realizzato”. Poi Delrio prosegue: “Non sapevo che era originario di Cutro. Sapevo che era calabrese, ma non sapevo che fosse originario di Cutro. Perché abita lì nel centro di Cutro? No, io non lo sapevo”. Una più attenta lettura della relazione commissionata dal suo stesso Comune avrebbe colmato la lacuna su un personaggio considerato da anni incontrastato numero uno della ‘ndrangheta in Emilia.

Il sostituto procuratore della direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi (che assieme, a procuratore di Bologna Roberto Alfonso e al sostituto Marco Mescolini, ha condotto le indagini) subito ribatte: “Che tutta diciamo così, la criminalità organizzata proveniente da Cutro oggi si ispiri a Nicola Grande Aracri, penso che lo sappia anche lei se ha letto i giornali relativi agli interventi del prefetto”. All’osservazione del pm Pennisi, Delrio sembra tentennare: “Sì, no, però io ho risposto alla sua domanda. Se lei mi chiede: ‘Sa che Francesco Grande Aracri è nativo di Cutro?’ La mia risposta è non lo so, non ne sono sicuro, cioè non lo ricordo francamente. So che è collegato alla ‘ndrangheta legata … diciamo… anche a Cutro”.

Quando i pm chiedono se parlasse mai con la comunità cutrese del clima di omertà che c’era sui temi della criminalità organizzata, Graziano Delrio spiega di averlo detto ripetutamente e di avere spiegato ai cutresi che il rischio di non denunciare può portare a pericolose generalizzazioni. Tuttavia, spiega Delrio, “c’è una specie di reticenza a denunciare e a esporsi, come le ho detto prima, io ne sono consapevole che c’è questa reticenza”.

I pm incalzano Delrio i diversi passaggi, ma agli atti gli riconoscono di avere reagito “in modo duro e molto chiaro” in occasione della pubblicazione di articoli che tendevano a sminuire il problema della ‘ndrangheta a Reggio. Nonostante questo, venerdì 6 febbraio il Movimento 5 stelle in parlamento chiederà le dimissioni da sottosegretario di Delrio perché da sindaco avrebbe dimostrato “sottovalutazione e leggerezza nell’affrontare un tema così delicato”.

La lezione di Pignatone

Ancora una volta la lezione di buona politica, di buona amministrazione o forse semplicemente di buona cittadinanza arriva da un magistrato. E nonostante siarassicurante che esistano uomini di giustizia con pensieri di questa profondità rimane la perplessità di un periodo storico in cui alla magistratura vengono delegati anche i doveri che dovrebbero essere degli intellettuali, dei buoni politici e degli editorialisti. Eppure sembra che vada bene (a tutti) così.

La lezione (alla politica) del capo della Procura. «La premessa, per parlare di Roma: non tutto ciò che non è reato corrisponde a una buona amministrazione…». Quando al Teatro Quirino, alla conferenza del Pd, parla il procuratore Giuseppe Pignatone, c’è un silenzio totale, interrotto qua e là dagli applausi: sarà che l’uomo ha una storia di impegno, di dedizione alla giustizia, di lotta alla criminalità organizzata, ma sarà anche per ciò che dice. Una sferzata. Un resoconto dettagliato dei rapporti tra mafie e politica, amministratori locali, imprenditori. Non viene mai nominato, ma certo c’è il caso Di Stefano sullo sfondo (il deputato Pd accusato di aver intascato mazzette). Soprattutto, la relazione del capo della Procura offre un quadro deprimente per la Capitale, fatto di «rapporti ambigui», e testimoniato anche dalle inchieste, da quel «miliardo di beni sequestrato nel 2014», «dai reati contro la pubblica amministrazione, uno dei problemi maggiori di Roma». Quando smette di parlare, salutato dal lungo applauso, l’ex capogruppo Pd in Comune, Francesco D’Ausilio, parla di «una nuova questione morale per Roma».

Dal narcotraffico alle frodi

Chiude così la sua relazione, Pignatone: «Giovanni Falcone diceva che sulla scrivania di ogni magistrato e di ogni investigatore dovrebbero essere incise le parole “Possiamo sempre fare qualcosa”. Forse, dico io, queste parole dovrebbero essere incise anche sulla scrivania di ogni politico e di ogni amministratore…». La presenza mafiosa va al di là dei reati che, pure, non mancano: «Sono in aumento le denunce per tangenti». Chiede di «cambiare le regole, sugli appalti, sulla trasparenza, basta con il ricorso continuo all’emergenza». Servono «meccanismi premiali, come per i collaboratori di giustizia, per il corrotto o per il corruttore che fornisca elementi utili alla condanna della controparte». Anche «se poi – fa notare – le regole sono importanti ma sono le persone che fanno la differenza…». Chiaro, no?
La situazione, in città, è complessa: «Narcotraffico, reati informatici che crescono in maniera esponenziale, terrorismo, colossali frodi in danno agli enti pubblici e dell’Unione europea, fino alla grande evasione fiscale». L’elenco è lungo.

La causale dell’assegno? «Tangente»

Del resto «le indagini hanno dimostrato la presenza della criminalità organizzata di tipo mafioso, di almeno due organizzazioni a Ostia, una collegata a Cosa Nostra, entrambe pronte a far ricorso alla violenza». Ma, attenzione, non c’è solo la violenza: «A Roma ci sono altri mezzi, c’è la corruzione. La criminalità aspetta che gli aggiustino le gare d’appalto, aspetta i tempi della burocrazia, della politica…». E dunque nella Capitale esiste «il rischio di un accordo tra mafia e altro, di un patto che non si basa sulla paura ma sulla reciproca convenienza». A differenza di quanto accade con la povera gente, «il politico in questo accordo è in una posizione di forza rispetto al mafioso». Non parla solamente di eventi previsti dal codice penale, ma «anche di etica». Di certo, «alle casse pubbliche vengono sottratti miliardi». Miliardi. Certo, «nessuna categoria può dirsi immune, neanche quella dei magistrati» ma è chiaro che il suo discorso, di fronte alla platea politica, ha tutt’altro bersaglio. A volte, dice, «cadono le braccia. Abbiamo sequestrato un carnet di assegni, la causale era di una sola parola, “tangente”». Scritta proprio così: senza traccia di pudore, di vergogna, di timore.

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Gli imprenditori codardi del nord. E la mafia ringrazia.

Ancora una volta tra le carte di un’operazione antimafia esce un quadro misero dell’imprenditoria lombarda. Ancora una volta la maggior parte dei giornalisti si sgola per raccontarci i riti mafiosi, i riti di iniziazione (e ha ragione Nando Dalla Chiesa a scrivere che ancora una volta la favoletta de “i colletti bianchi” viene smentita) e nessuna punta il dito contro una classe imprenditoriale che ritiene l’etica un ostacolo alla produttività.

Per fortuna Gabriella Colarusso ne scrive:

Fare affari con i clan: un gioco pericoloso.
Una falsa credenza, un idolum fori, per dirla col filosofo Francesco Bacone.
Questa è, secondo i magistrati dell’antimafia milanese – che con l’indagine Insubria hanno portato all’arresto di 44 presunti affiliati alla ‘ndrangheta tra Lombardia, Calabria e Sicilia -, la diffusa convinzione che, nel rapporto tra criminalità organizzata e imprenditoria, quest’ultima sia sempre e solo la parte lesa, l’anello debole della catena, la vittima.
Nella maggior parte dei casi, certo, lo squilibrio di forze tra picciotti con la pistola facile, adusi a minacce, estorsioni, intimidazioni, e imprenditori magari finiti nel giogo del racket per ingenuità o bisogno è enorme. E a favore dei primi.
QUELL’IMPRENDITORIA CHE FA AFFARI CON I CLAN. Ma accade e accade spesso che siano gli stessi commercianti, industriali o professionisti del terziario a cercare la Santa alleanza, convinti di poterne trarre benefici di mercato. Per poi scoprire magari di essersi resi schiavi di un meccanismo che non possono controllare e dal quale è difficile uscire.
Le inchieste condotte in questi anni in Lombardia, ossia «Infinito, Blue Cli, Valle-Lampada, Caposaldo», come annota il gip Simone Luerti negli atti dell’indagine Insubria, 
dimostrano «che l’imprenditoria non si limita a subire la ‘ndrangheta, ma fa affari con la stessa, spesso prendendo l’iniziativa per il contatto con la criminalità organizzata e ricavandone (momentaneamente) dei vantaggi».
Storie che si nascondono all’ombra delle periferie, dove l’occhio dei media spesso non arriva e fare affari per la ‘ndrangheta è più facile e sicuro.

Gli ‘ndranghetisti che riscuotevano crediti per conto degli imprenditori

Insubria illumina un pezzo di questa realtà. C’è la storia, per esempio, dell’imprenditore nato a Carate Brianza e residente in Svizzera, ora agli arresti, G.B.

Sarebbe stato lui stesso, secondo gli investigatori, a cercare le cosche e a incaricare il presunto ‘ndranghetista Michelangelo Chindamo di «riscuotere un preteso credito nei confronti» di un avvocato e di un commercialista svizzeri. E Chindamo, «avvalendosi di altre persone», non avrebbe esitato «a progettare e compiere numerosi atti di intimidazione» per raggiungere lo scopo, scrive il gip.
IL BARISTA CHE CHIAMA I CLAN PER DIFENDERSI DAGLI IMMIGRATI. Sempre a Chindamo si sarebbero rivolti poi un impresario 55enne di Como, operativo nel settore dei carburanti, per riscuotere un credito di 300 mila euro vantato nei confronti di un’altra azienda con sede a Lomazzo, dichiarata fallita nel 2012; l’amministratore delegato di una società di elettronica per recuperare un presunto credito di circa 1 milione di euro dai suoi clienti; il socio di un’azienda idraulica, anch’essa, presunta, creditrice. E persino il proprietario di un bar tabacchi, che avrebbe chiesto l’intervento degli ‘ndranghetisti «in quanto a suo dire minacciato da persone di origine extracomunitaria che si sono presentate presso il suo esercizio».

Anche al Nord si preferisce l’omertà: troppa sfiducia nelle istituzioni

Un «imponente numero di fatti intimidatori», scrivono gli inquirenti, quasi 500 dal 2008 a oggi, solo considerando i Comuni interessati dall’indagine, soltanto in minima parte vengono denunciati a causa «dell’omertà delle vittime (che sempre hanno dichiarato di non avere sospetti su nessuno e di non aver mai ricevuto pressioni o minacce di alcun tipo)».

L’altro aspetto del rapporto imprenditoria-criminalità messo in luce dall’inchiesta, infatti, è proprio questo: per ogni industriale, professionista o colletto bianco colluso, che trae vantaggio dalla relazione col potere mafioso, ci sono decine di altri imprenditori, commercianti o professionisti che si trovano poi costretti a subire violenza, ricatti e intimidazioni. E che per paura spesso non denunciano.
LA SFIDUCIA NELLO STATO. «Significativo il fatto che la totalità degli episodi intimidatori», scrive il gip nell’ordinanza, «(sia quelli dove si è risaliti a precise responsabilità, sia quelli dove gli autori sono rimasti ignoti) sono caratterizzati da una circostanza comune: le vittime, in sede di denuncia, riferiscono quasi sempre di non aver mai subito minacce».
Il che, spiega il gip, non può essere statisticamente sempre vero.
«Se le parti lese, a dispetto della gravità dei fatti subiti, non denunciano gli autori, ciò è dovuto a paura. I commercianti in questi casi preferiscono assicurarsi, sopportare i costi dell’illegalità subita, piuttosto che mettersi dalla parte dello Stato con una denuncia, che può essere foriera di guai peggiori».
Paura, sfiducia nelle istituzioni. E dall’altro lato convenienza quando non aperta mafiosità.