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Dario

Perché von der Leyen ha incontrato Erdoğan, esecutore materiale della folle politica europea

Fa ancora discutere la sedia non concessa alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen mentre il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel invece si godeva il suo posto d’onore con il sultano turco Recep Tayyip Erdoğan. Quello sgarbo è stata anche l’occasione di ricordare al mondo come il leader turco stia progressivamente fiaccando i diritti delle donne nel suo Paese, partendo da quel 2016 in cui disse che le donne fossero “da considerarsi prima di tutto delle madri”, relegandole al loro medievale scopo riproduttivo e poi fino ai giorni scorsi in cui il suo governo ha annunciato tronfio il ritiro dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

In Turchia tra l’altro si contano in media circa due femminicidi al giorno e le donne, complice anche la pandemia, hanno sempre minor accesso al mondo del lavoro e alla politica. Insomma, quello sgarbo ha radici profonde e ben venga quella sedia che è mancata per ricordarcelo. Nella discussione generale però sembra scomparso il motivo per cui l’Ue ha scelto di incontrare Erdoğan e il fatto non è secondario perché il sultano turco evidentemente può permettersi certi atteggiamenti, forte del suo ruolo internazionale. Allora bisognerebbe avere il coraggio di dirlo, di scriverlo che Erdoğan altro non è che l’esecutore materiale della folle politica europea che ha delegato alla Turchia l’esternalizzazione delle frontiere europee per controllare il flusso migratorio in modi anche poco leciti.

Nel 2016, in piena crisi migratoria, Bruxelles, su spinta soprattutto della Germania, ha firmato un accordo che garantiva 6 miliardi di euro alla Turchia per trattenere i migranti nei propri confini (si stima che siano almeno 4 milioni di persone) e grazie a quell’accordo tutti i migranti irregolari che arrivavano sulle isole greche attraverso il confine turco sono stati riportati in Turchia. Quei soldi hanno lo stesso odore di quelli che arrivano alla cosiddetta Guardia costiera libica (sì, proprio quella che Draghi ha blandito pochi giorni fa) per fare da tappo in Africa. Soldi che rendono ancora più forti governi che non hanno nulla di democratico e che non hanno nulla da spartire con i valori europei eppure tornano utili per essere i sicari dell’Unione europea. C’è qualcosa di più di quella sedia che manca. Giusto un anno fa, a marzo del 2020, Erdoğan ha ricattato l’Europa sulla gestione dei flussi per alcune partite geopolitiche come quella siriana e per reclamare altri soldi.

La Grecia aveva denunciato la Turchia di “spingere” verso la sua frontiera i migranti e alla fine l’Ue per garantire la propria “fortezza” ha deciso di continuare a foraggiare la Turchia: la presidente garantisce «la continuità dei fondi. E se la Turchia rispetta gli impegni, previene le partenze, prevede i rientri dalla Grecia, i fondi Ue garantiranno ancor più opportunità», dice la nota ufficiale. Del resto già a settembre Bruxelles aveva inserito un passaggio significativo nella sua proposta su asilo e immigrazione scrivendo nero su bianco che lo stanziamento di fondi alla Turchia «continua a rispondere a bisogni essenziali. Essenziale sarà perciò che l’Ue dia alla Turchia un sostegno finanziario continuativo». Su quella stessa linea si è assestato anche Mario Draghi che fin dal suo primo discorso pubblico a febbraio disse che gli accordi per esternalizzare le frontiere (che tradotto significa pagare anche Erdoğan) erano fondamentali per controllare l’immigrazione.

Da tempo diverse organizzazioni umanitarie, tra cui anche Amnesty International, giudicano la politica europea sulle frontiere disumana oltre che totalmente fallimentare eppure nessuno è mai riuscito a mettere in discussione questo modello che si annuncia valido anche per il futuro. Ad Ankara l’Ue ha manifestato anzi la volontà di rafforzare i legami economici con la Turchia, ha concesso la revisione del sistema di visti in ingresso nell’Ue e un’unione doganale per favorire il passaggio delle merci. Quando a von der Leyen è stato chiesto dei diritti calpestati in Turchia la presidente ha risposto: «I diritti umani non sono negoziabili. Vorremmo che la Turchia rivedesse la decisione di uscire dalla convenzione di Istanbul e che rispettasse i diritti umani». Insomma, siamo alle raccomandazioni per quanto riguarda il rispetto dei diritti e ai soldi fumanti invece per contenere i disperati. Forse se Erdoğan fa il bullo non è solo colpa sua.

L’articolo Perché von der Leyen ha incontrato Erdoğan, esecutore materiale della folle politica europea proviene da Il Riformista.

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Finalmente un po’ di programma

Scuola, lavoro, ambientalismo, vaccini… Si comincia a fare politica e finalmente usciamo dall’agiografia giornalistica. E adesso, finalmente, calano le maschere

Forse finalmente ci prepariamo ad uscire da questo nauseante fardello di agiografia giornalistica che negli ultimi giorni si è spremuto sul pasticciere di Draghi, sulla corsetta mattutina di Draghi, sulle opinioni dei compagni di classe di Draghi, sui gusti culinari di Draghi, sul “quanto è bello il silenzio compito della moglie di Draghi”, sulle analisi dei completi indossati da Draghi e si torna a parlare di politica. Finalmente, vedrete, ci farà bene, farà bene a tutti.

Nel secondo giro di consultazioni il Presidente del Consiglio incaricato sta presentando ai gruppi parlamentari un’idea di programma per il governo che potrebbe essere e si potrà testare quali siano le idee e soprattutto quale potrebbe essere l’apporto dei partiti. Per ora, com’è naturale che sia, siamo solo ai titoli declamati ma da questo possiamo partire per aprire un dibattito e delle riflessioni. È un passo in avanti, certo.

Ieri si è parlato un po’ dappertutto dell’ipotesi del prolungamento della scuola: secondo Draghi gli studenti hanno perso troppi giorni e occorre intervenire con una revisione del calendario scolastico fino a fine giugno. Draghi ha insistito anche sulla necessità di farsi trovare pronti per la ripresa dell’anno scolastico 2021-2022 per risolvere l’annoso problema delle 10mila cattedre vacanti di questo inizio di anno scolastico. Declinato così, ovviamente, questa idea sembra un colpo facile su cui presumibilmente saranno tutti d’accordo. Chissà che sia la volta buona che questo impegno non rimanga nel cassetto dei sogni. Anche perché proprio ieri una ricerca ha confermato quello che sappiamo da tempo: nell’Italia delle disuguaglianze una famiglia su tre ha difficoltà a sostenere e seguire il proprio figlio in Dad.

Poi c’è l’ambientalismo. Anche questo è un punto che si è sventolato spesso e che invece ha bisogno di azioni concrete e rapide. Ora sappiamo che il 37% delle risorse del Recovery finirà lì. Draghi ha ripetuto più volte che bisogna puntare sull’ambiente in modo trasversale, puntando il dito sull’inquinamento di zone d’Italia come la Lombardia (a proposito del “modello lombardo”) dichiarando di pensare all’ambiente anche come occasione di sviluppo e di crescita. Anche qui, certo, siamo ai titoli iniziali, ma la sfida è già una priorità di molti Paesi europei. Chissà che non diventi un tema prioritario anche qui, anche nelle agende dei partiti.

Poi c’è la campagna dei vaccini. Mentre Salvini riesce a sfiorare il ridicolo proponendo il “modello Lombardo” e il “modello Bertolaso” (con la Lombardia che svetta per numero di morti e con Bertolaso che per ora si è limitato a comporre un po’ di slide), l’idea di Draghi sarebbe quella di proporre il “modello inglese”. Per ora si parla di poco o niente, come abbiamo avuto occasione di vedere ciò che conta in una campagna vaccinale sono i numeri. Chissà almeno che non ci si liberi delle primule di Arcuri. C’è un aspetto che lascia un po’ perplessi: Draghi avrebbe anche chiesto di cambiare il “clima” generale della narrazione. Se così fosse sarebbe un peccato: l’ottimismo dopato dalla narrazione è una truffa, l’ottimismo si costruisce offrendo opportunità. Ma avete notato anche voi come sia già cambiata la percezione del virus in questi giorni nonostante le preoccupazioni delle varianti? Curioso, vero? Non è un bel segnale.

Poi c’è ovviamente l’atlantismo, ovvero il riposizionarsi con convinzioni sulle posizioni degli Usa di Biden in un quadrante geopolitico ben definito. Qui il terreno è molle: il confine tra alleanza e servitù è sottile.

Poi c’è il quadro degli aiuti per il lavoro (ci torniamo più largamente nei prossimi giorni) e su questo circolano già alcune parole chiave: niente «contributi a fondo perduto», si dice, e attenzione perché nella definizione del «fondo che si è perduto» si gioca la sostanziale differenza tra chi vuole sostenere le imprese o i lavoratori. Sul punto di equilibrio si definisce la posizione politica del governo che sarà (nonostante si finga che non ci sia connotazione politica). Se gli aiuti alle imprese che vengono sventolati finiranno ancora una volta a salvare il culo dei padroni mentre macellano i lavoratori non sarà un buon momento, no. E viste le facce che sostengono il governo viene da pensar male. Si dice che non ci sarà spazio per la proroga del blocco dei licenziamenti. Quindi che si farà? Questo è un bivio fondamentale. Ah, ci saranno consistenti aiuti per gli istituti di credito (che continuano a non dare credito). Chissà perché non ci stupisce.

Parole da prendere bene con le pinze sul fisco: si parla di una riforma strutturale per «alleggerire il ceto medio» in un Paese in cui il ceto medio esiste sempre meno e in cui il problema è la povertà, mica la piccola borghesia. E anche su questo la tiritera del governo senza colore politico cadrà inesorabilmente. Aspettiamo, con parecchia ansia.

Poi, come governo tecnico che si rispetti, si parla di “infrastrutture”. Anche qui la partita è semplice: siamo ancora il Paese che considera infrastruttura il ponte sullo Stretto o siamo il Paese capace finalmente di considerare le infrastrutture sociali che modernizzerebbero davvero il sistema Stato?

Insomma, si comincia a fare politica e finalmente l’aria si dipana, anche tutto questo sistema gassoso e fideistico che ormai ci ha annoiato. E adesso, finalmente, calano le maschere.

Buon martedì.

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Il calendario dell’avvento (di Renzi)

Cronologia di una “crisi di governo” aperta da Matteo Renzi il 9 dicembre. Tra dichiarazioni, penultimatum e interviste, siamo arrivati al giorno cruciale

Era il 9 dicembre quando Matteo Renzi aprì la “crisi di governo” che ancora oggi si stiracchia sulle pagine di tutti i giornali. “È il momento di dirci le cose in faccia” tuonò con uno di quegli interventi che risulta perfetto per essere confezionato e diventare una clip già pronta per i social e take away per tutti i telegiornali. Disse: “Per giocare pulito e trasparente, noi diciamo: se c’è un provvedimento che tiene dentro la governance del Next Generation Eu, noi votiamo contro. Siamo pronti a discutere, ma non a usare la manovra come veicolo di quello che abbiamo letto sui giornali, compresi i servizi segreti. Se c’è una norma che mette la governance con i servizi votiamo no”. Minacciò di ritirare immediatamente i suoi ministri. Non accadde.

Il giorno successivo, il 10 dicembre, il segretario del Pd Zingaretti e alcuni membri provarono a placare gli animi. Da quel giorno ovviamente la cosiddetta “crisi” si è spostata sui giornali e in televisione, il campo preferito da Renzi. Pochissimi i passaggi istituzionali. Renzi rilascia due interviste, a Il Messaggero e a El Pais, in cui dice: “Se Conte non fa marcia indietro siamo pronti a far cadere il governo”. Conte intanto era a Bruxelles per chiudere l’accordo. Alla grande, direi.

Il 12 dicembre interviene il presidente della Camera Roberto Fico che dice che se cade il governo si va a elezioni. A nome di Renzi interviene Anzaldi che dice che le elezioni le decide il Presidente della Repubblica. E via già con la via d’uscita di un accordicchio, quindi.

A quel punto Conte convoca i partiti a Palazzo Chigi per discuterne. Ve lo ricordate? Renzi dice: “noi abbiamo detto ‘Presidente, se vogliamo andare avanti noi ci siamo con lealtà, se ritieni che quello che proponiamo non va bene, con rispetto per le istituzioni, noi ci alziamo e ci dimettiamo”. E via di nuovo con l’ennesimo penultimatum. Ovviamente continuano le interviste dappertutto.

Il 28 dicembre Renzi presenta il suo piano (che chiama simpaticamente “Ciao”, che simpaticone). 13 righe di proposte in tutto. “Se c’è accordo su questo bene. Altrimenti è evidente che faranno senza di noi e le ministre si dimetteranno”, dice Renzi. Sempre per dare un’idea di come si svolge la trattativa.

A fine anno c’è il discorso di Mattarella. Renzi ovviamente pensa a se stesso quando il Presidente della Repubblica dice che “servono costruttori”. Figurati. Però non coglie il monito di Mattarella a non perdersi in polemiche. Passano 48 ore dal discorso del Presidente e Renzi dice, a Il Messaggero: “Se Conte ha scelto di andare a contarsi in aula accettiamo la sfida”.

Il 5 gennaio è un giorno da fantascienza. Renzi è ospite di Nicola Porro su Rete 4 e dice che bisognerebbe trovare un accordo preliminare sui temi. Sembra un’apertura. E invece poi serafico aggiunge: “Poi vedremo se il premier sarà Conte o un altro“.

Arriviamo agli ultimi giorni. Conte ringrazia i partiti di maggioranza per i contributi portati (quindi anche Renzi) e Renzi gli risponde “se Conte è in grado di lavorare lo faccia, altrimenti toccherà ad altri. Ha detto che è pronto a venire in Aula, lo aspettiamo lì”. L’8 gennaio si incontrano per discutere e i renziani Boschi, Faraone e Bellanova protestano: “Il documento sul Recovery Plan non c’è: c’è una sintesi di 13 pagine e una tabella. Il Paese ha bisogno di serietà e ciò comporta leggere e studiare un testo completo“.

Ieri Renzi ha detto sì al Recovery però minaccia di ritirare le sue ministre dopo il Consiglio dei Ministri. E siamo a oggi. Gli scenari sono o un corposo rimpasto (con quelle poltrone che a Renzi non interessano, segnatevelo), o un Conte ter o un governo tecnico. Le elezioni? figurarsi. Se ci fosse davvero il pericolo delle elezioni non avremmo visto nulla di tutto questo.

Buon martedì.

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Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare…

Ora almeno ci sono anche dei numeri, pochi, pochini e perfino poco chiari. Dopo mesi in cui tutti chiedevano aggiornamenti l’altro ieri l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato il suo rapporto per il periodo dal 31 agosto al 27 dicembre sui contagi a scuola mettendo nero su bianco che si tratta di 3.173 focolai di coronavirus pari al 2% del totale. Si tratta di bambini e ragazzi in età scolare (dai 3 ai 18 anni): la maggior parte dei casi, ben il 40%, si è verificata negli adolescenti dai 14 ai 18 anni. Si potrebbe partire da qui ad aprire un serio dibattito sul futuro, sul presente e sul passato recente delle scuole italiane in tempo di pandemia se non fosse che l’Iss non sa dire nulla sul fatto che il contagio avvenga in classe oppure nei (troppo pochi) trasporti prima e dopo le ore di lezione. Il nodo dei mezzi pubblici rimane un grosso punto interrogativo. Stesso discorso sulla reale efficacia della chiusura delle scuole per frenare la diffusione del Covid: «Tuttavia, l’impatto della chiusura e della riapertura delle scuole sulle dinamiche epidemiche rimane ancora poco chiaro», si legge nel rapporto.

E quindi? E quindi sulla scuola si continua con l’indecente balletto di favorevoli e contrari, di opposte tifoserie che si scontrano per opposte fazioni spesso dimenticando di proporre soluzioni. In mezzo un governo che sulla questione continua a balbettare e appare piuttosto disunito: la ministra alla scuola Lucia Azzolina pretenderebbe un rapidissimo rientro in presenza mentre altri membri del governo, Dario Franceschini in testa, propendono per la linea della cautela a oltranza. La sintesi non c’è. Meglio: la sintesi è una sbiadita mediazione che per ora dal Consiglio dei Ministri dà il via libera in presenza al 50% per le scuole secondarie di secondo grado dal prossimo lunedì 11 gennaio mentre per le scuole primarie e secondarie di primo grado fissa la ripresa dal 7 gennaio in presenza. Peccato che intanto le Regioni vadano ognuna per conto suo con la Liguria che annuncia che non aprirà, la Sardegna che posticipa al 15 gennaio, il Veneto che rimanda al 31 come Calabria, Friuli Venezia Giulia e Marche, tutte in ordine sparso. La sensazione diffusa è che il molto probabile aumento dei contagi nei prossimi giorni cambierà di nuovo le carte in tavola.

«Le Regioni riflettano bene sulle conseguenze per studenti e famiglie», avverte Azzolina ma che il peso della ministra sia debole all’interno dell’esecutivo è molto più di una sensazione.
Poi ci sarebbe anche il pensiero degli studenti, raccolto da un’indagine Ipsos per Save The Children tra ragazzi dai 14 a 18 anni che racconta di come il 42% di loro ritenga ingiusto che agli adulti sia permesso di andare al lavoro mentre loro non possono frequentare la scuola. Il 46% considera quello trascorso finora “un anno sprecato”. Save the Children stima che almeno 34mila studenti delle superiori, a causa delle assenze prolungate, potrebbero trovarsi a rischio di abbandono scolastico. Il 28% degli studenti dichiara che almeno un loro compagno di classe ha smesso di frequentare le lezioni. Ad oggi, più di uno studente su tre (35%) si sente meno preparato di quando andava a scuola in presenza.

Poi si potrebbe parlare dei trasporti che ancora mancano, del tracciamento e dei presidi sanitari e dei tamponi che avrebbero garantito sicurezza e soprattutto di un sistema di ventilazione nelle aule che avrebbe potuto garantire più sicurezza. Ma di visoni strutturate e lunghe sulla scuola non se ne vede l’ombra. Intanto il personale scolastico si arrabatta e resiste, in attesa della prossima decisione poche ore prima di aprire i cancelli.

L’articolo Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare… proviene da Il Riformista.

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Buon anno buono

Forse abbiamo imparato che quello che accade agli altri conta anche per noi. E forse abbiamo imparato che le nostre azioni e i nostri comportamenti a volte infliggono. L’abbiamo imparato con il virus ma vale per tutto, per le cose buone e per le cose cattive, vale per i nostri gesti, per i nostri comportamenti. Spostandosi, lavorando insieme, incrociandoci ci passiamo aliti che potrebbero anche non portare virus ma che potrebbero costruire relazione, lasciare afflati positivi, cambiare le prospettive se diventano virali. Chissà se il 2021 non sia l’anno in cui ci si scambia germi buoni, si smette di strofinarsi addosso come isole. Nessun uomo è un’isola, ci ha detto il 2020.

Forse abbiamo imparato che le cose semplici non sono banali. Forse abbiamo imparato che ci capita, eccome se ci capita, di intendere come acquisiti i benefici di una compagnia, di un vezzo che ci concediamo, di un diritto a cui non facciamo caso, di un’abitudine o di un’azione. Chissà se il 2021 non sia l’anno in cui affiliamo il gusto di sentire tutto quello che ci passa con i pori tutti aperti, di dare valore al nostro tempo e al nostro spazio. E chissà che non si pretenda che ne abbiamo cura del nostro tempo e del nostro spazio.

Forse abbiamo imparato che il futuro non firma contratti, che tutto è molto caduco e che il diritto di attraversare le intemperie è qualcosa che interessa anche a persone che non pensavano di averne mai bisogno. Essere garantiti non significa essere dei privilegiati ma significa avere uno scafo abbastanza sicuro per superare anche le onde più alte e impreviste. Chissà che il 2021 non sia l’anno in cui finalmente si decida di fissare degli standard minimi, come dicono i dirigenti, quelli che in italiano si chiamano dignità, che è una parola faticosa ma liberatoria, la dignità.

Ci auguro un anno in cui si rimettano in moto quegli ingranaggi azzurri della speranza, quella voglia di attraversare i giorni per lasciare impronte dappertutto, in cui si assapora il gusto di essere comunità, una comunità larghissima, con la voglia di essere una comunità onnicomprensiva. Noi qui a Left abbiamo provato a fare seriamente la nostra parte, abbiamo tornito le parole proprio in quest’anno in cui le parole sono diventate pesantissime perché ci è mancato molto del resto. E nel nostro piccolo ci siamo fatti comunità.

Buon 2021, che sia un anno buono.

L’illustrazione in alto di Fabio Magnasciutti è una delle opere che compongono il calendario 2021 di Left. Lo trovate in edicola fino al 7 gennaio in allegato al numero 52

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Un regalo: la comunanza

La comunanza è una chiave di lettura collettiva di persone che si riconoscono uguali in qualcosa. Sotto l’albero quest’anno vi auguro di trovarne un po’

La chiameremo comunanza anche se è una parola che si è impolverata parecchio in questi anni di verbi ipermuscolari, di termini affilati per tagliare i pochi caratteri dei social e di aggettivi sempre magniloquenti e turbo per dopare il dibattito. Comunanza invece è una parola mite come la presa di coscienza collettiva, che non è mica arrendevole anche se quest’anno ha avuto la tentazione di arrendersi spesso. La comunanza è una chiave di lettura collettiva di persone che si riconoscono uguali in qualcosa: pensiamo che sia il virus, no, non è così semplice, non è così immediato, non è così superficiale.

Sotto l’albero quest’anno vi auguro di trovare un po’ di comunanza, anche una fetta sottile, da dividere come si dividono il pane quelle comunità che vivono degne perché rifiutano e allontanano gli ingollatori, li giudicano indegnamente avari per potere essere membri della comunità.

Abbiamo la comunanza di paure. Ed è un collante straordinario la paura. Pensa se sotto l’albero trovassimo la forza e la lucidità di riconoscersi spaventati per elaborare, ognuno con l’esperienza del proprio spavento, una strategia comune per riconoscere le paure, riconoscerne la dignità e per prendersene cura. Pensa se sotto l’albero trovassimo un vocabolario contrario a quello di chi usa e ha usato le paure per esacerbare gli animi e invece trasformassimo le paure in un’occasione di nobiltà e di gentilezza. La comunanza di paure genera mostri oppure costruisce comunità.

Abbiamo la comunanza di affetti da manutenere difficoltosamente. E quest’anno potremmo avere in regalo l’occasione di capire che gli affetti per sbocciare dignitosamente e per essere innaffiati hanno bisogno di capacità di spostamenti, di avere gli strumenti per poter dire che “andrà tutto bene” perché la frase da sola è uno slogan che non salva nessuno. Gli affetti hanno bisogno di un futuro possibile. Ce ne siamo accorti: il diritto all’affetto non è il diritto all’abbraccio (rifiutarlo può essere una premura) ma è il diritto ad esercitarlo con dignità. Questo Natale non mancheranno i cenoni, mancherà per molti la possibilità di dirsi che sì, ce la faranno.

Abbiamo la comunanza di sperare nel lavoro. E nel lavoro non ci si dovrebbe sperare in un Paese normale. I diritti quando mancano mancano come manca l’aria e ora il reddito spaventa anche chi aveva il lusso di non interessarsene. È una comunanza dolorosa ma su cui si potrebbe costruire uno scenario diverso se non fossimo qui ad accapigliarci per i chilometri da percorrere.

Abbiamo la comunanza della dignità della malattia. Erano così meno i malati che i loro diritti sembravano una fissazione per pochi e invece ora sono diventati terribilmente popolari, tragicamente popolari. Pensa che regalo se ora diventassero un chiodo fisso per molti.

Ecco questo Natale vorrei che la comunanza trovata sotto l’albero non si disperdesse e diventasse lei, lei sì, virale davvero. Pensa come cambierebbe tutto.

Buon venerdì.

L’illustrazione in alto di Fabio Magnasciutti è una delle opere che compongono il calendario 2021 di Left. Lo trovate in edicola fino al 7 gennaio in allegato al numero 52 

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“No al Sala bis”: il M5S Lombardo chiude le porte alla ricandidatura del sindaco di Milano

Il sindaco di Milano Beppe Sala annuncia la sua candidatura per il secondo mandato alla guida del Comune di Milano ma dal Movimento 5 Stelle in Regione Lombardia arriva subito una netta e decisa presa di distanze. TPI.it ha intervistato Dario Violi, consigliere regionale del M5S e candidato presidente nel 2018.

Violi, Beppe Sala annuncia la sua candidatura…
“Ah. Quindi alla fine non ha trovato niente di meglio?” (Sorride)
In che senso?
“È un’evidenza dei fatti: Sala ha preso tempo solo perché gli andava stretta la sua candidatura a sindaco. Qui a Milano lo sanno tutti.”.
E voi come Movimento 5 Stelle cosa ne pensate della sua ricandidatura?
“A noi cambia davvero ben poco. I gruppi locali stanno lavorando da mesi a un programma con tanti punti importanti, per una città che sia più verde e molto diversa da quella che ha in testa Sala. I gruppi locali lavoreranno sicuramente in quella direzione”

Però al governo nazionale siete con il Partito Democratico, perché non dovrebbe ripetersi quello stesso paradigma anche su una città importante come Milano?
“Io sono autonomista nell’anima, soprattutto in queste cose. Va rispettato il territorio e le decisioni che prendono i gruppi del territorio. Con Sala abbiamo discusso politicamente e in modo acceso per l’opera di cementificazione che ha in mente in zona Porta Romana, sarebbe incoerente: lo contestiamo fino a un giorno prima e poi ci andiamo insieme? E poi anche se coì fosse la scelta deve essere dei territori e non deve essere una scelta di comodo e di Palazzo che arriva da Roma”.
Quindi voi avete un giudizio negativo sull’operato di Sala come sindaco?
“Questo andrebbe chiesto ai consiglieri comunali, io direi molto negativo. Le nostre sensibilità su ambiente, sviluppo sostenibile, mobilità sono molto distanti”.

Calenda e Richetti hanno fatto gli auguri a Sala chiedendo al PD di non allearsi con voi. Che ne pensa?
“Quelli dello zero virgola devono parlare male del Movimento 5 Stelle per esistere. Se dicessero “in bocca al lupo a Sala” e basta non se li filerebbe nessuno”.
Quindi nessuna possibilità nemmeno di trattativa con il Partito Democratico?
“Per me è un tema di territorio e non un tema di persone e di partiti. Per me e per tanti di noi. Noi non “trattiamo” con nessuno ma al massimo valutiamo la condivisione dei programmi. Sala l’abbiamo contrastato per 5 anni. La vedo dura. Anche se non sono mai stato uno che dice di no a prescindere”.
E se da Roma vi chiedessero di farlo per la tenuta del governo?
“Sarebbe ridicolo che un governo dipenda da un’alleanza in un comune, anche se importante come Milano. Quel governo non avrebbe senso di esistere”.
A proposito, e gli accordi per le elezioni su Roma?
“Noi andiamo avanti con Virginia Raggi. A quanto pare il PD non vuole. Quegli altri (Calenda e soci) vogliono che vadano con loro. Per noi Virginia Raggi ha lavorato bene in una città in cui si fa molta fatica e con molti interessi anche esterni. Noi abbiamo cercato di portare la città e i suoi conti sulla buona strada”.

Leggi anche: 1. Beppe Sala a TPI: “Se tornassi indietro, parlerei di meno. Non so se mi ricandido a sindaco di Milano” / 2. Esclusivo TPI – Beppe Sala risponde alla lettera del M5S: “Dialoghiamo per la Milano del futuro” / 3. Esclusivo TPI – Milano, la lettera del M5S a Sala: “Confrontiamoci sui programmi contro le destre”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Referendum, Nespolo (Anpi) a TPI: “Tagliare i parlamentari per risparmiare? No, si riducano gli stipendi”

Carla Federica Nespolo, 77 anni, ex parlamentare del Pci e del Pds, è la prima donna a presiedere l’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia). Con lei discutiamo del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari, in calendario il 20 e 21 settembre. L’Anpi si è schierata per il No.
Nespolo, come risponde al movimento anti-casta, secondo cui il No è la posizione dell’arroccamento?
Più che di “movimento anti-casta” io parlerei esplicitamente e francamente di pensiero populista. Al fondo del quale, inutile girarci attorno, c’è il rifiuto della democrazia come partecipazione e diritto del popolo a scegliersi i propri rappresentanti. Se per “uomini rinchiusi nei palazzi” i fautori del Sì intendono anche i 183 costituzionalisti italiani che si sono dichiarati per il No, dimostrano di non aver capito nulla di quello che, nel colpevole silenzio di tanti, oggi è in gioco.

Cosa c’è in gioco?
Si tratta, sostanzialmente, di un attacco alla democrazia rappresentativa. Non dimentichiamoci che uno dei primi atti del Governo, dopo il 25 Aprile 1945, fu quello di dare a tutti (uomini e donne) il diritto di voto. E dopo 75 anni si vorrebbe tornare indietro e privare persino alcune Regioni del diritto di essere pienamente rappresentate in Parlamento? Inaccettabile. Altro che “casta”: la “casta” è proprio dei “notabili” di partito che, non a caso, sembrano tutti uniti  – ma con molti problemi interni – a votare Sì.

I motivi principali per cui l’Anpi ha deciso di esprimersi per il No: quali sono i valori da difendere?
La difesa della democrazia per cui, 75 anni fa, un’intera generazione si è sacrificata, ha combattuto e vinto. E oggi troppi se ne dimenticano. Mi lasci citare un terribile verso di Giorgio Caproni: “I morti per la Libertà, chi l’avrebbe mai detto, i morti. Per la Libertà, Sono tutti sepolti”. Ecco. L’Anpi è in campo per questo. Perché la democrazia, che tanto sacrificio e tante lotte è costata, non venga oscurata e vilipesa da chi la considera un ostacolo alla propria ascesa politica.

Si insiste molto sul risparmio dei costi, come già avvenuto nell’ultimo referendum costituzionale. Non teme che questo argomento possa essere una spinta difficile da arginare?
Quella dei costi è una sciocchezza che non merita neppure una risposta. Vogliono davvero ridurre i costi del Parlamento? I parlamentari si riducano lo stipendio. Punto e basta. Ma non possiamo nasconderci che questo tema ne nasconde un altro. E cioè la poca stima che l’opinione pubblica ha verso un certo ceto politico. In questo senso condivido la frase del comandante De Falco: “Non voglio essere rappresentato meno, voglio essere rappresentato meglio”.

Il Pd sembra non volersi esprimere o esprimersi molto blandamente a proposito di questo referendum. Che consiglio darebbe al partito di governo?
Non è compito dell’Anpi dare un consiglio ad alcun partito. E tanto meno al Pd. Certo la contraddizione tra aver votato per tre volte contro e ora votare a favore è lampante. Insomma, non sempre sacrificare sull’altare della governabilità la propria coerenza è un buon calcolo. Comunque ho grande rispetto per il travaglio che sta attraversando il Pd. Ma non è un tema che ci vede protagonisti.

In questi giorni circola molto un’intervista in cui Nilde Iotti dichiara che il numero dei parlamentari italiani è eccessivo e dal fronte del Sì sono in molti a ripetere che la riduzione del numero dei parlamentari sia una battaglia storica della sinistra. Come risponde?
Alla citazione di Luigi Di Maio rispetto alla posizione di Nilde Iotti ha già risposto esaurientemente Livia Turco, presidente della Fondazione Iotti. Quello che la presidente Iotti proponeva era un intero nuovo impianto istituzionale, a cominciare da una nuova legge elettorale. Separare la rappresentanza dalla sua funzione è quanto di più volgarmente tattico si possa fare. Mai la presidente Iotti lo avrebbe affermato.

Come ha intenzione l’Anpi di occuparsi di questa campagna referendaria? Con quali mezzi? Come arrivare a più gente possibile, tra l’altro in un periodo difficile come questo in piena pandemia?
L’Anpi sta facendo il suo dovere. Le nostre sezioni territoriali stanno illustrando in ogni parte d’Italia le nostre ragioni e il 10 settembre alla Sala della Protomoteca in Campidoglio, a Roma, faremo il punto con importanti giuristi sulle ragioni del nostro No. Prevediamo anche un intervento di un rappresentante delle Sardine. Inoltre, siamo e saremo attivi anche sui social network. Invitiamo tutti ad andare a votare No. E mi lasci chiudere con una nota di ottimismo.
Prego.
Ce l’abbiamo fatta nel 2016. Ce la faremo anche nel 2020.

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Eccallà: commercialista e beneficenza

Ecco come si giustificano alcuni amministratori locali della Lega che hanno fatto richiesta del bonus di 600 euro

“Sono socio in uno studio di tributaristi – ha detto Forcolin in una intervista al Corriere della Sera -. Senza che lo sapessi la mia socia ha presentato domanda per tutti, dove possibile. Il dato di fatto però è che non ho visto un centesimo, lo sottoscrivo col sangue”. Gianluca Forcolin è vicepresidente della Regione Veneto, il vice di Zaia: “Resto a disposizione del partito – ha detto Forcolin  -. Voglio augurarmi che cinque anni di integrità e impegno etico e morale non siano messi a repentaglio da una semplice pratica”.

“Ho preso il bonus ma l’ho restituito” C’è anche un consigliere regionale del Piemonte, sempre della Lega, tra quelli che hanno percepito il bonus per le partite Iva. “Ho già provveduto allo storno delle cifre all’Inps restituendo i due bonus – ha detto Claudio Leone, eletto lo scorso anno per la prima volta nella Lega -. I contributi erano destinati alle società di cui faccio parte per il periodo di chiusura dei negozi – spiega -. Sentito il commercialista, entrambe rientravano nelle attività alle quali spettavano gli aiuti. Ne ho parlato con i soci e abbiamo deciso di chiedere il bonus. L’ho fatto a cuor leggero forse, certo che fosse consentito. La politica non c’entra nulla”. Come nei gialli, solo che questa volta la colpa è del commercialista. Vedrete che il commercialista in questi giorni sarà il nuovo maggiordomo come nei classici gialli.

“Ho dato tutto in beneficenza“. Ubaldo Bocci, coordinatore del centrodestra nel Consiglio comunale di Firenze, che nel 2019 sfidò Dario Nardella nella corsa a sindaco del capoluogo toscano, ha chiesto e percepito il bonus. Bocci, ex dirigente Azimut, come riportano oggi i quotidiani locali, spiega di non aver problemi di finanze ma di averlo fatto “per dimostrare che il governo stava sbagliando non dando soldi ad hoc per disabili e tossicodipendenti” e di aver dato tutto in beneficenza, assicurando di avere i bonifici che lo testimoniano. “È vero ho preso quei soldi ma non li ho tenuti per me – rivela Bocci -. Il commercialista mi disse che avrei potuto averli anche io visto che si trattava di denari a pioggia, dati in maniera sbagliatissima, senza distinguere reddito e posizione di ciascuno. E allora pensai che potevo richiederli per donarli a chi ne aveva davvero bisogno. E così ho fatto”. Bocci ha una dichiarazione dei redditi da 270mila euro. La beneficenza con i soldi degli altri è un livello superiore: si sapeva che anche questa sarebbe stata un classico.

L’aspetto più comico e patetico è che sai già come si trincereranno, dietro quali scuse. Però c’è da registrare un fatto mica da poco: si giustificano. Si giustificano (male) ma si giustificano. E così rendono tutto ancora più aberrante e ridicolo.

E viene in mente quando per un politico (così come un personaggio pubblico) era di moda il senso dell’opportunità, del non fare qualcosa perché inopportuno, del non sentire una schiera di quelli che ora vorrebbero insegnarci (proprio loro) come scrivere le leggi giuste. Siamo il Paese con il mito degli antifurti progettati da ladri, solo che sono ladri che continuano a operare.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Dario Fo esprime la sua solidarietà a Giulio Cavalli

Stamane è giunto un messaggio di solidarietà verso Giulio Cavalli da parte del Premio Nobel Dario Fo e della Moglie Franca Rame.

“In un dialogo in catalano antico fra un contadino e un giullare che si lamentava per le angherie e le minacce subite di continuo ad opera di sconosciuti, il villano chiedeva al fabulatore: “Ma di cosa ti minacciano?” . Il giullare rispondeva: “Addirittura di spaccarmi la testa ” e il villano commentava: “Accidenti! Devi avere un gran cervello in quel cranio! E’ quello che fa paura ai mascalzoni e ai tiranni. Vuol dire anche che sai far ridere delle loro angherie: la risata è l’atto più insopportabile per i potenti e i prepotenti. Hai tutta la mia ammirazione. Grazie.” così terminò il villano offrendo al giullare un calice di vino e la sua colazione. A nostra volta, Franca ed io, ti diciamo caro Giulio: Grazie.”

DARIO FO