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Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare…

Ora almeno ci sono anche dei numeri, pochi, pochini e perfino poco chiari. Dopo mesi in cui tutti chiedevano aggiornamenti l’altro ieri l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato il suo rapporto per il periodo dal 31 agosto al 27 dicembre sui contagi a scuola mettendo nero su bianco che si tratta di 3.173 focolai di coronavirus pari al 2% del totale. Si tratta di bambini e ragazzi in età scolare (dai 3 ai 18 anni): la maggior parte dei casi, ben il 40%, si è verificata negli adolescenti dai 14 ai 18 anni. Si potrebbe partire da qui ad aprire un serio dibattito sul futuro, sul presente e sul passato recente delle scuole italiane in tempo di pandemia se non fosse che l’Iss non sa dire nulla sul fatto che il contagio avvenga in classe oppure nei (troppo pochi) trasporti prima e dopo le ore di lezione. Il nodo dei mezzi pubblici rimane un grosso punto interrogativo. Stesso discorso sulla reale efficacia della chiusura delle scuole per frenare la diffusione del Covid: «Tuttavia, l’impatto della chiusura e della riapertura delle scuole sulle dinamiche epidemiche rimane ancora poco chiaro», si legge nel rapporto.

E quindi? E quindi sulla scuola si continua con l’indecente balletto di favorevoli e contrari, di opposte tifoserie che si scontrano per opposte fazioni spesso dimenticando di proporre soluzioni. In mezzo un governo che sulla questione continua a balbettare e appare piuttosto disunito: la ministra alla scuola Lucia Azzolina pretenderebbe un rapidissimo rientro in presenza mentre altri membri del governo, Dario Franceschini in testa, propendono per la linea della cautela a oltranza. La sintesi non c’è. Meglio: la sintesi è una sbiadita mediazione che per ora dal Consiglio dei Ministri dà il via libera in presenza al 50% per le scuole secondarie di secondo grado dal prossimo lunedì 11 gennaio mentre per le scuole primarie e secondarie di primo grado fissa la ripresa dal 7 gennaio in presenza. Peccato che intanto le Regioni vadano ognuna per conto suo con la Liguria che annuncia che non aprirà, la Sardegna che posticipa al 15 gennaio, il Veneto che rimanda al 31 come Calabria, Friuli Venezia Giulia e Marche, tutte in ordine sparso. La sensazione diffusa è che il molto probabile aumento dei contagi nei prossimi giorni cambierà di nuovo le carte in tavola.

«Le Regioni riflettano bene sulle conseguenze per studenti e famiglie», avverte Azzolina ma che il peso della ministra sia debole all’interno dell’esecutivo è molto più di una sensazione.
Poi ci sarebbe anche il pensiero degli studenti, raccolto da un’indagine Ipsos per Save The Children tra ragazzi dai 14 a 18 anni che racconta di come il 42% di loro ritenga ingiusto che agli adulti sia permesso di andare al lavoro mentre loro non possono frequentare la scuola. Il 46% considera quello trascorso finora “un anno sprecato”. Save the Children stima che almeno 34mila studenti delle superiori, a causa delle assenze prolungate, potrebbero trovarsi a rischio di abbandono scolastico. Il 28% degli studenti dichiara che almeno un loro compagno di classe ha smesso di frequentare le lezioni. Ad oggi, più di uno studente su tre (35%) si sente meno preparato di quando andava a scuola in presenza.

Poi si potrebbe parlare dei trasporti che ancora mancano, del tracciamento e dei presidi sanitari e dei tamponi che avrebbero garantito sicurezza e soprattutto di un sistema di ventilazione nelle aule che avrebbe potuto garantire più sicurezza. Ma di visoni strutturate e lunghe sulla scuola non se ne vede l’ombra. Intanto il personale scolastico si arrabatta e resiste, in attesa della prossima decisione poche ore prima di aprire i cancelli.

L’articolo Ritorno a scuola, è caos totale: il governo litiga e ogni regione fa come gli pare… proviene da Il Riformista.

Fonte

Il triste declino dei beni culturali

di Claudio Meloni

 

Se un merito dobbiamo attribuire alle riforme del Ministro Franceschini, certamente questo sta nel fatto che oggettivamente il tema della gestione pubblica del nostro patrimonio culturale è stato riportato al centro del dibattito politico. Possiamo aggiungere che purtroppo i meriti si esauriscono in questa premessa, nell’apparente rovesciamento dell’assunto neo liberista che identificava la spesa sulla cultura come socialmente improduttiva con un altro, dello stesso

segno, che propone la messa a reddito del patrimonio come una sorta di panacea dello sviluppo, lo sfruttamento commerciale dei nostri siti come l’unico mezzo della loro valorizzazione. In realtà entrambi questi metodi stanno determinando un progressivo arretramento delle gestioni pubbliche, una certificazione dell’impossibilità da parte dei bilanci pubblici di provvedere alla manutenzione e conservazione del patrimonio, arrivando, in alcune ardite teorizzazioni, ad immaginare che il problema sia l’eccessiva concentrazione dei beni culturali nel nostro paese, e che questo determini appunto l’incapacità sostanziale da parte dello stato e delle istituzioni pubbliche a provvedere al loro mantenimento.

I dati che malinconicamente l’Istat fornisce nelle sue relazioni annuali presentano una realtà ben diversa: la spesa per la tutela è ai livelli più infimi della storia, la spesa pubblica pro capite continua a diminuire, il paragone con gli altri paesi europei è vergognoso proprio nel suo rapporto tra spesa complessiva e dimensione del patrimonio posseduto. Dovrebbero essere questi i temi veri del dibattito, invece assistiamo ormai da troppo tempo ad una bolla mediatica fatta di prove muscolari sul numero di visitatori che aumentano in una sorta di battaglia immaginifica tra i conservatori, ovvero quelli che non prescindono dal binomio tutela/fruizione, e i cosiddetti innovatori, coloro che pensano che noi non abbiamo mai sfruttato adeguatamente le potenzialità che il nostro patrimonio offre a causa della eccessiva attenzione alla sua tutela. Anche in questo caso andrebbe avviata una operazione di demistificazione: i visitatori aumentano progressivamente da quando si sono adottate politiche di ampliamento degli orari, e sono aumentati in modo del tutto consistente persino sotto la gestione Bondi Galan. Politiche di ampliamento dovute esclusivamente agli accordi di produttività che sono in vigore dal 2000, per le quali noi rivendichiamo con orgoglio la paternità e che hanno prodotto questi risultati esclusivamente grazie allo sforzo reale e misurabile dei lavoratori pubblici. In quest’operazione verità non dovrebbero neanche essere trascurati i riflessi dello spostamento – verso il nostro Paese – di consistenti flussi turistici, deviati da altre mete mediterranee o europee per gli effetti degli attacchi terroristici di matrice islamista.

In questo contesto si calano le riforme Franceschini, i cui segni distintivi sono la decontestualizzazione del sistema museale dal ciclo della tutela e il ridimensionamento pesante delle Soprintendenze e del ciclo archivistico-bibliotecario. Il tutto giocato sulla presunta scommessa della valorizzazione come idea estremizzata della fruizione. Questo ha comportato uno spostamento pesante di risorse umane e finanziarie a favore del sistema museale, ed oggi assistiamo, spesso sgomenti, al progressivo abbandono di un sistema di tutela diffusa del patrimonio che era esempio da seguire per tutta la comunità internazionale e all’introduzione di singolari esperimenti organizzativi, quali ad esempio i poli museali regionali, che si stanno rivelando disastrosi proprio nell’obiettivo di valorizzare il patrimonio diffuso. Ancora oggi un quarto dei visitatori si concentra sui siti e sui territori a maggiore richiamo e casomai in questi casi il problema che si sta ponendo è quello di limitare l’eccessivo afflusso, non di incrementarlo, ad esempio a Firenze e Venezia.

Con il risultato che oggi ci troviamo i musei, che in Italia sono sempre espressione del territorio di appartenenza, sganciati dal contesto in cui si sono creati e divisi artificialmente dai cicli di tutela e conservazione che li hanno generati. E ancora ignorati persino dai cittadini che di quel territorio sono parte: su questo incide la mancata progettazione/attivazione dei percorsi integrati che dovevano essere l’obiettivo della Direzione Turismo, dei Poli Museali e anche dei Segretariati Regionali.

Ci chiediamo inoltre che senso ha avuto lo spezzettamento dello straordinario tessuto archeologico di Roma, quando proprio l’unicitá della Soprintendenza aveva garantito i risultati di cui oggi il Ministro si fregia e quando proprio su questa unicità si immaginavano ardite progettazioni  di ricomposizione sociale del tessuto urbanistico.

E che senso avrà il previsto abbandono del modello di Soprintendenza a Pompei, quando è da tutti certificato che il problema di quel sito non è certo la scarsa fruizione ma la sua manutenzione. E ancora: che senso ha immaginare modelli di autonomia per i grandi musei, quando la scarsità strutturale delle professionalità necessarie al loro funzionamento impedirà per molti anni ancora la loro effettiva realizzazione.

Pertanto anche le poche felici intuizioni che queste riforme, come ad esempio l’identificazione di standard organizzativi per i musei, rischiano di affogare nel mare magnum delle deficienze organizzative strutturali alle quali non si è voluto o saputo far fronte.

E la nostra principale preoccupazione, anzitutto come cittadini, è quella che riguarda il destino dei settori applicati alla tutela del patrimonio, investiti da una serie di provvedimenti di deregolamentazione delle normative di tutela che riguardano sia le politiche paesaggistiche che quelle sul patrimonio e sulle esportazioni delle opere. Per finire alla previsione di assoggettamento delle Soprintendenze ai Prefetti, una operazione di accentramento politico-burocratico senza precedenti nella storia del nostro paese.

Queste considerazioni caratterizzano il giudizio complessivo che abbiamo dato su questa riorganizzazione e ci hanno portato alla condivisione di un percorso critico che non si è limitato alla mera visione sindacale, tramite la ricerca di punti di contatto con il mondo associativo e intellettuale che ha espresso le nostre stesse preoccupazioni. Un percorso che ha avuto il suo momento più alto nella manifestazione del 7 maggio 2016 e nella coalizione di Emergenza Cultura il terreno privilegiato di iniziativa e analisi critica.

Sarebbe però sbagliato imputare solo alle riforme di questo governo il profondo stato di declino organizzativo che vivono i cicli pubblici nei beni culturali, le cause sono più profonde e riguardano fattori strutturali, dai tagli che la spesa sulla cultura ha subito in misura molto maggiore degli altri settori al mancato ricambio generazionale dovuto al prolungato blocco del turn over, fino alla vera e propria deregolamentazione che ha subito il mercato del lavoro in tale ambito. Questi processi si sono accompagnati ad una mancanza di visione strategica rispetto ai processi di innovazione organizzativa nei servizi, ad una progressiva burocratizzazione delle strutture e procedure ministeriali, a processi di esternalizzazione produttiva che hanno avvolto tutti i cicli lavorativi, fino al raschiamento del fondo del barile rappresentato dalla diffusione incontrollata di forme di falso volontariato che non sono altro che sfruttamento mascherato del lavoro e lesione della dignità dei lavoratori coinvolti.

La triste vicenda del falso volontariato alla Biblioteca Nazionale di Roma ne è esempio emblematico,  ma anche l’abuso nel ricorso alla società in house Ales per sopperire a carenze di professionalità interne è indicatore di una governance che apparentemente taglia il costo del lavoro ufficiale, salvo poi ricorrere a  veri inganni per coprire i fabbisogni professionali emergenti. Lo ricordiamo sempre: per i soloni del bilancio statale avere un lavoratore esternalizzato o comprare una fotocopiatrice è la stessa cosa, è una spesa per servizi e quindi la riduzione del costo del lavoro è solo apparente, serve solo per le statistiche ufficiali, mentre cresce, non censito, quello esterno, con caratteristiche penalizzanti per i lavoratori che hanno subito progressivi peggioramenti nelle condizioni salariali e normative. Lavoratori in gran parte giovani e grandemente professionalizzati, sacrificati dai tagli al bilancio e dalla logica del costo zero che ragioneristicamente si è imposta ai processi di riorganizzazione.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti, un organico ufficiale del ministero che ha perso un quarto delle sue capacità occupazionali teoriche dal 1997 ad oggi, una età media del personale di ruolo di 55 anni, un impoverimento progressivo del suo tessuto professionale, una carenza che attualmente si aggira intorno alle 3000 unità complessive rispetto al pur ridotto organico teorico, un paradossale esubero determinato dalla riorganizzazione in alcuni territori strategici come ad esempio la Campania, addirittura un surplus di personale sancito dall’ultimo taglio del costo del lavoro nella prima area funzionale.

In questi anni difficili abbiamo dovuto affrontare una situazione complessa dovuta ad un processo di ristrutturazione che via via ha stravolto la fisionomia organizzativa ministeriale, addirittura con interventi in successione, attuati tramite “normette” introdotte con leggi omnibus, che hanno radicalmente cambiato persino la prima riforma del Ministro Franceschini. Basti pensare alle modifiche subite dal sistema delle Soprintendenze, prima miste e poi uniche con conseguenti modifiche degli ambiti territoriali di competenza, o al trattamento riservato al sistema degli Archivi e delle Biblioteche, pesantemente ridimensionato nei suoi assetti organizzativi ma poi reso destinatario di pesanti competenze di tutela su tutto il patrimonio archivistico e bibliografico nazionale, sottratte con un colpo di mano normativo alle regioni. Fino alla vera e propria proliferazione di musei e parchi autonomi, con lo spezzatino delle aree archeologiche più importanti di Roma e Napoli.

In questi anni non ci siamo certo sottratti al confronto, abbiamo tentato di mantenere condizioni accettabili di tutela dei lavoratori e di garantire i servizi, continuando a sottoscrivere accordi di produttività che garantissero orari di fruizione ampia in tutto il territorio nazionale. Abbiamo chiesto a gran voce che la riorganizzazione fosse accompagnata da investimenti organizzativi e occupazionali, abbiamo continuato a denunciare tutte le storture organizzative che le riforme hanno prodotto, ci siamo opposti alla deriva propagandistica della falsa valorizzazione tentando di rappresentare la condizione reale di caos sovrapposto al declino strutturale dei cicli lavorativi, siamo stati insieme a chi denunciava l’attacco al sistema di tutela del patrimonio e siamo stati protagonisti in una miriade di iniziative tese a difendere le condizioni di tutti i lavoratori, a partire da quelli che maggiormente hanno subito condizioni di sfruttamento. Non ci siamo limitati alla mera difesa di posizione, abbiamo cercato di essere propositivi e allo stesso tempo di governare le contraddizioni provenienti da scelte organizzative improvvisate e non condivise dai lavoratori. Abbiamo subito un grave attacco ai diritti costituzionali dei lavoratori, a cui è stato ignominiosamente limitato il diritto di sciopero con motivazioni pretestuose e tramite un decreto legge, e a cui viene oggi persino impedito la libera espressione di critica tramite la manomissione autoritaria del Codice Etico. Abbiamo combattuto la privatizzazione strisciante e denunciato il progressivo arretramento delle gestioni pubbliche a favore di quelle private, tramite le forme indirette che quasi sempre comportano benefici e profitti ai privati e costi di gestione a carico dell’erario pubblico. Abbiamo proseguito a fare la contrattazione integrativa e la abbiamo costantemente indirizzata al confronto sui processi riorganizzativi, mantenendo e addirittura potenziando condizioni di confronto che la norma ci voleva sottrarre.

Ma tutto questo sforzo non è stato sufficiente: ancora oggi ci troviamo in mezzo al guado di una riorganizzazione incompleta ed in una situazione prolungata dì transitorietà che determina disorientamento e paura tra i lavoratori, soggetta alla mutevolezza di un quadro politico che, nel suo insieme, poco lascia intravvedere rispetto ad un reale e profondo mutamento di rotta.

In questa situazione ci apprestiamo ad affrontare la campagna per il rinnovo delle Rsu, che è il nostro vero momento di verifica democratica con i lavoratori. La affrontiamo consci delle difficoltà ma anche con la consapevolezza di avere idee salde e una visione strategica su quello che possiamo fare e su quello che si deve cambiare.

È quello che deve radicalmente cambiare passa attraverso un radicale ripensamento dei processi di riorganizzazione che parta dalla ricomposizione dei cicli di tutela con quelli della valorizzazione, che rinsaldi una frattura creata artificialmente e foriera di gravi danni per il futuro del nostro inestimabile patrimonio.

La potenziale attrattivitá del patrimonio diffuso può essere foriera di sviluppo solo se legata al territorio di cui è espressione, anzitutto nella sua riconoscibilità come fattore di crescita culturale di una comunità e rispetto alle condizioni infrastrutturali che ne agevolino la fruizione e la capacità di offerta dei servizi. In questo senso a noi erano piaciuti molto gli indirizzi dati nella rimodulazione dei progetti POIN 2007/13 dall’allora Ministro Barca, e di cui troviamo purtroppo scarsa traccia nella nouvelle vague franceschiniana.

Questo significa che il sistema delle Soprintendenze deve tornare ad essere il centro dell’azione pubblica tramite la soppressione dei Poli Museali regionali e l’estensione ad esse del modello di autonomia attualmente limitato ai grandi Musei. Se davvero si intende attuare il Piano strategico per il Turismo questa deve essere la chiave che superi le pastoie burocratiche che ancora oggi avvolgono l’azione della Direzione Generale del Turismo, un corpus tuttora avulso dalle dinamiche organizzative interne al Ministero. Il problema non è se le Soprintendenze devono essere Uniche o meno, ma quello della salvaguardia delle loro competenze tecnico scientifiche mortificate e depauperate dalle riforme e dai tagli.

E significa che bisogna tornare ad investire sulla tutela dell’immenso patrimonio documentale che possediamo, riqualificando e ammodernando il sistema diffuso degli Archivi e delle Biblioteche pubbliche, sia nella capacità di offerta dei servizi che rispetto alla funzione di stimolo alla conoscenza ed alla crescita culturale dei cittadini.

Occorre inoltre riprendere ad investire nella ricerca, riqualificando professionalmente il settore e gli Istituti Centrali, anch’essi ormai ridotti al lumicino, adeguando i processi organizzativi alle innovazioni tecnologiche, come ad esempio i processi di digitalizzazione del patrimonio documentale e librario.

Dal nostro punto di vista sindacale tutto questo pone al centro la questione del lavoro, della sua riqualificazione sociale e della sua dignità, che in questo settore risulta particolarmente lesa.

Non bastano le misure che ad oggi si stanno attuando, 1000 assunzioni sono appena sufficienti a coprire un terzo delle carenze attuali e il trend di uscite nel prossimo triennio sarà ancora più massiccio con il pensionamento degli ex 285, particolarmente incidente nei settori professionali più qualificati. Serve quindi un piano straordinario che deroghi al blocco del turnover e si ponga l’obiettivo di coprire l’intera dotazione organica entro il 2020. Un piano che qualifichi il fabbisogno professionale e lo leghi ai processi di innovazione organizzativa aggredendo i fattori di obsolescenza che caratterizzano il declino dei cicli produttivi. La questione professionale è centrale nei beni culturali, l’appiattimento professionale dei lavoratori interni e la deregolamentazione del mercato del lavoro ne sono i segni distintivi. Riconoscere percorsi professionali di crescita qualitativa degli apporti ed allo stesso tempo definire regole certe ed esigibili a tutela del lavoro esternalizzato. Non è possibile che a tre anni dalla legge che riconosce le professionalità nei beni culturali, inserendoli nel Codice, non abbiamo ancora i regolamenti attuativi e la vicenda dei riconoscimenti di qualifica professionale per i restauratori registrano vergognosi ed inammissibili ritardi. Occorre prevedere tariffari minimi per i professionisti e trattamenti economici e normativi minimi per tutti i lavoratori esternalizzati, rivedere radicalmente la politica delle concessioni, limitare l’utilizzo della società in house riconducendola entro corretti recinti normativi.

La contrattazione integrativa deve essere potenziata nelle materie e nelle risorse e sempre più indirizzata alla incentivazione della reale produttività e della crescita professionale collegata ad investimenti su efficaci processi formativi e non certo a modelli meritocratici astratti. Occorre responsabilizzare la dirigenza tramite criteri di valutazione collegati alla effettiva realizzazione degli obiettivi assegnati, sollevandoli dal limbo dell’autoreferenzialitá dei trattamenti a pioggia a prescindere.

Infine la sfida della rappresentanza: dobbiamo migliorare la nostra capacità di intervenire sulla complessità dei nostri cicli lavorativi, non dobbiamo farci rinchiudere nei recinti degli interessi specifici e combattere le sempre forti spinte corporative che sono state in parte causa delle derive autoritarie che hanno compresso i nostri diritti. La qualità degli ambienti di lavoro va misurata complessivamente ed il riconoscimento delle tutele e dei diritti di tutti coloro che a vario titolo contribuiscono al funzionamento  dei servizi è componente essenziale del concetto di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, oltre che naturalmente linfa dei processi di affermazione dei loro diritti democratici e condizione per una ritrovata efficacia del lavoro al servizio dei cittadini. Cogliere la complessità dei cicli lavorativi rappresenta la nostra vera sfida culturale, fino al raggiungimento della piena consapevolezza della confederalitá come base fondante del nostro agire sindacale.

Su queste idee costruiremo la piattaforma con la quale affronteremo la difficile campagna elettorale per il rinnovo delle RSU e ci confronteremo democraticamente con i lavoratori, nella concreta speranza di mantenere e rafforzare il ruolo forte che la CGIL ha avuto in questi anni complicati.

 

Relazione tenuta all’iniziativa CGIL FP tenutasi a Palermo l’8 settembre us

L’autore e’ Coordinatore nazionale CGIL FP MiBACT

Ci vuole Fedez per dire quello che tutti sanno su Franceschini, SIAE e monopolio

E bravo Fedez, quindi. Ecco l’articolo dell’HP:

“Andate a vedere che lavoro fa la moglie di Franceschini”. Duro attacco di Fedez al ministro dei Beni Culturali e del Turismo Dario Franceschin i che, secondo il rapper e produttore discografico, “è palesemente colluso, colluso forse è troppo, è in conflitto d’interessi con i temi che deve affrontare tra Soundreef e Siae perché sua moglie gestisce gli immobili di Siae”. Durante la conferenza “Compose the future” alla Luiss Enlabs di Roma, il musicista non risparmia accuse nei confronti del ministro: “Non è che lo dico io – spiega al moderatore – è un fatto oggettivo, perché se tua moglie gestisce gli immobili e il patrimonio di Siae, è lecito parlare di conflitto di interesse e se l’Europa ti dà una direttiva e tu non la rispetti, ci sono delle domande da porsi ed è legittimo porsele”. Subito la replica dell’onorevole Francesco Boccia (Pd), presente alla conferenza: “Io l’ho visto all’opera su Secondary ticketing e penso che sia stato, in questo quadriennio, un eccellente ministro dei Beni Culturali”, dice a proposito dell’operato di Franceschini. “Voi avete aperto il dibattito sul diritto d’autore, – aggiunge – io vorrei aprirlo su tutta la catena del valore perché se lo apriamo su tutta la catena del valore, forse consentiamo al nostro Paese di fare un salto di qualità”. Ma il rapper, che a margine del convegno ha ironizzato sulle tracce della prima prova dell’esame di maturità, ricordando di non averla mai sostenuta (“Robot? Avrei scelto robot”, ha risposto ai giornalisti), insiste e ribadisce che “per quanto possa essere complesso il discorso e per quanto si possano fare tanti voli pindarici, parliamo di un monopolio che esiste dai tempi di Verdi, da 130 anni, e che ad oggi non cambia”. “Uno può discutere su tante cose – ha proseguito – ma quello che rimane è che l’Europa ha chiesto di togliere il monopolio e la politica non ha tolto il monopolio”.

“Crediamo che sia necessario e importantissimo creare un percorso codificato tra start-up e politica”, ha detto poi l’amministratore delegato di Soundreef Davide D’Atri a margine della conferenza, ideata proprio con l’intento di proporre la creazione di un organismo di tutela per le start-up presso il Mise, per consentire ai giovani imprenditori di interagire con lo Stato e le istituzioni in modo “trasparente e regolamentato”.

“Il monopolio esiste ancora ed è più aggressivo di prima”, afferma l’ad di Soundreef, che oggi conta 25.000 autori a livello mondiale, di cui 8.000 italiani, destinati ad aumentare: “Ci saranno autori americani molto importanti e almeno un altro paio di colpi italiani prima della fine dell’anno – ha annunciato D’Atri, senza lasciarsi scappare un nome ma ribadendo un chiaro interesse “per la fascia giovane”.

Dopo essere sbarcato in Italia nel 2015, l’intento del gestore indipendente di diritti d’autore è ora quello di tornare ad investire all’estero: “Alcuni Paesi ci hanno proposto addirittura di arrivare a sostituire la collecting nazionale”, ha detto Davide D’Atri. “Se in Italia ci rendono la vita difficile – ha proseguito – possiamo fare business fuori dall’Italia riportando i capitali qui”.

“Il mercato non si è ancora aperto, i concorrenti non possono arrivare, – ha concluso Fedez – tutti sappiamo che quando si apre il mercato alla concorrenza chi ne trae beneficio è il fruitore finale: in questo caso si sta cercando di agevolare un monopolio e non gli artisti”.

Era colpa del Tar. E intanto hanno corretto la legge, invece.

Tanto per rimanere nel merito. E per fortuna ne scrive Possibile qui:

Ma non era solo l’ennesimo capitolo della famosa “congiura dei Tar” contro il cambiamento (tanto da spingere il sempre misurato Renzi a rimpiangerne una “riforma”… tipo: “via i Tar!”)? Non era un’interpretazione quantomeno bizzarra del Tar Lazio quella per cui al concorso per la direzione dei musei non potevano accedere gli stranieri? In effetti il dubbio poteva esserci e era stato sollevato da più parti, anche se – come spiegavamo ieri – questo non superava i motivi di illegittimità della decisione del giudice amministrativo.

Ora, però, approfittando della discussione sulla “manovrina” viene inserito un emendamento (sulla cui coerenza rispetto al testo si potrebbe ben discutere), in base al quale «l’articolo 14, comma 2-bis, del decreto legge 11 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2016 [in realtà 2014, ndr], n. 106, e successive modificaziofni, si interpreta nel senso che alla procedura di selezione pubblica internazionale ivi prevista non si applicano i limiti di accesso di cui all’art. 38 del decreto legislativo 31 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni».

Verrebbe da dire: “excusatio non petita, accusatio manifesta”. Infatti, questo conferma che la sentenza del Tar Lazio non è un “attacco al potere” come l’avevano descritta Franceschini e Renzi, ma semplicemente una decisione assunta in base al principio di legalità, secondo un’interpretazione della legge che l’emendamento presentato conferma che era quantomeno ben possibile. E evidentemente c’era più che qualche dubbio che il Consiglio di Stato si orientasse diversamente dal Tar Lazio, se il legislatore è intervenuto.

Rimangono insuperati, naturalmente, gli altri vizi rilevati dal Tar Lazio.

Perché ha ragione il TAR e non Franceschini

(lo scrive Rocco Todero per Il Foglio. Il Foglio eh)

E’ comprensibile l’amarezza con la quale il Ministro Franceschini ha accolto la decisione del Tar del Lazio di annullare le procedure selettive per la nomina di 5 complessi museali italiani. Chi si pone al vertice della direzione politica di un ramo dell’amministrazione statale ha tutto l’interesse a coltivare il concreto raggiungimento di obiettivi pratici che preludano alla migliore erogazione delle prestazioni della pubblica amministrazione ai cittadini ed ai fruitori dei servizi culturali nel caso specifico. E’ naturale che dopo molto lavoro, articolatosi in un procedimento amministrativo di selezione durato più di due anni, scoprire di dover ricominciare da capo (a fine legislatura) sia una sorpresa che non si possa accogliere col sorriso sulle labbra.

Corrisponde a verità l’affermazione del TAR del Lazio secondo la quale è principio pacifico che le selezioni comparative per l’accesso al pubblico impiego nella amministrazione italiana debbano di necessità svolgersi “a porte aperte”? Perché, dunque, i colloqui per la selezione dei direttori dei musei si sono svolti senza consentire ad alcuno di potere assistere? Vi è qualche principio derogatorio o ragione eccezionale che possa giustificare la condotta della pubblica amministrazione nel coso specifico?

Corrisponde a verità l’affermazione del TAR del Lazio secondo la quale ai sensi dell’articolo 38 del testo unico sul pubblico impiego “I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”? Può la predetta disposizione essere immotivatamente derogata per consentire a cittadini stranieri di assumere l’ufficio di dirigente del museo che presuppone l’esercizio di poteri pubblici? Può un Tribunale della Repubblica soprassedere sull’applicazione di una norma di legge ancora vigente?

Corrisponde a verità l’affermazione del TAR del Lazio secondo la quale il punteggio numerico con il quale sono stati giudicati i concorrenti alla selezione pubblica deve essere ricondotto ai criteri predeterminati dalla stessa commissione giudicatrice e non può essere svincolato del tutto dal riferimento alle predette linee guida?

Una riflessione più serena, forse, potrebbe indurre il Ministro dei Beni Culturali a trarre due conclusioni: a) le procedure per la selezione dei direttori dei musei italiani non sono state in grado di dimostrare, oggettivamente, che la scelta sia caduta sui migliori candidati; b) le procedure per la selezione dello staff e dei collaboratori del Ministro Franceschini nemmeno.

Montanari scrive a Franceschini: «Rischia di essere il peggior ministro della storia»

“Signor Ministro, non è senza sgomento che mi trovo a a scriverLe che Lei sta raggiungendo un obiettivo che si sarebbe detto impossibile: sostituire Sandro Bondi al vertice della classifica dei più nefasti ministri per i Beni culturali della storia repubblicana”.

Così inizia l’amara lettera aperta che lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha indirizzato al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, pubblicata su MicroMega 4/2016, in edicola in questi giorni.

Innanzitutto il ministro Franceschini è accusato di aver passivamente accettato tre provvedimenti del governo Renzi che mettono in serio pericolo la tutela del patrimonio artistico e del paesaggio:

“Primo: Lei ha subìto senza battere ciglio lo Sblocca Italia, che ha creato un’autostrada normativa emergenzialistica per aggirare le regole vigenti, e semplificare la cementificazione del paese (…). Secondo: La legge Madia, che ha previsto la trasformazione delle prefetture in ‘uffici territoriali dello Stato’. (…). Tradotto in pratica, vuol dire che anche le soprintendenze confluiranno nelle prefetture, e che i soprintendenti saranno sottoposti ai prefetti, gerarchicamente superiori.(…) quel che c’è in gioco non è (solo) l’estetica delle città, delle coste o delle colline italiane: ma la tutela della stessa salute umana, così strettamente connessa alla salvaguardia del territorio. (…) Terzo. La legge sulle esportazioni delle opere d’arte presentata dal Suo partito nella primavera 2016: un clamoroso passo indietro, che ci fa rinunciare all’eccezione culturale al Trattato di Maastricht (1992) grazie alla quale non siamo stati finora obbligati a trattare le opere d’arte del passato come merci qualsiasi.(…) Se Berlusconi e Bondi avessero proposto anche uno solo di questi tre provvedimenti, saremmo tutti andati in piazza con i forconi: probabilmente anche Lei, che allora rivestiva la carica di vicedisastro (copyright di Matteo Renzi) del Partito democratico”.

Poi ci sono le responsabilità dirette e personali di Franceschini:

“La prima è la fatale contrazione delle soprintendenze. Prima che il Suo governo si insediasse ne avevamo tre: quella che si occupava del paesaggio e dei monumenti, quella che si occupava dei musei e delle opere d’arte, quella che si occupava dell’archeologia. Con due mosse successive e non coordinate tra loro, provocando un caos indescrivibile e senza investire un euro nell’operazione, Lei le accorpate tutte: ottenendo una «tutela» tuttologica (alcuni astrologi di corte accampati nei corridoi del Collegio Romano preferiscono chiamarla «olistica») che abdica radicalmente al principio fondamentale della competenza tecnico-scientifica. (…) La seconda mossa distruttiva è stata la creazione di trenta supermusei autonomi del tutto sradicati dal territorio, e misurati solo con il volume dei biglietti (e non sulla capacità di produrre e redistribuire a tutti conoscenza). (…) per concentrare risorse sui musei, si è del tutto sguarnito il territorio: cui non toccheranno più dirigenti di prima fascia (il che equivale a una condanna a una perpetua minorità) e su cui rimangono poli museali slabbrati e disorganizzati (perché costruiti secondo l’unico criterio di farci confluire tutto ciò che non sembra eccellente: cioè redditizio), soprintendenze allo stremo, archivi e biblioteche che vanno avanti solo grazie all’elemosina del volontariato. (…) Tutto questo, mentre il finanziamento ordinario della macchina del ministero non è aumentato di un euro”.

“In questo quadro”, conclude lo storico dell’arte, “si comprende quale sia il motore ideologico del complesso di leggi e «riforme» che, di fatto, sta rimuovendo l’articolo 9 dalla Costituzione: se la Costituzione pone alla Repubblica un traguardo altissimo (il pieno sviluppo della persona umana: art. 3), ora, invece, per chi guida la Repubblica le persone e la loro formazione sono funzionali al mercato, signore unico delle nostre vite”

(*) Si tratta di alcuni stralci della lettera pubblicata, integralmente, su MicroMega 4/2016.

L’articolo che Dossetti avrebbe voluto in Costituzione

Cultura1

L’appello di Tomaso Montanari che è, in fondo, anche un manifesto politico:

«Giuseppe Dossetti avrebbe voluto in Costituzione un articolo che dicesse che:

«La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino». 

Oggi tutti noi siamo in questa piazza romana perché sentiamo questo dovere. E perché vogliamo esercitare questo diritto.

Lo vogliamo fare con tutta la nostra voce: e siamo felici che alle nostre voci si aggiunga quella potente della tromba marina del Tritone di Gian Lorenzo Bernini, che oggi è un nostro speciale compagno di lotta.

In questi mesi una serie di decisioni scellerate di questo governo – un governo sostenuto da una maggioranza parlamentare resa possibile da una legge formalmente dichiarata incostituzionale – sta di fatto sradicando dalla Costituzione l’articolo 9.

Denuciamo che oggi la Repubblica non promuove lo sviluppo della cultura.

Non promuove la ricerca.

Non tutela il paesaggio, cioè l’ambiente.

Non tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Oggi è emergenza cultura!

Nei primi colloqui che ho avuto con lui, il ministro Dario Franceschini (allora appena nominato) mi disse che il presidente del Consiglio aveva il progetto di abbattere la tutela pubblica del paesaggio e del patrimonio («far fuori le soprintendenze», mi disse). E che lui, il ministro, si sarebbe opposto.

Ebbene, i fatti – i fatti che ci hanno portato in questa piazza – certificano che quel confronto, se mai c’è stato davvero, l’ha vinto il presidente del Consiglio, e l’ha perso il ministro per i Beni culturali.

Anzi l’hanno perso il paesaggio e il patrimonio artistico: cioè tutti noi, e i nostri figli.

Noi chiediamo l’abrogazione dello Sblocca Italia: una legge criminogena che consegna l’Italia ai signori del cemento e del petrolio. Una legge scritta sotto la dettatura telefonica delle lobbies.

Vogliamo, invece, una legge che porti a zero il consumo suolo: una legge vera, non come quella, ipocrita e dannosa, che giace in Parlamento.

Chiediamo al governo di ritirare l’odioso provvedimento del silenzio assenso. Prima si sono svuotate le soprintendenze di mezzi e di personale. E, ora che non ce la fanno più a rispondere in tempi brevi, si vuol far pagare il conto ai cittadini: perché il famoso silenzio assenso servirà solo a costruire Grandi Opere Inutili. Utili, anzi, solo a chi le costruisce, e fatali per l’ambiente: e non di rado per la vita stessa dei cittadini, falciati da alluvioni e da frane provocate dal cemento.

Chiediamo al governo di rinunciare alla bestemmia del Ponte sullo Stretto.

Vogliamo l’Unica Grande Opera utile, e cioè il risanamento e la messa in sicurezza del territorio.

Chiediamo al governo di ritirare l’articolo della Legge Madia che mette le soprintendenze sotto i prefetti: che mette, cioè, la tutela tecnico-scientifica del territorio sotto il potere del governo stesso.

Nemmeno un governo eletto plebiscitariamente (e questo, notoriamente, non lo è) ha il potere di distruggere ciò che dobbiamo lasciare alle future generazioni. Siamo custodi, non padroni.

E la nostra voce è umile: ma contiene quella dei nostri figli, e dei figli dei nostri figli: finché non si spenga la luna. È il futuro che ci supplica di non distruggere la bella Italia.

Vogliamo che la soprintendenza sia una vera magistratura del territorio e del patrimonio storico e artistico. Indipendente dal potere politico.»

(continua qui)

E se Franceschini stesse facendo più danni di Bondi?

colosseo

Mi è capitato ieri, per lavoro, di ascoltare le parole del comitato organizzatore della manifestazione di questo sabato 7 maggio a Roma (trovate tutte le informazioni qui) per cui alcune persone diversamente impegnate nell’ambito della cultura, dello spettacolo e dei beni culturali hanno deciso di impegnarsi per aprire un dibattito pubblico sulle conseguenze della riforma del Ministro Franceschini  oltre che sui decreti d’attuazione dello Sblocca Italia e della legge Madia. Tomaso Montanari (che è stato uno dei primi ispiratori della manifestazione) mi spiega che stiamo assistendo (accorgendocene pochissimo) ad una premeditata azione di smontaggio dell’articolo 9 della Costituzione.

«La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.»: il 9 è uno di quegli articoli a cui non prestiamo attenzione, dandolo per scontato senza nemmeno immaginare quanta fatica ci sia dietro alla salvaguardia, alla protezione e alla tutela. Che mica per niente sono i verbi di un buon padre di famiglia. E mentre questi professionisti raccontano con passione quasi devota come s’indebolisca la bellezza attraverso i perversi effetti di commi che loro riescono a rendere subito copioni quotidiani mi sono reso conto, guardandoli, di quanta poca attenzione dedichiamo a quelli che hanno chiamato “magistratura indipendente della tutela del territorio”.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Il politico del mese è Stefano Benni

StefanoBenni

Non tanto per il rifiuto del premio, secondo me, quanto per la controrisposta alla (brutta) risposta del Ministro Franceschini:

Caro ministro, la sua è una risposta da politico in leggera difficoltà, non da sereno amante della cultura. La mia infondata indignazione è condivisa da molti, e si fonda sui miei incontri con piccole, coraggiose, serie realtà che voi avete soffocato, e che lei farebbe bene a frequentare di più. Avrei preferito che dicesse chiaramente cosa vuole fare d’ora in avanti, piuttosto che elencare cifre sommarie per difendere il suo posto di lavoro. Sì avete dato soldi, ma a chi e con che criteri?

Prendo atto della sua buona volontà e il futuro dirà se lei vuole davvero riportare la cultura al centro (naturalmente al centro) dell’azione politica. È una frase affascinante che sentiamo ripetere da anni. Se ciò avverrà sarò il primo a riconoscerlo, accetterò premi e ci congratuleremo vicendevolmente. Ma si sbrighi, ho una certa età e non vorrei premi alla memoria.

Buon lavoro e chiudo qui,

Stefano Benni

Viva er Colosseo co’ leoni. Viva ‘sta Roma de cojoni.

da Patrimoniosos.it:

Ormai è notizia diffusa, pure da Televideo: il docente di archeologia a Roma Tre, Daniele Manacorda, lo stesso che propose un campo di golf a Caracalla, ha suggerito al ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, di ripristinare e riattare ai combattimenti l’arena nel Colosseo ricostruendolo all’interno secondo i disegni del primo ‘900. Il ministro ne è stato subito entusiasta. E con lui, come si legge su PatrimonioSos, si è schierato, dopo il gatto, la Volpe, o meglio il professor Volpe Giuliano, altro docente di archeologia, esempio preclaro di virtù, presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. In effetti il contributo all’occupazione sarebbe enorme per Roma. Centinaia e centinaia di centurioni e di pretoriani, folle di finti schiavi in catene, colonne di cristiani condotti alle belve (addomesticate), i cavalli delle botticelle e gli scarti degli ippodromi in crisi reimpiegati per le corse con le bighe stile Ben Hur, spettacoli continuati giorno e notte, con brevi pause soltanto per rimuovere i rifiuti e le feci dei cavalli, grandi cucine nei sotterranei se non altro per scongelare e vendere caldi i soliti surgelati precotti, bevande di ogni tipo e di ogni gradazione, camion di tredicine e altri in colonna lungo via dei Fori Imperiali pedonalizzata, rivendite di costumi romani classici, tuniche con laticlavio, mantelli, armature, elmi tutt’intorno al Colosseo con attendamenti di guerrieri numidi, ispanici, libici, egizi, siriani, biglietti venduti a caro prezzo on line in tutto il mondo, Roma invasa da decine di milioni di turisti, una succursale subito aperta per spettacoli analoghi nei teatri e nelle arene di Verona, Capua, Pompei…A Roma il senatore Cutrufo ha proposto di ricostruire anche la vecchia Arena d’er Corea. Si preparano piani di analoga “valorizzazione” per l’Appia Antica fra gli applausi entusiasti del sottosegretario ai Beni culturali Barracciu e dell’on. Piera Picierno.

La nuova Roma che avanza contro i feticci archeologici

Franceschini è arcicontento

di quel gran suggerimento:

“Presto, presto, al Colosseo

Gladiatori con trofeo!

Centomila occupazioni

troveranno i centurioni.

Archeologi scontenti?

Garantisco nuovi stenti.

Come a voi intellettuali

lustratori di stivali.

Ai professori che gufano,

ho già detto che stufano.

Manacorda è mio alleato.

Con me Volpe si è schierato.

Che prestigio, che vittoria,

passerò con ciò alla storia!

A Matteo ho assicurato

un successo da primato:  

Civati, Chiti e Tocci?

Segregati lì tra i cocci.

Alla Barracciu e alla Picierno?

Un marmoreo memento eterno.

La folla sottostante grida:

Viva er Colosseo co’ leoni

Viva ‘sta Roma de cojoni”

(Anonimo Plautino)