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depressione

Trascinarono nuda una malata psichica, sospesi due agenti

Sono due gli agenti della casa circondariale di Rebibbia sospesi dal loro incarico, una sovrintendente e un assistente capo coordinatore in servizio all’istituto che ora sono accusati di falso ideologico e abuso di autorità. La presunta vittima è una detenuta con problemi psichiatrici. I fatti risalgono alla notte dello scorso 21 luglio: la donna è stata trascinata con forza perché aveva rotto un termosifone, dopo avere chiesto una sigaretta e avendo ottenuto un rifiuto, e per questo sarebbe stata portata in un’altra stanza priva di telecamere di sorveglianza. Il tutto sarete avvenuto con la presenza di ben 5 agenti donne e un agente di sesso maschile che avrebbero poi redatto un verbale di servizio in cui era riportata una presunta aggressione da parte della detenuta nei confronti degli agenti che in realtà non sarebbe mai accaduta.

«Non risulta che la detenuta stesse tenendo un comportamento aggressivo che abbia reso necessario l’intervento di un agente di sesso maschile, né dai filmati risultano situazioni che rendessero necessario l’uso della forza per lo spostamento della detenuta, come sostenuto dagli indagati nell’interrogatorio» scrive nell’ordinanza la gip Mara Mattioli, che descrive anche i fatti successivi: «Il trascinamento di peso della detenuta, nuda e sull’acqua fredda, non è stato posto in essere per salvaguardare l’incolumità della stessa (avendo la detenuta già da un po’ cessato le intemperanze) apparendo invece chiaramente motivato da stizza e rabbia per i danni causati dalla donna». Nel video agli atti anzi la donna detenuta è evidentemente in imbarazzo proprio per la presenza di un uomo e cerca di coprirsi le parti intime. Scrive la gip: «L’agente entra nella stanza n.3 e ne esce tenendo ferma la nuca della detenuta che in quel momento appare collaborativa ed è completamente nuda, la accompagna all’interno della stanza n.1 resa nuovamente agibile».

Una circostanza che per l’eccezionale presenza di personale di sesso maschile non autorizzato doveva diversamente essere riportato agli atti. «Inoltre la telecamera esterna alle ore 2.01 del 22/7/2020 riprende nuovamente l’agente entrare nella stanza n.1 ove è rimasta la detenuta ed uscirne circa 24 secondi dopo. Di questo accesso non vi è traccia nei verbali né dai filmati si capisce sulla base di quale necessità un agente di sesso maschile sia intervenuto da solo presso la cella della detenuta (peraltro ancora completamente nuda)». Secondo quanto riportato dalla vittima nel suo interrogatorio sarebbe rimasta sola con l’agente uomo nella stanza mentre era minacciata di non rivelare quei fatti a nessuno altrimenti le violenze si sarebbero ripetute. Da qui la condanna di falso ideologico e di abuso di autorità che hanno portato anche alla sospensione del servizio: “personalità del tutto spregiudicate” che avrebbero potuto reiterare le violenze e che avrebbero potuto inquinare le prove. Secondo fonti interne al carcere, infatti, gli accusati non era la prima volta che eccedevano in violenze e risulterebbero diverse segnalazioni e condanne disciplinari nel loro curriculum.

Per il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia «pur rimanendo ovviamente garantisti la loro sospensione è un segnale importante perché in molti casi di abusi, quando non vengono coperti con omertà, il personale resta normalmente in servizio e in molti casi restano in servizio nello stesso istituto se non addirittura nelle stesse sezioni». Per questo, dice Anastasia, «l’intervento del Dap è particolarmente apprezzabile perché è risultato abbastanza urgente, mentre spesso si aspetta l’esito del procedimento penale, quindi molti anni dopo, prima di intervenire e allontanare gli eventuali colpevoli»· Mentre ora le indagini faranno il suo corso e accerteranno eventuali responsabilità però resta da registrare un dato, che è sempre lo stesso: nelle carceri italiani continuano a consumarsi violenze che difficilmente riescono a rompere il muro di omertà che si crea tra agenti penitenziari. In questo caso i video delle telecamere di sorveglianza hanno potuto almeno appurare che non ci sia stata nessuna presumibile aggressione, motivazione molto spesso usata per proteggere la facciata di eventuali violenze, ma solo il lavoro delle indagini ha permesso di scoprire che il verbale redatto sull’accaduto non corrispondesse alla realtà dei fatti.

Poi c’è la questione, la solita annosa di cui spesso scriviamo anche sule pagine di questo giornale, di detenuti che non sono nelle condizioni psichiche di poter sicuramente stare in una cella: la donna vittima della violenza nel carcere di Rebibbia è descritta da tutti, anche dagli inquirenti, come una persona con gravi disturbi psichici. Ma siamo davvero sicuri che una situazione del genere non sia anche creata dalla mancanza di misure alternative al carcere che dovrebbero permettere a lei di scontare la propria pena con un metodo alternativo che comprenda anche le giuste cure (oltre alla propria dignità) e che non debba mettere operatori penitenziari (anche senza le giuste competenze) in condizioni così difficili? Il 4% dei detenuti è affetto da disturbi psichici contro l’1% della popolazione generale.

La depressione colpisce il 10% dei reclusi mentre il 65% convive con disturbi della personalità. Un detenuto su 4 assume regolarmente psicofarmaci. Tutto questo mentre una sentenza della Corte di Cassazione dello scorso agosto mette nero su bianco che è ora possibile concedere, alla persona affetta da gravi problematiche psichiatriche, la misura della detenzione domiciliare. La donna di questa terribile storia ancora prima che non essere maltrattata non doveva stare a Rebibbia.

L’articolo Trascinarono nuda una malata psichica, sospesi due agenti proviene da Il Riformista.

Fonte

Di depressione si parla sempre poco, ma in Italia ne soffrono più di 3 milioni di persone (di Giulio Cavalli)

E allora proviamo a ritirarlo fuori questo mostro di cui si parla sempre poco, che rimane nascosto tra le pieghe degli articoli scientifici come se non fosse un’emergenza sociale, politica e economica. Parliamo di fenomeni depressivi in Italia in questo 2020, parliamo dei più di 3 milioni di persone ammalate nel nostro Paese, della malattia che ha il maggior impatto sulla vita quotidiana e del fatto che Sip (Società italiana di Psichiatria), Sinpf (Società italiana di Neuropsicofarmacologia), Sips (Società italiana di Psichiatria Sociale) e Società italiana di Medicina generale e delle Cure primarie abbiano messo in atto una campagna (“La depressione non si sconfigge a parole”). Perché lo stigma del depresso impedisce a metà dei malati di riconoscere la propria malattia, di parlarne con i propri famigliari e di parlarne con un medico.

Secondo recenti stime dell’OMS, il 20 per cento di bambini e adolescenti nel mondo soffre di disturbi mentali, mentre nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di invalidità per malattia, subito dopo le patologie cardiovascolari. La presidente della Società Psicoanalitica Italiana Anna Maria Nicolò scrive che “i dati raccolti finora hanno evidenziato i bisogni diffusi nella popolazione, nelle famiglie, nei singoli, nel personale sanitario direttamente impegnato nella cura dei pazienti COVID-19” e che hanno “anche evidenziato la scarsa oggettiva recettività da parte dei Servizi Pubblici, gravati dall’elevato numero di richieste e dalla scarsissima quantità di professionisti – psicologi e psicoterapeuti – disponibili.”

Due dati drammatici testimoniano il rischio di una mancata presa in carico di questa patologia: in Europa il 60 per cento dei suicidi viene commesso da persone che soffrono di depressione e il 15-20 per cento di tutti i malati di depressione tenta il suicidio. Oltre a quello puramente sanitario, anche l’impatto economico di questa patologia è molto rilevante: si stima che in Italia il costo sociale della depressione, in termini di ore lavorative perse, sia complessivamente pari a quattro miliardi di euro l’anno, con i pazienti affetti da depressione resistente che perdono mediamente 42 giornate di lavoro all’anno, in pratica circa un giorno a settimana.

“L’iter di conversione in Legge del Decreto “Rilancio” e l’utilizzo dei fondi dell’Unione Europea per il sostegno alle Nazioni più colpite dalla pandemia devono essere l’occasione per garantire alla nostra popolazione in modo strutturato e permanente il diritto naturale alla salute psicologica”, dice la Professoressa Rita B. Ardito, presidente della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva. Dai, parliamone, su.

Leggi anche: 1. The big dilemma: la dipendenza dai social va ben oltre i like, è un’assuefazione dallo schermo 2. Michelle Obama confessa: “Soffro di una lieve forma di depressione”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Come ci deprime scrivere di depressione

Ogni volta che qualcuno viene a mancare per motivi più o meno direttamente legati alla depressione, ancora di più se famoso abbastanza da meritarsi qualche pagina della stampa internazionale, si alza in giro un certo imbarazzo, un silenzio balbettante, una contrizione goffa e fastidiosa.

Anche nel caso di Dolores O’Riordan (musicista e cantante internazionale) basta scorrere i giornali di questi giorni per accorgersi che poeticizzare il suo strazio interiore in nome di una funesta ispirazione sia molto più comodo che raccontare del suo disturbo bipolare o della sua depressione che ciclicamente la atterriva. “Morte misteriosa”, “periodo non facile” o “periodo difficile” sono i cerotti letterari che vengono utilizzati per nascondere una malattia (una malattia, una malattia, sarebbe da scrivere decine di volte tutte di seguito) che non rientra nella postura vincente e vittoriosa imposta da questo tempo.

Il divo fragile da appena morto, come il collega o il famigliare o il vicino di casa, è una storia da negare perché portatrice di sventura e foriera di ingrigiti sentimenti e così la negazione della malattia (che è il primo e più grande errore di chi depresso lo è davvero) viene alimentata ancor di più dalla postura generale.

È una slealtà linguistica irrispettosa delle debolezze che forse sarebbe il momento di dismettere una volta per tutte: sia per quelli che ancora ci (e si) illudono che stare male o avere difficoltà sia un fallimento (e così indirettamente giustificano il mancato soccorso) e sia per chi anche stamattina s’è svegliato a fatica circondato dal grigio e dalla paura di riconoscerlo.

Farebbe bene a tutti, in fondo. Farebbe bene anche a me, che lì in fondo ci sono stato, e ogni volta mi ricordo di chi mi ammonì di non dirlo, di non scriverlo, perché “non porta bene”. E invece sarebbe bellissimo raccontare che poi tornano i colori.

Buon giovedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/01/18/come-ci-deprime-scrivere-di-depressione/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

Sono evaso dal mio comodissimo lato peggiore.

statonaturale

C’è solo un rischio nel godersi il dolore. E te lo scrivo perché ci ho nuotato dentro per anni e forse ogni tanto ci ricado ancora: convincersi che quello sia il nostro stato naturale. Apprezzarne i ritmi blandi, assopirne le incostanze e prendere la forma della tristezza così tanto e così in fondo, perché te la bevi tutta perché credi di meritartela, che alla fine la forma della tristezza è l’unica forma comoda per appoggiarci il viso. E te ne accorgi perché tutto intorno, tutto, ma proprio ogni cosa di tutte le cose, ti sembra troppo ripida per metterci sopra il piede, ti prende il mal di testa ancora prima del primo scalino e non sentirsi all’altezza ti disabitua a prendere il volo. È naturale, questo sì. E poi comincerai a diventare gelosa del tuo dolore, ti dirai che almeno qualcosa hai il diritto che sia solo tuo, senza sapere che così ti stai concimando per essergli perfetta, al dolore: sola. E alla fine anche l’esser sola ti pesa come colpa, così all’infinito: ogni scelta, una colpa. Così smetti di scegliere e ormai sei andata così lontana che non avresti mai la voglia di prendere per mano qualcuno e riportarlo fin lì. Poi a me è successo così: ho sentito i suoni e ho visto i colori. Sono evaso dal mio comodissimo lato peggiore.

Il campione e il cane nero della depressione

Thorpe-depressione

«C’è bisogno di tornare a far parte di questo mondo, a tutti è concessa la possibilità di ricostruire la propria resilienza nei confronti dei propri tormenti. È possibile ritrovare il senso di se stessi e sentirsi nuovamente parte di questa vita. Oggi, sono in grado di apprezzare la vita, non solo dimostro riconoscenza ma cerco anche di viverla al meglio. Mi sento tremendamente felice e voglio ricordare agli altri che vale la pena perseguire la felicità. Non do per scontato nessuna delle possibilità che la vita mi ha regalato.»

Ian Thorpe scrive della sua depressione con coraggio. Secondo me va letto. È qui.

Il rumore là fuori

1393775838_TECH_rumoreRispondendo ad un utente sulla propria pagina Facebook Bono degli U2 parlando della promozione del loro ultimo disco ha scritto: “c’è un sacco di rumore là fuori. Penso che sia necessario fare un po’ di casino per superarlo”. Sto scrivendo L’amico degli eroi, lo spettacolo e libro sulla vicenda inumana di Marcello dell’Utri e i suoi poco onorevoli compari di vita e sono rimasto incastrato dal silenzio qui dentro e anch’io dal rumore là fuori. Dopo lo spettacolo su Giulio Andreotti ho avuto grandi difficoltà a scrivere e produrre, non lo nascondo, per motivi che probabilmente non mi sono ancora del tutto chiari: mettici la paura, la stanchezza, mettici la malattia nera che hai sempre il sospetto di non avere superato del tutto e mettici l’indolenza che mi ha lasciato addosso. Abbiamo inventato qualcosa, sì, messo in scena giullarate, scritto articoli ma tutti questi ultimi anni si sono svolti con una dinamica granulosa e molle che ha perso la spinta dei primi anni di produzione. Con poca speranza, forse, principalmente faticando ad accendere quella vecchia energia. Ecco: il “rumore là fuori” comincia a farti paura quando hai paura di avere perso quell’equilibrio che avevi, ti salvava e non hai mai capito bene come ricrearlo quasi se ti fosse arrivato sempre un po’ per caso oppure perché non ci hai dedicato abbastanza tempo per carpirne gli ingredienti. Solo un pensiero. Tutto qui. Torno a scrivere, eh.

Temete i fragili perché siete codardi

Dunque Robin Williams si è suicidato perché depresso ed era depresso perché non aveva niente a cui pensare perché ricco. Funziona così: è ‘casta’ qualsiasi cosa possa meritare invidia in una società costruita sulla bile. E intanto siamo un posto (niente di più, davvero, è la parola più dignitosa da spendere, postoincapace di cogliere la depressione come malattia. Sei depresso? è un tuo vizio, niente di più. Anzi, beato te che hai il tempo per deprimerti come se la depressione fossero avanzi che sbrodolano per forza dal superfluo. Eppure, udite udite, sono stato depresso anch’io. Mica poco. O almeno abbastanza da temere di esserlo ancora, come tutti i depressi di questo mondo. Niente di scritturabile come sceneggiatura di successo a puntate on demand ma so bene che odore ha questa stanchezza piena di sensi di colpa subito alla prima mattina o questa poca voglia di parlare con chiunque non sia lontano poco più di un metro dal proprio letto. Ho pensato alle cose peggiori, quelle che farebbero così comodo ad alcuni mafiosi, alcuni antimafiosi e i loro padrini politici e ho perso importanti occasioni della vita. Ho perso delle elezioni. Le ultime, quelle del dopo Formigoni, schiacciato tra l’elettricità di una sfera personale in piena ebollizione e un mondo politico lombardo che inseguiva il marchio pulito per nascondere la merda bipartisan. Ho perso amici, una caterva, quintali di persone vicine a cui non sono riuscito nemmeno a dire un grazie, un aspettami che poi ritorno oppure semplicemente una richiesta di aiuto.  Ho avuto il corpo e la bocca fermi mentre nel cervello passavano tutte le cose che avrei dovuto fare o dire almeno per essere educato (per chi, poi?) mentre guardavo scivolare via un aperitivo od una riunione come se fosse un brutto film in seconda serata, da spettatore passivo. Ho nascosto la malattia per la paura di sembrare un debole mentre nascondevo il marcire nelle mie debolezze. Ho urlato senza senso e poi mi sono frollato nei miei sensi di colpa, e poi ancora mi sono ucciso per il mio senso di soddisfazione nel sentirmi in colpa e poi ancora mi sono sentito in colpa per il mio stupido modo di sentirmi in colpa. Ho visto nero, dappertutto, contando le briciole degli altri per difendermi dai miei buchi che sanguinavano in giro. Sono stato depresso, insomma, depresso tutto per bene con la malattia nascosta a tutti come fanno i depressi che si convincono di farcela da soli almeno per non doverlo raccontare a nessuno.

E allora?

E allora ho pensato che non sopporto un posto (appunto) ed un momento in cui temete i fragili perché siete codardi. Perché temete di non avere energie anche per loro come se ci fosse una competizione tra malati e sani. Ho pensato che una malattia non curata per ignoranza piuttosto che per incuria è una malattia che pesa come l’onta di un peccato mortale. Mi sono detto che non avrei perdonato la superficialità con cui si affibbia a qualcuno una depressione per vizio e l’avrei combattuta tutte le volte. Con la fierezza di essere fragile. Anzi: di essere stato fragile sapendo che lo potrei essere di nuovo ogni altro momento della mia vita. E rivendico il diritto di essere debole. A tratti. Perché per qualcuno il riposo è la cura di una malattia e voglio un paese che mi accudisca. Sì. Prendendosi cura delle fragilità come un bene prezioso.

I sopravvissuti dal suicidio

Tra le banalità di questi giorni c’è luce nelle parole di Katie Hurley:

Confrontati con chi è sopravvissuto a un suicidio. Fai pratica nell’usare le parole “suicidio” e “depressione” così che scivolino naturalmente sulla lingua così come le parole “unicorno” e “gomma da masticare”. Ascolta le loro storie. Stringi loro le mani. Sii gentile con il loro cuore. E abbracciali ogni singola volta. Incoraggia l’aiuto. Impara di più sulle strutture nella tua zona così da poter aiutare gli amici e i tuoi cari che ne hanno bisogno. Non avere paura a presentarti da loro ancora e ancora. Non avere paura a trasmettere la tua preoccupazione. Una connessione umana può fare la differenza nella vita di qualcuno che si batte contro la malattia mentale e/o contro il senso di colpa del superstite.