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La Diaz secondo Arnaldo, Attilio Manca e cosa ci abbiamo messo dentro LEFT questa settimana

È un numero che mi sta particolarmente a cuore quello di LEFT di questa settimana in edicola da oggi perché ci ho rimesso un pezzo di cuore dedicandomi alla Diaz (per opporsi a questo continuo tentativo di rimozione) e alla vicenda di Attilio Manca con una lunga (e spero bella) intervista ad Angela Manca, madre del giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto di cui sicuramente sappiamo solo che è morto. Per il resto c’è la presentazione della direttora Ilaria Bonaccorsi:

Ripartiamo dalle fondamenta. Dai ricchi e dai poveri. Questa settimana su Left Chiara Saraceno non solo scrive i numeri della povertà in Europa (solo i minori a rischio povertà sono 27 milioni, uno su quattro) e in Italia, ma spiega cosa sia “la povertà estrema”, quella che uccide persino la capacità, l’aspirazione di immaginare di poter cambiare la propria condizione.
Le disuguaglianze crescono e non perché siano accidenti, ma per scelte precise. Come quelle che portano a sistemi di tassazione iniqui che continuano a colpire i molti che hanno poco per favorire i pochi che hanno molto.
Vi abbiamo raccontato la storia del regista inglese Ken Loach che dei losers e della working class ha fatto la sua bandiera più bella. E abbiamo chiesto al regista italiano Mimmo Calopresti di spiegarci la sua vita tra gli operai, prima della Fiat e poi della Thyssen di Torino.
Ci siamo occupati di tortura e della nuova legge chiedendo a Luigi Manconi, autore del testo originario, di spiegarci come e quanto, prima di essere approvata alla Camera, sia stata modificata e in parte snaturata. Ci siamo occupati di libertà e resistenzaricordando, a modo nostro, il 25 aprile. Dello strano caso di Attilio Manca, urologo del boss Provenzano, e di una donna unica: il giovane avvocato Tawakkul Karman, premio Nobel per la pace nel 2011, volto gentile della Primavera yemenita.
E molto altro ancora: di Kurdistan, di Velazquez a Parigi, del ritorno dell’intellettuale organico e della magnifica storia del fisico Joseph Rotblat che si rifiutò di costruire la “bomba”. Buona lettura!
  

Diaz: anche l’indignazione è a comando

Schermata del 2015-04-14 14:51:32Parole del Procuratore Enrico Zucca, pm nel processo “Diaz”:

La politica e lo stesso Viminale si indignano per le parole di Tortosa così come si sono indignati per gli applausi agli agenti condannati per la morte di Aldrovandi. Ma perché questa indignazione non è arrivata nel luglio del 2012, quando la Cassazione condannò in via definitiva i vertici della polizia che, come ho ricordato prima, hanno difeso fino all’ultimo l’operazione alla Diaz e hanno coperto la tortura? Non solo non c’è stata indignazione, ma all’indomani di quella condanna è apparsa una lettera sul Corriere della Sera firmata da poliziotti che esprimevano al loro capo condannato la stessa solidarietà che Tortosa esprime nei confronti del suo commilitone, condannato per lo stesso reato. Nessuno si è scomposto per quel gesto di solidarietà nei confronti di un funzionario di polizia che per la Cassazione ha coperto un atto di “abiezione totale”. Si è perso l’abc istituzionale.

Ah: tra l’altro Tortosa  oltre ad avere detto una cazzata ha scritto anche una cosa falsa sul comportamento del Nucleo a cui apparteneva.

Il timore reverenziale per la polizia

9788861904613_il_partito_della_poliziaOra, chiariamolo subito, io alle forze dell’ordine devo questi ultimi anni di protezione e quindi non venitemi subito a scrivere che “non si fa dell’erba un fascio” oppure “sono poche mele marce” e tutti questi altri eccessi di legittima difesa che spuntano un secondo dopo avere letto il titolo. Seguitemi con calma.

Scrive Marco Preve nel suo interessantissimo libro ‘Il partito della Polizia’:

La polizia ha sempre funzionato come termometro di una democrazia. Più è presente nella società, meno quella società è libera e democratica. Nessuno Stato può fare a meno della polizia, a essa è affidato l’ordine pubblico, la difesa della proprietà privata, l’incolumità delle persone. Il sacrificio di una piccola porzione di libertà individuale vale la pena se in cambio tutti si sentono più sicuri. A patto che, attraverso le istituzioni, la società sia in grado di controllare l’operato dei poliziotti e riesca a intervenire laddove emergano degli abusi.

Sembra semplice, ma nell’Italia di questo inizio Duemila le responsabilità e i ruoli sono saltati e noi cittadini liberi ne abbiamo fatto le spese.

Più temiamo (piuttosto che rispettare) la nostra polizia e più siamo un Paese che ha un problema. Reale. La catena di comando della Polizia di questi ultimi anni (da De Gennaro in poi) ha avuto gravi responsabilità passate in giudicato (dalla scuola Diaz, ai fatti della caserma Ranieri a Napoli per citane un paio) ma non ne ha mai pagato il conto, anzi: i colpevoli hanno fruito tranquillamente di promozioni e solidarietà ai più alti livelli. Solo l’ultimo grado di giudizio ha “costretto” la politica a rimuovere i condannati.

Eppure la polizia oggi è vissuta troppo spesso come un pericolo piuttosto che un protezione (basti pensare ai casi Aldrovandi, Uva o Cucchi) e difficilmente il dibattito si è aperto al di là delle fazioni precostituite (centrodestra pro Polizia, sinistra contro e moderati zitti). Quanto è stata affidabile la nostra polizia? Potremmo prendere in prestito le parole di Francesco Carrer (uno dei criminologi, non da salotto televisivo, più noti d’Italia, esperto del Consiglio d’Europa e consulente di forze dell’ordine, organismi ed enti locali in tema di sicurezza).

«Sul piano sostanziale sono d’accordo con lei. Ho sempre sostenuto che il personale di quello che gli anglosassoni definiscono il settore del Law enforcement (poliziotti e magistrati) dovrebbe, quando sbaglia, essere sottoposto a norme più rigorose e restrittive del normale cittadino. Personalmente ho avuto occasione di scrivere che ritengo deleterio che a costoro venga applicata la norma del “patteggiamento”, “che umilia cittadini e poliziotti onesti, prevista per ridurre i tempi dei processi e che consente di dichiararsi colpevole senza sottoporsi a giudizio e di usufruire così di agevolazioni e sconti della pena. Il che può significare che cittadini onesti che hanno denunciato esponenti delle forze di polizia se li ritrovano in servizio dopo pochi mesi, magari promossi di grado”. Il personale delle forze di polizia viene considerato alla stregua di ogni altro cittadino e pubblico dipendente. In pratica, ciò significa che ogni provvedimento disciplinare viene preso solo quando il comportamento in oggetto è stato giudicato un reato in via definitiva dopo tre gradi di giudizio. Il che, considerando i tempi della giustizia italiana, può richiedere una decina d’anni d’attesa. Ciò significa che, di fatto, il provvedimento immediato più severo per un poliziotto sorpreso a rubare in un negozio – reato grave moralmente, meno giuridicamente – è il trasferimento in un ufficio distante un paio di chilometri da quello in cui lavorava al momento del fatto. A ciò aggiunga l’atteggiamento di molti sindacati, più realisti del re e più attenti ai propri iscritti e alle loro deleghe che non ai cittadini. Scegliendo un esempio fior da fiore, in Francia e in Italia queste organizzazioni si sono fieramente opposte alla possibilità di controlli sul personale. Forse che la negazione aprioristica di comportamenti negativi (violenze, torture, ma anche altri reati) e la difesa dei loro possibili autori non è simile all’accettazione delle fabbriche di armi in nome della salvaguardia dei posti di lavoro? 

[…]

«Per chiarire la mia posizione, ho avuto modo di scrivere che “dovremo porci l’obiettivo di arrivare ad avere poliziotti così preparati sul piano professionale, così onesti su quello morale e così motivati su quello personale da essere percepiti dalla maggioranza del paese come al di sopra di ogni critica e di ogni sospetto. Avere poliziotti talmente autorevoli da rendere irreale il fatto che la loro parola valga quanto, se non meno, non solo di quella di un pregiudicato, ma anche di un normale cittadino. Avere poliziotti così integerrimi da rendere risibile qualsiasi critica di avvocati difensori, politici e pennivendoli. Avere poliziotti così corretti da rendere certa e automatica la condanna per ogni episodio di oltraggio a pubblico ufficiale denunciato da uno di loro. Avere poliziotti così onesti da impedire a qualsiasi magistrato anche il solo formarsi dell’idea di metterne uno sotto accusa”. Da tempo quest’obiettivo ha giustificato gran parte delle mie fatiche nel settore, ma sempre con la consapevolezza che si tratta di un traguardo a lungo termine che in certi momenti sembra anche a me del tutto irrealizzabile e onirico. Più prosaicamente, “ogni paese ha la polizia che si merita e, comunque, che è stato capace di darsi”.»

Insomma: ‘Il partito della Polizia’ fossi in voi lo leggerei. Senza riverenza. Confidando nell’intelligenza delle persone che non fanno “di tutta l’erba un fascio” in un libro che fa i nomi e i cognomi. Come piace a noi.

20 luglio 2001. Perché?

Non riesco più a commemorarlo Carlo Giuliani e quella Genova del 2001. Non riesco nemmeno a rivedere le immagini. Non sopporto le barricate che ancora dopo undici anni si levano ogni anno.

Che poteva starsene a casa.

Che Genova è stata messa a ferro e fuoco da quattro scalmanati.

Che la sospensione della democrazia è un’esagerazione perché lo Stato deve difendersi.

Tutte queste altre cose qui.

E nessuno, dico nessuno, che risponde a questi perché.

Perché?

Riscrivere il passato per preparare il futuro. Da Genova.

No, la verità ufficiale non solo non racconta la storia di quei giorni, ma la sua palese asimmetria offende il buon senso. Non avvicina la giustizia, ma la allontana, e non rappresenta certamente un’occasione per chiudere una ferita, ma piuttosto un inganno. Siamo all’autoassoluzione dello Stato e alla riduzione delle giornate di Genova a una storia di disordini e casini sfuggita di mano un po’ a tutti.
Genova è stato ben altro. Lo sa chi c’era e chi non c’era. E, soprattutto, lo sa benissimo chi allora sospese l’ordinamento democratico ed organizzò la repressione contro il movimento antiliberista, nell’intento di stroncarlo sul nascere. L’operazione Diaz di undici anni fa doveva coprire tutto ciò, legittimando ex post la bestiale repressione, e da quel punto di vista fu un fallimento. Oggi c’è il teorema che sostiene che a Genova ci fu una situazione di “devastazione e saccheggio” e che quindi gli “errori” delle forze dell’ordine vanno letti in quel contesto. E quel che è peggio -e moralmente ripugnante- è che sull’altare di quel teorema sono state sacrificate dieci persone.
Sarebbe però un errore grossolano pensare che qui si tratti soltanto di mettere in sicurezza gruppi di potere, cricche e uomini politici ancora in vista. Certo, si tratta anche di questo, ma c’è dell’altro, perché riscrivere il passato serve sempre per preparare il futuro. Non è, infatti, un caso che alle parole del Ministro Cancellieri e alle scuse del Capo della Polizia Manganelli non sia seguito alcun fatto degno di nota, mentre la conferma in sede di Cassazione del reato di “devastazione e saccheggio” è densa di concretissime implicazioni presenti e future.
Negare la politicità di Genova, oscurare le centinaia di migliaia di persone che allora scesero in piazza e ridurre il tutto a fatto di ordine pubblico è pienamente coerente con quello sta succedendo ora, in tempi di crisi e governi tecnici, dalla Val di Susa alle cariche contro gli operai delle cooperative di Basiano. Anche per questo, non è possibile scendere a compromessi con una verità ufficiale che non è compatibile con quello che avvenne undici anni fa, che non fa giustizia e che getta più di un’ombra sul futuro.

Luciano su Il Manifesto di oggi.

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