Facciamo un patto. Ma facciamolo sul serio: decidiamo che non ci sia concesso di dimenticarci le parole già dette su mafie, cittadinanze e socialità giù al nord. Che non ci sia bisogno ogni volta di un ripasso generale prima di ricominciare, che non è opportuno avere bisogno ad ogni giro di un riassunto delle puntate precedenti. Non per cominciare a dare qualcosa di scontato (non sia mai in questo tempo di concimazione dell’ignoranza per rendere malleabile il consenso) ma perché almeno non isoliamo i professori (cioè, quelli che professano valore), gli studiosi (quelli che analizzano prima di avventurarsi nelle più disparate tesi) e i cittadini per vocazione (quelli che non sopravvivono, ma vivono a costo di farsi male per tutti gli spigoli che ci sono intorno).
Ogni giorno che si sfoglia un giornale (o un sito o un blog: sono lo stesso affacciarsi su finestre diverse della stessa stanza) c’è un abbondanza di ridondandismi (non esiste ma rende bene l’idea) che distolgono dal punto e banalizzano per vanificare: le “infiltrazioni che stanno arrivando al Nord”, gli imprenditori che “finiscono per essere vittime senza accorgersene” o i politici “che non sapevano”. E allora ecco il perché del cappello obbligatorio a qualsiasi discorso o pezzo per riprendere le fila cominciando a smontare prima di avere il tempo e il terreno per montare un discorso che provi a guardare al presente e al futuro. La relazione annuale della DNA sul fenomeno della ‘ndrangheta è un pennarello blu sugli errori da non ripetere, una bacchettata sulle dita.
Soldi, radicamento e struttura. Il quadro investigativo e processuale complessivamente considerato evidenzia inequivocabilmente che la ‘ndrangheta è caratterizzata non solo da una illimitata disponibilità finanziaria (derivante principalmente dal traffico di stupefacenti e dai lucrosi investimenti immobiliari e di imprese già rilevati ed evidenziati nella precedente relazione, ma anche da una allarmante e provata diffusione territoriale che non conosce confini; le indagini dispiegate negli ultimi anni denunciano una “presenza massiccia” nel territorio che non trova riscontro (rectius: possibilità di comparazione) nelle altre organizzazioni mafiose. L’organizzazione si avvale di migliaia di affiliati che costituiscono presenze militari diffuse e capillari ed, al contempo, strumento di acquisizione di consenso, radicamento e controllo sociale. Quindi basta con le ipotesi di brigantaggio evoluto. Per favore, basta con le proiezioni di qualche rurale malfattore. A Milano Dalla Chiesa, Barbacetto, Portanova e tanti altri lo dicono da qualche decennio. Diamolo come concetto digerito e inamovibile.
Qui, lì, dappertutto. Le indagini dell’operazione Crimine 1 e Crimine 2 consentono di radicare, altresì, il fermo convincimento che il processo di internazionalizzazione dell’organizzazione in parola è vieppiù progressivamente avanzato: alla presenza in terra straniera di immigrati calabresi “fedeli alla casa madre” ed operativi (sul piano degli investimenti e del riciclaggio di profitti illeciti) si è aggiunta una strutturale presenza (militare e strategica) di soggetti affiliati a “locali” formati ed operanti stabilmente in terra straniera che, fermo restando il doveroso ossequio alla “casa madre”, agiscono autonomamente secondo i modelli propri dei locali calabresi autoctoni. Il disvelamento di organizzati locali in Germania, Svizzera, Canada ed Australia (si vedano gli arresti colà eseguiti in esecuzione delle ordinanze Crimine) conclama vieppiù detto processo di progressiva globalizzazione della ‘ndrangheta che, da fenomeno disconosciuto (o, per meglio dire sottovalutato), può oggi essere considerata una vera e propria “holding mondiale del crimine”. Siffatti mutamenti ontologici dell’organizzazione in esame sono stati, indubbiamente, favoriti ed accelerati dalla “nuova generazione” di ndranghetisti che, pur conservando il formale rispetto per le arcaiche regole di affiliazione, oggi non sono solo in grado di interloquire con altre ed altre categorie sociali, ma anche di mettere a frutto le loro conoscenze informatiche, finanziarie e gli studi intrapresi. Basta con il federalismo antimafia. Le regioni non esistono più sullo scacchiere delle ‘ndrine. E’ un federazione di luoghi oliata e perfetta. Il provincialismo (che è enormemente diverso dall’attenzione per i territori) antimafioso è un condono morale che lasciamo ai barbari sognanti.
Politica mafiosa, mafia politica, imprenditoria mafiosa, mafia imprenditrice. E’ bene, quindi, rilevare ed evidenziare che gli allarmanti (rectius: inquietanti) rapporti intrattenuti con rappresentanti delle istituzioni, con politici di alto rango, con imprenditori di rilevanza nazionale (disvelati da numerose indagini dispiegate in varie regioni nel corso del periodo in esame) non sono soltanto frutto esclusivo del clima di intimidazione e della forza intrinseca del consorzio associativo, bensì il risultato di una progettualità strategica di espansione e di occupazione economico-territoriale, che, oramai, si svolge su un piano assolutamente paritario; rapporti con istituzioni ed imprese volto ad intercettare flussi di denaro pubblico, opportunità di profitti e, contestualmente, ad innestare nel libero mercato fattori esterni devianti (di nitida derivazione criminale e di inquinamento economico), ma tendenti verso una nuova fase di legittimazione imprenditoriale e sociale idonea a conferire un grado di “mimetismo imprenditoriale” e ciò allo scopo evidente di eludere le indagini patrimoniali ed assicurare, nel tempo, stabilità economica alle attività imprenditoriali. Detto fenomeno è ancor più evidente nel nord-Italia ove la ‘ndrangheta opera in sinergia con imprese autoctone o, in talune occasioni, dietro lo schermo di esse. Esiste, a ben vedere, una nuova generazione di criminali calabresi che “si muovono a una velocità diversa rispetto alla tradizione dei giuramenti, dei riti e delle formule di affiliazione”. L’intensa e straordinaria attività di indagine dispiegata dalla DDA di Reggio Calabria, Catanzaro, Milano, Roma e Torino ha, vieppiù, evidenziato le “due nature” della ‘ndrangheta: l’una, quella militare, volta all’acquisizione di poteri di controllo territoriale e sociale e, l’altra legata in modo indissolubile alla prima, la ‘ndrangheta “politica” ed imprenditrice che intesse rapporti con uomini politici, favorisce ed agevola in modo interessato, “cariche politiche” ovvero instaura rapporti economici con realtà imprenditoriali esistenti sul territorio al fine di fagocitarle e/o inglobarle. ‘Ndrangheta, politica e imprenditoria non si incrociano per caso e non sono vittime una dell’altra: convergono (c’è un bel libro di Nando Dalla Chiesa che si intitola, indovina un po’, ‘La Convergenza’).
Milano è la capitale della ‘ndrangheta. Lo diceva già Vincenzo Macrì, sostituto procuratore della Direzione Nazionale Antimafia e lo ripete l’ultima relazione della Direzione Nazionale Antimafia: I dati di un recente studio del Centro di ricerca della Università Cattolica individuano nella città di Milano la “capitale economica del crimine organizzato”, la città ove operano “i manager delle cosche”: il numero di beni immobili e mobili confiscati nonché di imprese mafiose operanti in vari settori (appalti pubblici, edilizia, movimento terra, turistico-alberghiero e ristorazione) in Lombardia conclamano l’importanza della regione quale luogo eletto di reinvestimento di profitti illeciti delle organizzazioni criminali italiane ed il ruolo assolutamente egemone della ‘ndrangheta. Chi nega o non ne vuole parlare è ignorante e cretino.
L’antimafia si fa ovunque. Dice la Relazione della DNA che il grado di attenzione ed informazione sull’evoluzione del fenomeno ‘ndrangheta, sulla pericolosità di essa, sulla sua potenza economica nonché sulla pervasiva presenza su tutto il territorio nazionale ha raggiunto, nel periodo in esame, livelli insperati e comunque idonei a rendere partecipe l’opinione pubblica della gravità sociale ed economica dell’agire criminale dell’organizzazione. Orbene siffatto mutamento di rotta informativa non è da ricondurre soltanto all’eclatanza dei gesti intimidatori commessi in danno di magistrati, professionisti, giornalisti (di cui si è detto sopra), ma anche, e soprattutto, a due diversi fattori: da un lato l’intensità del contrasto ed i “successi investigativi” e processuali che hanno dato corpo ad una palpabile presenza dello Stato e delle sue Istituzioni e, dall’altro lato, ad una “sorta di risveglio della coscienza civile”, ossia una marcata e consapevole presa di posizione civica che lascia intravedere l’inizio di una strenua lotta culturale ed etica volta al riscatto ed alla progressiva emarginazione del “cancro sociale” che ha attanagliato da decenni la Calabria. Le numerose manifestazioni di solidarietà a Magistrati ed alle instancabili Forze di Polizia, le iniziative culturali, i dibattiti di cui la stampa nazionale ha dato contezza e rilievo fanno intravedere la concreta possibilità di una presa di coscienza collettiva che fa ben sperare per il futuro e, comunque, fanno intravedere un percorso di contrasto più articolato che si congiunge con quello tracciato dalla Magistratura che non può essere delegata in modo esclusivo. Ognuno fa la sua parte. Ognuno gioca il proprio ruolo senza timidezze e fanatismi.
Queste le righe in blu e gli errori in rosso che ci vengono riconsegnate. Così almeno con più memoria si scrivono i prossimi capitoli. Non tanto perché sia un “compito in classe”, almeno per non perdere troppo tempo a smentire le bugie e perché la ‘ndrangheta su al nord è già più nazionalpopolare nell’instillare la distrazione di un comizio leghista ben detto, ma se si rimane fermi sulla grammatica della memoria viene tutto più semplice. E perché come dice Piercamillo Davigo “è l’oblio dei misfatti che lentamente consuma la libertà delle istituzioni”.
Scritto per I SICILIANI