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Diritti. Ma televisivi

Mi par di capire che l’indignazione del giorno sia (giustamente) la prossima finale della Supercoppa italiana di calcio che si svolgerà il prossimo 16 gennaio a Gedda, ridente località dell’Arabia Saudita, e che vedrà di fronte Juventus e Milan per giocarsi il trofeo.

Tutto nasce da un avventato comunicato stampa della Lega Calcio (gestita con la cura di una bocciofila di qualche dopolavoro) che esulta i biglietti andati “letteralmente a ruba” e che specifica come i settori previsti allo stadio siano solo due: quelli indicati come «singles» sono riservati agli uomini mentre quelli indicati come «families» sono misti per uomini e donne. Donne solo se accompagnate, parrebbe di capire dalle comunicazioni ufficiali.

È notevole l’idiosincrasia tra chi dipinge le facce dei propri calciatori per richiamare l’attenzione sulla violenza contro le donne e poi, dopo pochi mesi, sembra disposto a svendere comportamenti di civiltà pur di incassare i ricchi rimborsi dei diritti televisivi. Si propongono di esportare il calcio italiano e nel frattempo importano le peggiori tradizioni.

Si è levato, come prevedibile, un coro di proteste bipartisan da tutte le parti: la difesa (a parole) delle donne e il calcio sono un binomio troppo ghiotto per lasciarselo sfuggire. Però forse il discorso sarebbe un po’ più ampio della prevedibile sottomissione femminile piuttosto prevedibile: l’Arabia Saudita è quello stesso Paese che bombarda con noncuranza i civili in Yemen (con bombe marchiate RWM e prodotte serenamente in Sardegna) ed è quello stesso Paese che ha tagliato a fette il giornalista Jamal Khashoggi nel suo consolato a Istanbul, colpevole di essere stato critico nei confronti del principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammad bin Salman e del re del paese. Un omicidio che, al solito, prima è stato negato e poi, di fronte a prove evidenti, derubricato a diverbio.

Insomma basterebbe avere letto un po’ di cronaca internazionale negli ultimi mesi per sapere che l’Arabia Saudita non è certo patria del diritto e dei diritti. Forse sarebbe il caso di ricordarsi dei tanti civili in Yemen (ricordate le terribili foto di bambini uccisi che ciclicamente farciscono i giornali per combattere il calo di clic e di indignazione?) e del depistaggio di Stato per nascondere l’eliminazione della voce scomoda di Kashoggi. Perché l’Arabia Saudita, vista per intero con uno sguardo largo, faceva schifo come sede di una finale di coppa ben prima del settore per soli uomini.

O no?

 

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/01/04/diritti-ma-televisivi/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Diritti. Ma televisivi.

Perché l’Arabia Saudita, vista per intero con uno sguardo largo, faceva schifo come sede di una finale di coppa ben prima del settore per soli uomini.

Marchionne: che c’entra la morte con i diritti?

Sergio Marchionne è quanto di più lontano possa esistere rispetto alla mia concezione dei diritti del lavoro e dei valori morali. Ho ancora negli occhi il pessimo marketing dell’”Operazione Italia” lanciata in pompa magna per finire in un niente di fatto, ho negli occhi gli scheletri spolpati di ciò che fu Mirafiori e di come è stata ridotta, ho conosciuto e discusso con i residui degli operai della Maserati che sono diventati il sacchetto dell’umido di un’industria italiana che fu gloriosa ed è diventata una misera stelletta da sventolare, ricordo bene la frase di Marchionne ospite da Fabio Fazio (eh, sì) quando disse «la Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l’Italia». I grandi imprenditori e industriali italiani sono quelli che hanno contribuito alla crescita del Paese oltre a quella della propria azienda, e Marchionne no, non è tra questi.

Ma non è di questo che voglio parlare. No. Mi interessa piuttosto scorrere (e lo so che ci tocca, purtroppo) i commenti di chi in queste ore sta esultando per le condizioni di Marchionne, ricoverato in terapia intensiva in coma irreversibile, come se il suo dolore personale possa essere davvero un valore aggiunto alla battaglia per i diritti, come se (ancora una volta) i posti di lavoro persi (erano 120mila nel 2000, rispetto ai 29mila di oggi) trovino lenimento nella sua scomparsa. Gioire della morte di Marchionne è una cazzata pazzesca, non ha niente a che vedere con la sinistra dei diritti e dei lavoratori e di colpo rilascia lo stesso tanfo di chi gioisce per i morti del Mediterraneo. Chi gioisce per la morte di un negro è disumano come chi gioisce per la morte di un ricco. È una posizione impopolare? Beh, pazienza.

Il gioco sporco di dare un nome, un cognome e una faccia a una (giusta) battaglia per i diritti è una bassezza che non ha niente a che vedere con la difesa dei deboli. Cedere alla vendetta e al cattivismo è (per dirla alla Totò) una livella peggiore della morte. La compassione che dipende dai beneficiari è fasulla. Un uomo che muore è un uomo che muore: le sue pratiche e le sue politiche non hanno niente a che vedere con la sua malattia. No. E insozzare il clima non porta benefici. Per niente.

Buon lunedì.

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«Non è per questo che gioco a calcio, e non rimarrò seduto a fare niente. Il razzismo non dovrebbe mai, mai essere accettato.»

Mesut Özil ha annunciato la sua intenzione di lasciare la nazionale di calcio della Germania. La sua lettera d’addio vale la pena di essere letta per questioni che esulano dal calcio:

Le ultime due settimane mi hanno dato tempo per riflettere e per pensare agli eventi degli ultimi mesi. Voglio quindi condividere i miei pensieri e i miei sentimenti riguardo a quello che è successo.

Come molte persone, ho origini in più di un paese. Nonostante sia cresciuto in Germania, le radici della mia famiglia sono in Turchia. Ho due cuori, uno tedesco e l’altro turco. Durante la mia infanzia, mia madre mi insegnò a essere sempre rispettoso e a non dimenticare mai da dove venissi, e questi sono ancora i valori a cui penso oggi.

A maggio incontrai il presidente Erdogan a Londra, durante un evento di beneficienza sull’istruzione. C’eravamo incontrati per la prima volta nel 2010, dopo che lui e Angela Merkel avevano guardato insieme la partita tra Germania e Turchia a Berlino. Da allora le nostre strade si sono incrociate molte volte in giro per il mondo. La foto di me ed Erdogan causò un’ampia risposta sui media tedeschi, e nonostante alcune persone mi avessero accusato di mentire e di essere disonesto, l’avevamo scattata senza alcun obiettivo politico. Come ho detto, mia madre non ha mai lasciato che dimenticassi le mie origini, i miei valori e le tradizioni della mia famiglia. Per me fare una foto con il presidente Erdogan non riguardava la politica o le elezioni. Ero io che portavo rispetto all’istituzione più importante nel paese della mia famiglia. Il mio lavoro è fare il calciatore, non fare politica, e il nostro incontro non fu un atto di sostegno ad alcuna politica. Parlammo della stessa cosa di cui abbiamo parlato ogni volta che ci siamo incontrati – il calcio – e del fatto che anche lui fu un calciatore da giovane.

Nonostante i media tedeschi abbiano descritto le cose in maniera differente, la verità è che non incontrare il presidente sarebbe stato un atto irrispettoso verso i miei antenati, che so sarebbero orgogliosi di dove sono oggi. Per me non importava chi fosse il presidente, importava che lì ci fosse il presidente, e basta. Avere rispetto per i ruoli politici è una cosa che sono sicuro che sia la Regina che la prima ministra Theresa May condividano quando Erdogan fa loro visita a Londra. Sia che fosse stato il presidente tedesco o quello turco, le mie azioni non sarebbero state diverse.

So che questo potrebbe essere difficile da capire, visto che nella maggior parte delle culture il leader politico non può essere separato dalla persona. Ma in questo caso è diverso. Qualsiasi risultato fosse uscito dalle ultime elezioni, o da quelle prima delle ultime, mi sarei comunque fatto scattare la foto.

Sono un calciatore che ha giocato in tre dei campionati più difficili al mondo. Sono stato fortunato a ricevere grande sostegno dai miei compagni e dallo staff tecnico mentre giocavo in Bundesliga, nella Liga e nella Premier League. E in più, in tutta la mia carriera, ho imparato a trattare con i media.

Molte persone parlano delle mie prestazioni, molti applaudono e molti criticano. Se un giornale o un opinionista trova delle mancanze nel mio gioco, lo posso accettare: non sono un giocatore perfetto e questo spesso mi motiva a lavorare e ad allenarmi più duramente. Ma quello che non posso accettare sono i giornali tedeschi che danno la colpa alla mia doppia origine e a una semplice foto per un cattivo Mondiale di tutta la squadra.

Certi giornali tedeschi stanno usando le mie origini e la foto con il presidente Erdogan come propaganda di destra per rafforzare la loro causa politica. Per quale altro motivo dovrebbero usare le foto e i titoli su di me come spiegazione diretta per la nostra sconfitta in Russia? Non criticano le mie prestazioni, non criticano nemmeno le prestazioni della squadra, criticano solo la mia discendenza turca e la mia istruzione. Questo supera una linea personale che non dovrebbe mai essere oltrepassata, e i giornali stanno provando a rivoltare la nazione tedesca contro di me.

Quello che trovo deludente è il doppio standard che hanno i media. Lothar Matthaus (capitano onorario della nazionale tedesca) si incontrò con un altro leader mondiale pochi giorni prima e non ricevette alcuna critica dai media. Nonostante il ruolo che ricopre all’interno della DFB (la nazionale tedesca), non gli chiesero di spiegare pubblicamente le sue azioni e lui ha continuato a rappresentare i giocatori della Germania senza che gli fosse rivolto alcun rimprovero. Se i media pensavano che io avessi dovuto lasciare la nazionale ai Mondiali, allora a lui avrebbero dovuto togliere l’onorificenza di capitano onorario, o no? Sono le mie origini turche a rendermi un obiettivo più valido?

Ho sempre pensato che una “partnership” implicasse il fatto di sostenersi, sia durante i momenti buoni che nelle situazioni dure. Ho finanziato un progetto perché i bambini immigrati, bambini provenienti da famiglie povere e non, potessero giocare a calcio insieme e imparare le regole sociali della vita. Ma giorni prima dell’avvio del progetto sono stato abbandonato da quelli che erano i miei “partner”, che non volevano più lavorare insieme a me. Inoltre la scuola ha detto ai miei collaboratori che non mi volevano più lì, perché avevano paura di quello che avrebbero potuto fare i media con la mia foto con il presidente Erdogan, specialmente con la destra in ascesa a Gelsenkirchen [la città tedesca dove è nato Özil]. Questo mi ha davvero ferito. Nonostante fossi stato un loro studente quando ero giovane, mi sono sentito indesiderato e indegno del loro tempo.

Inoltre ho rinunciato a un altro partner. Visto che sono anche uno sponsor della DFB, mi avevano chiesto di prendere parte a video promozionali dei Mondiali. Ma dopo la mia foto con il presidente Erdogan mi hanno escluso dalla campagna e hanno cancellato tutte le attività promozionali che erano state fissate. Per loro non era più una buona cosa essere visti con me e hanno definito la situazione “crisi gestionale”. Tutto questo è ironico, perché un ministro tedesco ha detto che i prodotti promozionali sarebbero stati ritirati. Ma nonostante fossi stato criticato e mi fosse stato chiesto chiesto di giustificare le mie azioni dalla DFB, non mi fu mai chiesta alcuna spiegazione ufficiale e pubblica dallo sponsor della DFB. Perché? Faccio bene a pensare che questo sia peggio di una fotografia con il presidente del paese della mia famiglia? Cosa ha da dire la DFB su tutto questo?

E come ho già detto, i “partner” dovrebbero rimanere vicini in ogni situazione. Adidas, Beats e BigShoe sono stati estremamente leali ed è stato incredibile lavorarci insieme. Hanno superato le polemiche senza senso create dalla stampa tedesca e hanno continuato a sviluppare i nostri progetti in maniera così professionale che mi è davvero piaciuto farne parte. Durante i Mondiali, ho lavorato con BigShoe e ho aiutato 23 bambini a sottoporsi a operazioni di enorme importanza in Russia, cosa che avevo già fatto in precedenza in Brasile e in Africa. Questa per me è la cosa più importante che faccio come giocatore di calcio, ma i giornali non trovano spazio per parlare e sensibilizzare su temi di questo tipo. Per loro il fatto che venga fischiato e che faccia una foto con un presidente è più importante che aiutare i bambini a sottoporsi a operazioni chirurgiche in diverse parti del mondo. Anche loro hanno diversi modi di aumentare la consapevolezza e raccogliere fondi, ma scelgono di non farlo.

La cosa che mi ha frustrato di più negli ultimi due mesi è stato il trattamento che ho subìto dalla DFB e in particolare dal presidente della DFB, Reinhard Grindel. Dopo che uscì la mia foto con il presidente Erdogan, chiesi a Joachim Low [allenatore della nazionale di calcio tedesca] di accorciare le mie vacanze e andare a Berlino per elaborare e diffondere un comunicato congiunto per mettere fine a tutte le speculazioni e chiarire le cose. Nonostante cercassi di spiegare a Grindel i miei valori culturali, le mie origini e quindi le ragioni dietro alla foto, lui si mostrò molto più interessato a parlarmi delle sue visioni politiche e sminuire la mia opinione. Nonostante le sue azioni fossero state paternalistiche, fummo d’accordo che la cosa migliore era quella di concentrarsi sul calcio e sui Mondiali che stavano arrivando. Questo è il motivo per cui non partecipai alla giornata dei media della DFB durante le fasi preparatorie dei Mondiali. Sapevo che i giornalisti mi avrebbero attaccato, parlando di politica e non di calcio, anche se l’intera questione era stata considerata finita da Oliver Bierhoff [ex calciatore e oggi team manager della nazionale di calcio tedesca] in un’intervista televisiva fatta prima della partita contro l’Arabia Saudita a Leverkusen.

Durante quel periodo mi incontrai anche con il presidente della Germania, Frank-Walter Steinmeier. A differenza di Grindel, il presidente Steinmeier fu professionale e sinceramente interessato a quello che avevo da dire sulla mia famiglia, sui miei valori e sulle mie decisioni. Ricordo che l’incontro fu solo tra me, Ilkay [İlkay Gündoğan, calciatore tedesco di origine turca, centrocampista del Manchester City e della nazionale tedesca] e il presidente Steinmeier, con Grindel che si era agitato per non avere avuto la possibilità di promuovere i suoi interessi politici. Mi accordai con il presidente Steinmeier sul fatto di diffondere un comunicato congiunto sulla questione, in quello che doveva essere un altro tentativo di andare avanti e concentrarsi solo sul calcio. Ma Grindel era risentito che non fosse stato il suo team a diffondere il primo comunicato, e seccato che l’ufficio stampa di Steinmeier avesse preso la guida di tutta questa storia.

Dopo la fine dei Mondiali, Grindel è stato messo molto sotto pressione riguardo alle decisioni che aveva preso prima dell’inizio del torneo, e giustamente. Di recente, ha detto pubblicamente che avrei dovuto spiegare ancora una volta le mie azioni e mi ha dato la colpa dei risultati insoddisfacenti della nazionale in Russia, nonostante a me avesse detto a Berlino che era una storia già finita. Sto parlando ora non per Grindel, ma perché lo voglio. Non ho più intenzione di fare il capro espiatorio per la sua incompetenza e incapacità di fare bene il suo lavoro. So che mi voleva fuori dalla nazionale dopo quella foto, ed espresse pubblicamente la sua posizione su Twitter senza nemmeno ragionarci troppo o parlarne, ma Joachim Low e Oliver Bierhoff presero le mie parti e mi difesero. Agli occhi di Grindel e dei suoi sostenitori, sono tedesco quando vinciamo, ma quando perdiamo sono un immigrato. Questo perché, anche se pago le tasse in Germania, dono strutture alle scuole tedesche e vinco i Mondiali con la Germania nel 2014, non vengo ancora accettato nella società. Sono sempre stato considerato “differente”: nel 2010 ricevetti il “Bambi Award” come esempio di integrazione di successo nella società tedesca, nel 2014 ricevetti un “Silver Laurel Leaf” dalla Repubblica federale di Germania e nel 2015 fui “Ambasciatore tedesco del calcio”. Ma non sono tedesco? Ci sono criteri per essere pienamente tedesco che non soddisfo? Il mio amico Lukas Podolski e Miroslav Klose non vengono mai descritti come polacco-tedeschi, perché invece io vengo definito come turco-tedesco? È perché si parla di Turchia? Perché sono musulmano? Penso che il punto sia qui. Se si parla di turchi-tedeschi si stanno già distinguendo le persone che hanno una famiglia che proviene da più di un paese. Io sono nato e mi sono istruito in Germania, quindi perché le persone non accettano che sono tedesco?

Le idee di Grindel si possono trovare anche da altre parti. Bernd Holzhauer (un politico tedesco) mi definì “goat-f*ker [espressione molto offensiva nei confronti dei musulmani, che non ha un equivalente italiano] a causa della mia foto con il presidente Erdogan e per le mie origini turche. Werner Steer, amministratore delegato del teatro tedesco di Monaco, mi disse di levarmi di torno e andare in Anatolia, il posto in Turchia da cui partono molti immigrati. Come ho già detto prima, criticarmi e maltrattarmi a causa delle mie origini è una linea vergognosa da superare, e usare la discriminazione come strumento di propaganda politica è qualcosa che dovrebbe portare immediatamente alle dimissioni di quegli individui irrispettosi. Queste persone hanno usato la mia foto con il presidente Erdogan come un’opportunità per esprimere le loro tendenze razziste che in precedenza avevano nascosto, e questo è pericoloso per la società. Non c’è niente di meglio che il tifoso tedesco che dopo la partita contro la Svezia mi disse, “Ozil, verpiss, Dich Du scheiss Türkensau. Türkenschwein hau ab”, più o meno “Ozil, fottiti merda turca, togliti dalle palle maiale turco”. Non voglio nemmeno citare le e-mail di odio, le telefonate piene di minacce e i commenti sui social media che la mia famiglia e io abbiamo accettato. Tutto questo rappresenta una Germania del passato, una Germania non aperta a nuove culture, e una Germania di cui non sono orgoglioso. Sono fiducioso che molti tedeschi orgogliosi che vogliono una società aperta saranno d’accordo con me.

Riguardo a te, Reinhard Grindel, sono deluso ma non sorpreso dalle tue azioni. Nel 2004, quando eri un membro del Parlamento tedesco, dicesti che il “multiculturalismo è in realtà un mito e una eterna bugia”, votasti contro una legge per la doppia nazionalità e per punire la corruzione, e dicesti che la cultura islamica era diventata troppo radicata in molte città tedesche. Questo è imperdonabile e non si può dimenticare.

Il trattamento che ho ricevuto dalla DFB e da molti altri mi ha portato a decidere di non volere più indossare la maglia della nazionale tedesca. Mi sento non voluto e penso che quello che ho raggiunto fin dal mio esordio internazionale nel 2009 sia stato dimenticato. Persone con idee così razziste e discriminatorie non dovrebbero poter lavorare nella più grande federazione calcistica al mondo, che ha molti giocatori con famiglie con doppia origine. Atteggiamenti del genere semplicemente non riflettono i giocatori che in teoria queste persone dovrebbero rappresentare.

È con enorme dispiacere che annuncio quindi che a causa degli eventi recenti non giocherò più per la Germania a livello internazionale, almeno finché sentirò di subire atteggiamenti razzisti e irrispettosi. Indossavo la maglia tedesca con grande orgoglio ed entusiasmo, ma ora non più. È stata una decisione estremamente difficile da prendere, perché ho sempre dato tutto ai miei compagni di squadra, allo staff tecnico e alle brave persone della Germania. Ma visto che gli alti funzionari della DFB mi hanno trattano in questo modo, offendendo le mie origini turche e trasformandomi in maniera egoistica in uno strumento di propaganda politica, allora basta. Non è per questo che gioco a calcio, e non rimarrò seduto a fare niente. Il razzismo non dovrebbe mai, mai essere accettato.

Caro Macron, non ci servono eroi. Grazie. Noi parliamo di diritti

La scena è degna di un film d’azione ed è normale che circoli virale sulle pagine Facebook: Mamoudou Gassama, 22 anni nato in Mali e illegalmente entrato in Francia dopo una disperata traversata del Niger e  dopo l’inferno della Libia, si è arrampicato sui balconi di un palazzo di Parigi per salvare un bambino di 4 anni, lasciato solo in casa dai genitori, che si teneva al bordo penzolando nel vuoto. Il salvataggio eclatante, il facile paragone con Spiderman e il morboso bisogno di Macron di ripulirsi splendere di fronte all’opinione pubblica hanno fatto il resto: ora Mamoudou è cittadino francese, il capo di Stato francese gli ha addirittura proposto un posto di lavoro nei vigili del fuoco, “gli eroi di ogni giorno”, ha detto Macron. Eroi dappertutto.

Eppure la favola non ha nulla a che vedere né con l’accoglienza, né con i doveri dell’Occidente e nemmeno con la sdolcineria che vorrebbe rivendersi come solidarietà. L’Europa ha il dovere di accogliere i disperati del mondo per quello che non hanno, per quello che non hanno potuto avere e per i talenti che non hanno mai potuto coltivare. Non gli eroi ma i cenci, quelli che alzano le mani sulla battigia dicendo “eccomi, sono qua, non so fare niente, non sono niente” rendono l’Europa quello che avrebbe dovuto esserequello che avrebbe voluto essere. La superiorità dell’Occidente, tutta declamata nei trattati firmati e nelle convenzioni mai rispettate sui diritti degli uomini, si pratica nel momento in cui si tende la mano a qualcuno non perché utile ma proprio perché inutile, reso inutile, da una storia di prevaricazioni e predoni che sono soprattutto europei.

Premiare gli eroi è una farsa. Farsi riempire la pancia da un eroe per caso mentre sulle Alpi l’inverno ha ghiacciato i corpi di illegali come Mamoudou che avrebbero voluto entrare in Francia è una miopia che non ci possiamo permettere. Questi anni potrebbero avere annegato, bruciato o congelato straordinari pittori, ottimi padri di famiglia, talentuosi carrozzieri, geniali matematici, bravi ingegneri, professionalissimi camerieri, onesti operai, fondamentali badanti, lucidissime giornaliste o qualsiasi altra cosa. Non stiamo parlando di persone che hanno dimostrato di non valere (nonostante la gazzarra xenofoba che prova a descriverli tutti delinquenti, smentita dai numeri): parliamo di persone che non hanno l’occasione di sopravvivere.

Non ci servono eroi, grazie.

Buon martedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/05/29/caro-macron-non-ci-servono-eroi-grazie-noi-parliamo-di-diritti/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Chi non sa parlare di diritti può solo provare a toglierli

Ogni discussione sui diritti, qualsiasi diritto, è interessante perché più di tutto racconta le persone che ne parlano. C’è chi li difende a spada tratta, con la mente e il cuore larghissimi, consapevole che un diritto non può mai fare male se non va a ledere quelli degli altri. Sono persone che profumano di buono, di solito: di quel buono che qualcuno vorrebbe mandare fuori moda e invece è il profumo della compassione, dell’essere capaci di patire insieme anche i patimenti che ci appaiono più distanti.

Poi ci sono quelli convinti che cedere un diritto a qualcuno sia un loro nuovo dovere o una pericolosa innovazione. Di solito sono coloro che non hanno chiaro che spesso i diritti sono quelli degli altri poiché se c’è il bisogno di stabilirli è perché riguardano una minoranza che altrimenti difficilmente potrebbe avere voce. Spesso gli oppositori ai diritti (degli altri) hanno bisogno di capire, imparare ad ascoltare e essere ascoltati. È comunque una bella sfida per chi crede nel dialogo. Sempre.

Poi ci sono quelli che di diritti non sanno proprio parlare: non lo sanno fare perché sono assolutamente incapaci di elaborare soluzioni e allora fremono nel distruggere quelle proposte dagli altri. Non sanno parlare di diritti perché sono incapaci di capire, imparare ad ascoltare e essere ascoltati e allora preferiscono suonare le corde peggiori rinunciando a parlare all’intelligenza o al sentimento e preferendo fare il solletico ai tendini, allo stomaco o agli organi più banali dei loro elettori. E siccome non sanno parlare di diritti provano a farsi notare proponendo di togliere quelli esistenti, giusto per farsi notare, solo per alzare un po’ di polvere.

Ieri Salvini, Meloni e compagnia cantante hanno esagerato (al solito) con la becera propaganda e hanno proposto (prima di fare una timida marcia indietro) di togliere le unioni civili. In parole povere: hanno proposto di cancellare famiglie che già esistono.

Ed è una tragica comicità. Da irresponsabili.

Buon martedì.

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Se il marito picchia la moglie ogni tanto «non si può parlare di maltrattamenti in famiglia»

(Notizie dal Medioevo contemporaneo. Se non sei stata ammazzata non sei nessuno, femmina!)

Nella sua requisitoria, il pubblico ministero aveva sottolineato le «continue aggressioni fisiche» e le «umiliazioni morali» che la donna era stata costretta a subire. Aveva parlato di calci, pugni e schiaffi, di lancio di oggetti e di offese quasi quotidiane. Ma al momento della sentenza, il giudice ha stabilito che si era trattato di «atti episodici» avvenuti in «contesti particolari» e non in grado di causare nella vittima «uno stato di prostrazione fisica e morale». E ha aggiunto che non ci sarebbero stati «atti di vessazione continui tali da cagionare un disagio incompatibile con normali condizioni di vita». In parole povere, se le aggressioni non sono «frequenti e continue» non si può parlare di «maltrattamenti in famiglia». Soprattutto se non c’è una sopraffazione sistematica della vittima. La quinta sezione penale del Tribunale di Torino ha così accolto la tesi dell’avvocato difensore Vincenzo Coluccio, che assisteva un 41enne disoccupato finito sotto processo con l’accusa di aver maltrattato la moglie per anni.

Referti medici e liti

«Non c’è collegamento — ha spiegato il legale in aula — tra i referti medici portati dall’accusa e le liti o le presunte aggressioni». Tesi che ha trovato conferma nella sentenza pronunciata dal giudice: «Dall’esame della persona offesa e dei testi non è emersa una situazione tale da cagionare un disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita». Risultato: il 41enne imputato è stato assolto, anche in virtù del fatto che le aggressioni sono state ritenute configurabili come «atti episodici» avvenuti in «contesti particolari». E questo anche se la donna, a quanto risulta, è corsa in ospedale nove volte in otto anni perché aveva il naso rotto o una costola incrinata. Però, scrive il Tribunale nelle motivazioni della sentenza, «non tutti gli episodi sono riconducibili ad aggressioni da parte dell’imputato». Episodi che la moglie ha ricollegato genericamente a una lite, ma per i quali non è stata in grado di fornire, a parte per l’ultimo, una descrizione dettagliata. «Tali fatti non paiono perciò riconducibili, proprio perché traggono origine da situazioni contingenti, a un quadro unitario di un sistema di vita tale da mettere la vittima in uno stato di prostrazione fisica e morale». I litigi in casa erano all’ordine del giorno e anche la donna si scagliava a volte contro il marito. Tant’è che sia i figli della coppia sia i vicini di casa non sono stati in grado, in alcune occasioni, di indicare chi tra marito e moglie avesse usato violenza per primo nei confronti del coniuge. L’imputato è stato comunque condannato a sei mesi di reclusione per l’abbandono della casa familiare e per il «mancato contributo al mantenimento dei figli minorenni».

«Sconcerto e preoccupazione»

In una «revisione del giudizio in appello» spera la senatrice Francesca Puglisi (Pd), presidente della Commissione parlamentare contro il Femminicidio: «La sentenza del Tribunale di Torino — spiega la parlamentare — suscita sconcerto e preoccupazione. La minimizzazione della violenza all’interno di un rapporto affettivo non solo rischia di pregiudicare la richiesta di giustizia da parte delle vittime, ma costituisce fattore disincentivante rispetto alle istanze di tutela. Fermare la violenza si può e si deve. Spero in una revisione del giudizio in appello».

(fonte)

“Vi racconto l’inferno Ryanair”: parla un pilota

Tanto per capirci. Un articolo da Business Insider:

 

L’acqua. Le altre compagnie te la offrono insieme al cibo. A noi niente. Io mi devo portare la bottiglietta da casa. E se la finisco in volo, sono costretto a comprarmela dal carrello degli assistenti di volo, a tre euro”.

Tra i piloti Ryanair serpeggia qualcosa di più di un semplice mal di pancia: dall’inizio dell’anno 700 di loro (su un totale di 4.058) hanno abbandonato la compagnia gialloblu e sono passati alla concorrenza; oggi un fronte compatto chiede garanzie contrattuali mentre, appena al di sotto delle nubi nere, c’è il rischio del primo sciopero continentale.

Un primo ufficiale – che chiameremo Andrea, per garantirne l’anonimato – ha spiegato a Business Insider Italia come funziona il lavoro nell’azienda irlandese e perché molti colleghi se ne sono andati (e altri minacciano di farlo).

Il caso della bottiglietta d’acqua è soltanto la punta dell’iceberg di una situazione più complessa.

Andrea lavora in Ryanair da un anno e mezzo ed è di base in uno degli 86 aeroporti europei della compagnia low cost. Ha frequentato un’accademia aeronautica in un Paese europeo (che non menzioniamo perché lo potrebbe rendere identificabile), poi il colloquio di lavoro in Irlanda e il corso di abilitazione (a spese proprie, per la modica cifra di 29.500 euro) per portare uno dei 427 Boeing 737 del vettore irlandese.

La maggior parte dei piloti non è dipendente: si tratta, di fatto, di liberi professionisti che si raggruppano in piccole società e che prestano il proprio servizio a Ryanair. Alla fine vengono pagati in base alle ore di volo effettuate. Andrea è uno di questi.

Il mercato dell’aviazione è in forte crescita – ci spiega – e negli ultimi dieci anni non è mai stato così aperto.Molte compagnie hanno bisogno di piloti con esperienza e li vanno a cercare proprio in Ryanair, che è la più grande d’Europa. Il punto è che Ryanair non fa nulla per trattenerli e le altre compagnie offrono condizioni migliori: dallo stipendio ai diritti su malattie e riposi, dai benefit alla possibilità di fare carriera”.

Ed è quello che sta succedendo: dal primo dell’anno, solo in Norwegian, sono passati 170 piloti Ryanair. E altri hanno un piede già fuori dalla porta (o dalla cabina).

Molti comandanti stanno volando in Cina alla Xiamen Airlines – continua Andrea – oltre al salario più alto, ti danno una casa e un’automobile. Se ti trasferisci con la famiglia, trovano un lavoro alla moglie e pagano l’educazione ai figli in scuole internazionali di livello”.

Leggi anche: Un ex pilota Ryanair scappato in Cina: ‘Qui guadagno 5 volte di più ma non è un bene per l’Italia’

Quindi non è vero, come hanno affermato ufficialmente da Ryanair, che la cancellazione dei voli da qui al 28 di ottobre (1976, in totale, per un costo a carico dell’azienda di circa 30 milioni di euro) è dovuta a una cattiva gestione delle ferie dei piloti?

La verità è che Ryanair ci sta facendo girare le palle con questa storia, perché scarica su di noi la responsabilità di quello che sta accadendo. Le ferie non sono mai state un problema. Il problema, in realtà, è che mancano piloti”.

E a proposito di ferie: è prassi comune che la compagnia irlandese chieda ai propri piloti di rinunciare a vacanze e permessi per tappare i buchi.

Stamattina mi hanno chiamato alle 4 per sostituire un collega che si è sentito male. L’assurdità è che, a conti fatti, non conviene dare la propria disponibilità. Per legge non possiamo volare più di 900 ore all’anno. Se in un mese rinuncio ai giorni di riposo, dovrò lavorare meno il mese successivo per non sfondare il tetto massimo di ore di volo. Alla fine, però, guadagno la stessa cifra, perché il lavoro svolto nei giorni di riposo o di ferie non viene considerato come servizio straordinario, ma viene pagato secondo le normali tariffe”.

Senza contare che fare il pilota è stressante, soprattutto dal punto di vista mentale, e che staccare dalla cloche è necessario.

“L’ultima presa in giro”, secondo Andrea, riguarda l’offerta di bonus inviata ieri a tutti i piloti e firmata dal chief operations officer, Michael Hickey: 12mila euro ai comandanti e 6mila euro ai primi ufficiali per rinunciare ai permessi delle prossime settimane.

È un’esca scritta in modo intelligente e qualcuno ci cascherà – ammette con rabbia Andrea – nessuno dice però che per ricevere i bonus bisogna soddisfare sei requisiti. Su tutti: lavorare per Ryanar fino al 31 ottobre 2018, aver volato almeno dieci giorni tra quelli di riposo e cinque nel periodo di congedo annuale. Ma siamo così sicuri che l’azienda ti permetterà di soddisfarli prima che scada il termine ultimo per ottenere i bonus?”.
“Non hanno chiaro – conclude Andrea – che senza piloti e assistenti di volo, gli aerei non decollano. Che passeggeri e management non possono portare l’aereo. Molti di noi si stanno chiedendo: ‘Chi ce lo fa fare di restare qui?’. Perché, in definitiva, valiamo di più di così”.

Per andare al di là delle “cariche”: il racconto di Francesca Fornario

Francesca Fornario è un’amica e in questi giorni convulsi sullo sgombero di piazza Indipendenza ha scritto un pezzo che vale la pena leggere. Ah. Lei era lì. Tanto per capirsi:

Devono sparire, peggio per loro. Se tirano qualcosa spaccategli un braccio“, grida il poliziotto durante lo sgombero. Il bilancio delle cariche a piazza Indipendenza sarà infatti di piedi e nasi rotti, lividi che passeranno e ferite che no, perché si cancella il sangue dall’asfalto ma non il segno che lascia assistere, da bambino, alle manganellate inflitte a tuo padre dai poliziotti armati che irrompono in casa all’alba (è questo che ricorderanno le decine di bambini portati via a forza dallo stabile in cui vivevano da cinque anni).

E tutti, sui social, a prendere le parti, convinti da una narrazione giornalistica sciatta e in malafede che le parti in campo fossero poliziotti contro migranti, “Che però uno ha lanciato una bombola del gas”. “Che però era vuota”. Convinti che tra loro vadano cercati i violenti. Le testimonianze dei presenti circolano secondo la risonanza che trovano: “Ma quella donna l’hanno sbattuta a terra con l’idrante e poi le usciva il sangue dal naso e da un’orecchio!” (commento su Facebook). “La carezza del poliziotto a una migrante disperata” (home page di Repubblica).

A piazza indipendenza io c’ero. Avrei potuto scrivere ieri di quello che ho visto, ho preferito scrivere oggi di quello che so, perché temo che si scriva solo degli effetti e non delle cause; solo della violenza in piazza – raccontata con parole sbagliate: “gli scontri”, che in realtà sono cariche, una parte armata ne carica una disarmata – e non, invece, della violenza più impetuosa e virulenta che innesca le cariche, generando l’esclusione sociale che porta alle occupazioni abusive e agli sgomberi.

Il termine “violenza” ha, sul vocabolario, due sfumature di senso. Violenza è la furia aggressiva delle cariche e dei manganelli, quella di quando chi la esercita e chi la subisce vengono immortalati nella stessa inquadratura, consentendo a chi commenta la foto sui social di discettare su chi ha aggredito chi. Ma questa violenza di piazza non esisterebbe senza quell’altra, più esecrabile perché esercitata da chi avrebbe il compito di “rimuovere gli ostacoli che limitano l’uguaglianza tra i cittadini e impediscono il pieno di sviluppo della persona”, come recita la Costituzione. La violenza dei poliziotti non si abbatterebbe sui profughi, sugli studenti, sui lavoratori in sciopero se non fosse preceduta dalla violenza dei governanti: dall’abuso, la prevaricazione, la violazione del diritto. “Violenza” è violare la Costituzione che contempla la casa e il lavoro tra i diritti fondamentali – come il diritto dell’esule a ricevere protezione – bloccando l’assegnazione delle case popolari e sbloccando le concessioni edilizie ai palazzinari.

Violenza è la prevaricazione dei molto ricchi sui molto poveri, il privilegio metodicamente concesso per legge ai più facoltosi, anche tra gli immigrati: gli stranieri con grandi patrimoni vengono invitati a stabilire in Italia la residenza godendo di un formidabile sconto sulle tasse per poter fare la bella vita; gli stranieri senza grandi patrimoni vengono respinti nei paesi dai quali fuggono per sopravvivere. Questa violenza feroce non si accanisce solo sui migranti ma sui poveri in genere, perché il potere – a differenza dei poveri cristi che umilia e perseguita – non è razzista: è classista. Agli sceicchi arabi le istituzioni destinano lo scudo, ai profughi eritrei il manganello, a chi costruisce ville abusive lo scudo e ai senza tetto che occupano uno stabile abbandonato il manganello.

Mai il contrario: avete mai visto la polizia caricare i banchieri che truffano i pensionati o pestare gli industriali che sfruttano i lavoratori? “Creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso”, recita una sentenza della Corte costituzionale (n. 217 del 25 febbraio 1988).

Questo “diritto inviolabile all’abitazione” viene invocato per il miliardario che non paga tasse sulla prima casa e calpestato per l’esule del quale le istituzioni dovrebbero farsi carico: violato per l’esule sotto protezione come per il cassaintegrato sotto sfratto, per il precario che vive con i genitori perché senza un contratto stabile la banca non concede il mutuo e via elencando le miserie dei miseri che si accaniscono gli uni contro gli altri invece di coalizzarsi per ribellarsi a chi li riduce in miseria.

La violenza andata in scena a Roma – e nel resto del Paese – è questa. La sistematica difesa del privilegio, il pervicace oltraggio del diritto. Sono queste le cause dell’emergenza abitativa che  – come ho scritto qui – non è un’emergenza: non è un accidente imprevisto ma è il frutto  di precise scelte politiche. È vile prendersela con chi per disperazione ha lanciato una bombola, è troppo comodo prendersela solo con la Polizia. Bisogna condannare i violenti che hanno fermato l’assegnazione delle case popolari esistenti e impedito che se ne costruissero di nuove con fondi già destinati e su aree pubbliche di piccole dimensioni perché “Siamo contro il consumo di suolo” e, contemporaneamente, hanno accordato ai privati il permesso di cementificare 20 ettari di suolo per costruire lo stadio.

Con i violenti che tolgono un tetto sopra la testa a decine di famiglie per restituirlo a un fondo immobiliare che ne farà un centro commerciale. Con i violenti che hanno scritto e votato una legge concepita allo scopo di respingere gli esuli lasciandoli morire in mare e nelle carceri libiche. Con i violenti che hanno scritto e votato una legge che consentire lo sfruttamento dei richiedenti asilo (è di ieri il caso della cooperativa di Treviso che proponeva alle aziende del territorio ragazzi “gentili, umili, volenterosi, con un’ottima resistenza fisica e che non avanzano alcuna pretesa dal punto di vista retributivo, professionale o di turnazione” disposti ad accettare una paga di 400 euro al mese), ultima di molte leggi violente scritte per consentire lo sfruttamento di tutti i lavoratori.

I violenti sono quelli che mandano in pensione a 68 anni un metalmeccanicoche lavora all’altoforno – condizione che determina una riduzione dell’aspettativa di vita di sette anni – e non ci mandano affatto un precario. Sono quelli che poi mandano la polizia a caricare migranti, metalmeccanici e precari. “Devono sparire”, ha detto ai suoi il poliziotto riferendosi ai rifugiati, come direbbe un netturbino diligente dei mozziconi di sigaretta. La violenza delle manganellate contro gli inermi è l’inevitabile conseguenza del reagire alla povertà come si reagisce allo sporco sui marciapiedi, trattando gli esseri umani peggio delle cose: picchiando i primi per proteggere le seconde.

Le manganellate, quando si affida la gestione del disagio abitativo a persone armate di manganello, non sono un incidente. La violenza non è un incidente. È il nuovo – vecchissimo – imperativo morale del potere. Dopo il fascismo, avevamo scritto una Costituzione che aveva tra gli scopi più nobili quello di combattere le disuguaglianze e la povertà. L’abbiamo tradita per combattere i poveri. Con una furia che oltre che ignobile è demenziale: dopo 20 anni di leggi e politiche che hanno diligentemente concesso sconti e agevolazioni fiscali ai ricchi, precarizzato il lavoro, compresso i salari e i diritti, alimentato le speculazioni immobiliari, fermato l’edilizia popolare, tagliato i servizi e l’assistenza mentre si acquistavano cacciabombardieri tornado, i poveri sono triplicati. Sono quasi cinque milioni gli italiani in povertà assoluta, circa otto quelli in povertà relativa, più di dodici quelli che rinunciano alle cure mediche perché non possono permettersele. Gli stessi che hanno votato e scritto le leggi che hanno moltiplicato i poveri, sguinzagliano in strada i poliziotti per farli sparire.

A Roma la polizia è stata schierata contro i profughi senza casa, in difesa del capitale di un fondo immobiliare, a conclusione di un ciclo storico coerente: prima abbiamo invaso e saccheggiato l’Etiopia e l’Eritrea, depredato quei paesi di ogni risorsa, riducendo in schiavitù donne e bambine. Poi abbiamo armato e finanziato il regime di un dittatore sanguinario come Afewerki, accusato dall’Onu di crimini contro l’umanità. Infine, abbiamo sfrattato i profughi etiopi e eritreiche la legge ci impone di accogliere e proteggere (la legge, non il buon cuore) e manganellato quelli che resistevano allo sfratto. Il tutto, da un secolo a questa parte, per accumulare ricchezze nelle mani di pochi sempre più ricchi a scapito dei molti sempre più poveri.
La violenza inferta ogni giorno da chi dovrebbe proteggerci è questa e il razzismo, oggi come allora, è solo il veleno iniettato alle masse attraverso la propaganda mediatica per evitare che ogni povero si accorga che ogni altro povero gli somiglia.

P.s.: Qualche giorno fa, preoccupati per l’attacco alle Ong, abbiamo scritto un appello. Lo abbiamo firmato quasi in quindicimila. Tra i primi, lo hanno condiviso Erri De Luca, Vauro, Michela Murgia, Padre Alex Zanotelli, Tomaso Montanari, Anna Falcone, Alberto Prunetti, Moni Ovadia, Marco Revelli, Livio Pepino, Marta Fana, Christian Raimo, Mauro Biani, Giulio Cavalli, Alessandro Gilioli. Tanti i portavoce di associazioni e le realtà di base impegnate nell’accoglienza, da Filippo Miraglia dell’Arci a Giuseppe De Marzo di Libera; Monica Di Sisto di Stop Tiip e Ceta, Patrizio Gonella di Antigone, Domenico Chionnetti della Comunità Don Gallo, Baobab Experience, l’Ex-Opg occupato di Napoli, la Casa Internazionale delle Donne, Tpo Bologna e Labas occupato, sindacati come Si Cobas, i segretari di molti partiti che mettono la questione sociale tra le priorità: Maurizio Acerbo di Rifondazione, Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana, Giuseppe Civati di Possibile, DeMa: il movimento di Luigi De Magistris, gli europarlamentari de L’Altra Europa, tantissimi comuni cittadini, ricercatori, persone impegnate nell’accoglienza. La nostra preoccupazione non sembra condivisa dalla maggioranza delle persone. Non lo era nemmeno quella dei professori universitari che si opposero a Mussolini rifiutandosi di aderire al Fascismo: furono appena 12 su 1250. Moltissimi altri cambiarono idea, col tempo. 

È qui, vi invito a firmarlowww.progressi.org/iopreferireidino

(fonte)

Non una guerra “tra poveri”: è una guerra ai poveri

Oggi lo scrive meglio di me Ezio Mauro:

Dai casi di cronaca, anche minimi, si ricava il segno dei tempi più che dai manifesti politici, proprio per la spontaneità degli eventi e la meccanica delle risposte da parte del potere pubblico e dell’opinione generale. In questo senso è difficile non trovare un collegamento emotivo, culturale e infine politico tra l’ultimo atteggiamento italiano nei confronti dei migranti sui barconi e le Ong di soccorso (criminalizzate in una vera e propria inversione morale) e lo sgombero degli abusivi dal palazzo nel centro di Roma, a colpi di idrante.

La questione di fondo è che la povertà sta diventando una colpa, introiettata nella coscienza collettiva e nel codice politico dominante, così come il migrante si porta addosso il marchio dell’ultima mutazione del peccato originale: il peccato d’origine. Unite insieme dalla realtà dei fatti e dal gigantismo della sua proiezione fantasmatica, povertà e immigrazione, colpa e peccato recintano gli esclusi, nuovi “banditi” della modernità, perché noi — i garantiti, gli inclusi — non vogliamo vederli mentre agitano nelle nostre città la primordialità radicale della loro pretesa di vivere.

Il fatto è che questi esseri umani ridotti a massa contabile, senza mai riuscire ad essere persone degne di una risposta umanitaria, e ancor meno cittadini portatori di diritti, sono improvvisamente diventati merce politica oltremodo appetibile, in un mercato dei partiti e dei leader stremato, asfittico, afasico. Impossibilitati a essere soggetto politico in proprio, si trovano di colpo trasformati in oggetto della politica altrui, che vede qui, sui loro corpi reali e simbolici, le sue scorciatoie alla ricerca del consenso perduto. Contro di loro si può agire con qualsiasi mezzo, meglio se esemplare. Senza terra e senza diritti, sono ormai senza diritto, i nuovi fuorilegge.

Ci sono due elementi che hanno determinato questo cortocircuito: il primo è il sentimento di incertezza e di smarrimento identitario che è cresciuto nella fascia più fragile, più periferica, più isolata e più anziana della nostra popolazione di fronte all’aumento dell’immigrazione nel Paese. Un sentimento di solitudine a casa propria, di perdita del legame collettivo di un’esperienza condivisa, e quindi di indebolimento comunitario: che è ormai mutato in risentimento, annaffiato e concimato per anni da una predicazione politica selvaggia e irresponsabile, che trae le sue fortune dalla paura dei cittadini più deboli, puntando a infragilirli ancora invece che a emanciparli.

Poi si è aggiunto il secondo elemento, psicopolitico. La sensazione che il mondo sia fuori controllo, che i fenomeni che ci sovrastano — crisi del lavoro, crisi economica, crisi internazionale con gli attacchi dell’Isis — non siano governabili, e che dunque il cittadino sia per la prima volta nella storia della modernità “scoperto” politicamente, non tutelato, nell’impossibilità di dare una forma collettiva alle sue angosce individuali, e nell’incapacità dei partiti, dei governi e degli Stati di trovare politiche che arrivino a toccare concretamente il modo di vivere degli individui che chiedono rappresentanza e non la trovano.

Stiamo assistendo semplicemente — e tragicamente — al contatto e all’incontro tra la domanda politica più spaventata e meno autonoma degli ultimi anni e un’offerta politica gregaria del senso comune dominante, opportunistica, indifferenziata. La prima chiede tutela quasi soltanto attraverso l’esclusione, il respingimento, il “bando”, accontentandosi di non vedere il fenomeno purché le città che abita siano ripulite e i banditi finiscano altrove, non importa dove.

(continua qui)