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Piazza Indipendenza è il simbolo della nuova guerra tra poveri


Non è nemmeno una “guerra tra poveri” ormai: è una guerra ai poveri. Tutti. E anche se i poveri “nostrani” esultano le regole e diritti in realtà stanno saltando anche loro. È il deserto culturale di un’Estate Romana che il vicesindaco Bergamo aveva annunciato in pompa magna come rinascita culturale della capitale e che invece sta fabbricando deserto.
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Su Regeni e sulle ragioni della giustizia

(da minima&moralia)

I diciannove mesi che ci separano dalla sparizione forzata di Giulio Regeni e dal ritrovamento del suo corpo, reso quasi irriconoscibile dalla tortura, hanno visto una mobilitazione inedita da parte della società civile italiana.

L’Italia intera, dal basso, si è stretta solidale attorno alla famiglia Regeni che, a sua volta, ha assunto con coraggio e generosità l’onere di dare voce al dolore, alla rabbia ed allo sdegno degli amici e dei colleghi del loro figlio, inclusi coloro cui una morte prematura, violenta e insensata non ha concesso di incontrarlo in vita, ma che con lui hanno condiviso, a distanza, un’esperienza intellettuale e una visione umanistica del mondo.

Di fronte a questa mobilitazione capillare, immediata e spontanea, che ha coinvolto i grandi comuni e i piccoli centri, il mondo dell’arte, dello sport, della cultura, le università, le società professionali, le scuole, e le tante famiglie che hanno i figli che studiano o lavorano all’estero, il governo italiano e quello egiziano sono stati costretti a permettere alla procura di Roma di indagare sul caso, smantellando uno a uno i tanti depistaggi e i tentativi di diffamazione del ricercatore italiano. Anche una certa stampa, per troppo tempo allineata su tesi complottistiche, alla ricerca dello scoop, dovrebbe arrendersi all’evidenza schiacciante dei fatti.

Come scrisse Andrea Teti – uno degli autori di questo testo e della lettera al Guardian del 6 febbraio 2016, firmata da migliaia di professori in tutto il mondo: “È questa sua normalità l’aspetto più difficile da comprendere del caso di Giulio Regeni: normale la ricerca, normali i metodi, normali le analisi.” Quello che non è normale è il suo assassinio. La società civile lo ha capito fin dal primo giorno.

Non sorprende, dunque, che questa società civile abbia accolto con molto sgomento l’annuncio del governo italiano, alla vigilia di Ferragosto, del ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo, che di fatto ufficializzerebbe la normalizzazione dei rapporti tra i due paesi.

In quanto esperti di politica internazionale e ricercatori con forte esperienza sul campo in Egitto, esprimiamo i nostri profondi dubbi intellettuali, morali e politici sulle spiegazioni offerte dal governo italiano per il ritorno dell’ambasciatore al Cairo. Non crediamo che il ritorno dell’ambasciatore italiano – sia pure una figura autorevole come Cantini – possa contribuire a un cambiamento di atteggiamento da parte del governo egiziano per far luce sulla straziante vicenda di Giulio Regeni. La scelta di far rientrare il nostro rappresentante diplomatico, senza aver ottenuto una reale collaborazione nella ricerca della verità, non solo significa quasi sicuramente abbandonare le ultime speranze di fare giustizia per Giulio, ma tradisce anche una profonda incomprensione dell’efferato operato del regime egiziano. Inoltre essa mina il tentativo – supposto – di raggiungere obiettivi di stabilità e sicurezza per il nostro Paese.

La decisione del governo è altamente discutibile sia nei modi che nei contenuti. Nei contenuti, perché la ragione data dal Ministro Alfano per il ritorno dell’ambasciatore – l’opportunità di seguire e agire più da vicino la vicenda – è quanto meno poco credibile: la presenza al Cairo del precedente ambasciatore Massari, nonostante la sua esperienza sul campo, la sua credibilità e la sua dedizione, non è certo servita a ritrovare salvo Giulio né a fare chiarezza. Ma la decisione è anche molto discutibile nei modi, sia in quanto rilasciata a ferragosto, sperando evidentemente nella distrazione del pubblico, sia in quanto coincide con il quarto anniversario del massacro di Raba’a al-Adaweyya, in cui centinaia di oppositori alla destituzione del Presidente Morsi vennero massacrati in pieno centro al Cairo. In quel massacro – la strage più violenta nella storia moderna egiziana – vennero uccisi non solo Fratelli Musulmani, ma anche membri della società civile democratica e secolare.

Inoltre, la normalizzazione dei rapporti diplomatici in questo modo ed a queste condizioni è quasi impossibile che ottenga i risultati positivi che i suoi sostenitori pretendono di volere. Al contrario, a nostro avviso, si rischia di indebolire notevolmente la posizione dell’Italia sotto vari punti di vista:

Primo, la reputazione dell’Italia: Il rientro dell’ambasciatore manda un chiarissimo messaggio al popolo ed alla società civile egiziani, e cioè che l’Italia non è disposta a perseguire una seria politica di difesa dei suoi cittadini e dei loro diritti umani, né tantomeno di quelli degli egiziani. Questo inevitabilmente danneggia la reputazione sia dell’Italia che dell’Unione Europea, che si fregiano di essere difensori di diritti umani e valori democratici. Dall’Egitto la società civile segue con attenzione questa vicenda, ben consapevole che essa mette alla prova i princìpi, la coerenza e la credibilità della politica estera italiana.

Secondo, la sicurezza di cittadini e ricercatori italiani in Egitto, nonché della società civile egiziana: Se, come sembra, la scelta del governo segnala una resa nei confronti della vicenda di Giulio Regeni, essa mette direttamente in pericolo sia i ricercatori italiani, sia la comunità italiana in Egitto, che la società civile egiziana. Gli attivisti egiziani, ricordiamo, si sono prodigati e continuano ad esporsi in prima persona per cercare giustizia per Giulio. Quando Giulio venne ritrovato, in Egitto vigeva già una legge che vieta le manifestazioni – eppure, decine di giovani si raccolsero di fronte all’ambasciata italiana per una veglia in memoria di Giulio. Facendo questo, hanno rischiato l’arresto e gli abusi della polizia. Hanno scritto: “È morto come un egiziano”. La madre di Khaled Said, martoriato anche lui dalle forze dell’ordine anni prima, per aver cercato di denunciare poliziotti corrotti ed icona della rivoluzione del 2011, parlò di Giulio come fosse figlio anche suo. Il 25 gennaio di quest’anno – anniversario della scomparsa di Giulio, ma anche della rivoluzione egiziana del 2011 – la memoria di Giulio circolava nei network egiziani, attraverso i social media. Il portale di informazione indipendente, Mada Masr, ha dedicato diversi articoli coraggiosi a Giulio, esponendosi di nuovo a notevoli rischi. Ad una conferenza alla Camera dei Deputati il 3 Febbraio di quest’anno, anniversario del ritrovamento del corpo martoriato di Giulio, la giornalista egiziana Lina Attalah, caporedattrice e fondatrice di Mada Masr e alumna del Collegio del Mondo Unito di Duino, proprio come Giulio, ha affermato: “L’atrocità di questa morte è un grido per tutti noi. Ci urla in faccia, così come ci interpellava il senso di affinità che tutta la sua vita e la sua opera di ricercatore dimostravano a persone come me che si adoperano per i diritti dei detenuti in Egitto. In qualità di giornalisti avevamo il dovere di far luce su quanto era accaduto a Giulio, ma anche far luce su un contesto più ampio e sulle condizioni che hanno portato a questo esito.” Troviamo inaccettabile che tutte queste persone, che con noi e con Giulio condividono una visione del mondo, siano messe in pericolo dall’indifferenza del governo italiano e dell’Unione Europea.

Terzo, la Ragion di Stato: I sostenitori della decisione del governo asseriscono che, per quanto moralmente spiacevole, la vicenda di una singola persona non può avere priorità sugli interessi nazionali. Ma è importante sottolineare che l’interesse nazionale non viene servito da questa decisione, ne viene anzi danneggiato. Questa scelta a nostro avviso non raggiunge e non può raggiungere gli obiettivi di sicurezza posti dal governo e dall’Unione Europea. Come hanno dimostrato le rivoluzioni arabe del 2010-11, la sicurezza senza giustizia sociale e politica è inevitabilmente precaria ed instabile, e destinata a creare pericoli ancora maggiori. Anche la convinzione che il ritorno dell’ambasciatore possa consolidare la posizione geopolitica italiana – in Libia come nei rapporti commerciali con l’Egitto – pare dettata più da ottimistiche speranze che dalla realtà dei fatti. Al contrario, questa normalizzazione diplomatica assume le dimensioni di una controproducente ostinazione a compiacere il regime egiziano sulla base di erronee valutazioni del nostro interesse nazionale.

Quarto, il governo italiano vuole davvero ottenere la verità su Giulio Regeni?: Il dubbio che il governo abbia avuto da sempre poco interesse a premere sull’Egitto per fare luce sulla vicenda c’era sin dall’inizio: tranne il doveroso ritiro della delegazione commerciale che si trovava al Cairo quando venne ritrovato il corpo martoriato di Giulio, il governo si è mosso solo dopo il successo della campagna di mobilitazione della famiglia e della società civile. Lo Stato italiano ha sostanzialmente fatto due soli passi a sostegno della causa di Giulio: primo, sospendere temporaneamente le forniture di parti per gli F-16 egiziani, cosa fatta dal parlamento; e, secondo, ritirare l’ambasciatore, che fino all’annuncio di ieri rimaneva l’unica pressione esercitata dall’esecutivo. Il nostro Paese è il primo partner commerciale europeo dell’Egitto, eppure sanzioni economiche non sono state prese in considerazione. L’ENI è il maggiore produttore di idrocarburi in Libia, ed ha in concessione il grosso giacimento egiziano Zohr, eppure nemmeno questa leva è stata usata. Infine, nessun serio tentativo è stato fatto per portare la questione a livello europeo. I sostenitori della decisione del governo dicono che non avere un ambasciatore era diventata ormai una “pistola scarica” – ma è difficile non trarre la conclusione che il governo quella pistola non l’abbia mai caricata.

Il governo ci ha messi di fronte al fatto compiuto del ritorno dell’ambasciatore al Cairo, asserendo che questa azione fa parte di una strategia sincera per arrivare alla verità. Noi ci auguriamo che sia così, ma come tutte le forze che hanno sostenuto la ricerca di verità e giustizia per Giulio e la sua famiglia, ci riserviamo di osservare da vicino il comportamento del governo nei prossimi mesi. Ci aspettiamo, ad esempio che la presenza dell’ambasciatore ottenga una reale collaborazione dalle istituzioni egiziane. Ci aspettiamo concreti passi in avanti nelle indagini, quali l’invio delle registrazioni video delle stazioni della metropolitana della sera del 25 gennaio, i nomi degli agenti di sicurezza coinvolti nella sorveglianza di Giulio, e l’accesso diretto e rapido a tutti i testimoni che la procura di Roma riterrà opportuno ascoltare.

Stabilità e sicurezza non possono prescindere da verità e giustizia: fare luce sulla vicenda di Giulio non è solo un atto dovuto alla sua famiglia, ma anche una presa di responsabilità internazionale, che contribuirebbe a ripristinare la giustizia e lo stato di diritto in Egitto, aiutando quindi a stabilizzare il Mediterraneo. Del resto, l’ambasciatore Cantini, pur essendo stato nominato dal governo, ha il compito di rappresentare gli interessi del popolo sovrano.

Ci rammarica che tutte le indicazioni fino a questo punto siano andate in senso contrario, suscitando in noi pesanti dubbi. Sarebbe confortante essere smentiti.

In chiusura ricordiamo le parole del nostro collega. Nel 2006, quando aveva appena 19 anni, Giulio rilasciò un’intervista in cui, alla domanda: “Che cos’è la libertà?” rispose: “La possibilità di esprimere te stesso a livello intellettuale all’interno di un sistema sociale capace di supportarti nelle tue scelte”. Proprio questo obiettivo – che era poi l’obiettivo delle rivolte arabe – dovrebbe essere la priorità per il nostro Paese: libertà e giustizia sociale. Questi non soltanto ideali, ma sono anche obiettivi politici nel nostro interesse nazionale. Per questo ci aspettiamo che la richiesta di giustizia e verità per Giulio Regeni e la solidarietà alla sua famiglia si traducano in azioni concrete da parte del governo. A volte può essere vero che la ragion di stato e gli interessi nazionali siano contrari alle vicende dei singoli e della giustizia.

Questo però non è uno di quei casi.

Il 18 agosto 2017,
Roma, Berlino, Sydney, Aberdeen

Lucia Sorbera
Andrea Teti
Gennaro Gervasio
Enrico De Angelis

 

“Nelle carte egiziane ci saranno soltanto bugie“: parla l’avvocato della famiglia Regeni

(da Il Fatto Quotidiano)

“Nelle carte egiziane ci saranno soltanto bugie“. Sono le parole di Ahmed Abdallah, avvocato della famiglia Regeni, dopo l’annuncio del governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo, tra le proteste della famiglia, in seguito ai nuovi atti che l’Egitto ha inviato alla procura di Roma. Intervistato dal Corriere della Sera, Abdallah è intervenuto anche sulla clamorosa rivelazione del New York Times Magazine di “prove esplosive raccolte dall’amministrazione Obama e girate al governo Renzi” sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso in Egitto nel febbraio del 2016: “Mi aspettavo che ci fosse stata una comunicazione tra Roma e Washington, ma adesso vogliamo sapere la verità da entrambi i governi, americano e italiano”. In merito, la fonte del quotidiano americano afferma di non avere “dubbio alcuno che dai documenti che trasmettemmo all’Italia si potesse capire quello di cui eravamo fortemente convinti: che i servizi di sicurezza egiziani fossero responsabili del rapimento e dell’omicidio di Giulio Regeni”, come ha rivelato in un’intervista a Repubblica.

Da una parte i nuovi atti che l’Egitto ha inviato alla procura di Roma, dall’altra le informazioni girate dagli 007 statunitensi a Palazzo Chigi. Gli sviluppi nel caso di Giulio Regeni non convincono Abdallah, presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, ong che offre consulenza ai legali della famiglia del ricercatore ucciso. Così, mentre i giornali egiziani festeggiano il ritorno dell’ambasciatore italiano, l’avvocato avverte: “Non c’è nessuna cooperazione tra gli inquirenti”. “Il procuratore generale Nabil Ahmed Sadek, che dovrebbe garantire la giustizia in Egitto, ha rifiutato finora di consegnarci il fascicolo sull’uccisione di Giulio e ha bloccato ogni tentativo legale di ottenerlo. La famiglia non ha avuto nessuno degli atti”, ha spiegato al Corriere.

“Non sappiamo nemmeno se quelli inviati agli inquirenti italiani siano un riassuntodell’inchiesta oppure gli originali – ha aggiunto Abdallah – sulla base di quello che abbiamo visto sinora, mi aspetto che il fascicolo sia pieno di bugie”. “Abbiamo diversi nomi”, ha spiegato il legale, arrestato il 25 aprile 2016 e rimasto quattro mesi e mezzo in carcere. “Il primo è quello di Sharif Magdi Abdlaal, il capitano della sicurezza di Stato che diede la telecamera per monitorare Regeni al capo del sindacato dei venditori ambulanti. Abdlaal è la stessa persona che ordinò il mio arresto e falsificò le prove contro di me”. Poi c’è il colonnello Mahmoud al Hendy, “che mise i documenti di Giulio nella casa del presunto capo dei gangster accusati di aver rapito il ragazzo”, ha detto nell’intervista al quotidiano di via Solferino. “Entrambi sono potenti e non sono stati incriminati né sottoposti a indagini serie: possono manipolare le prove e minacciare chiunque sia pronto a dire la verità”, ha poi concluso Abdallah.

Verità che l’avvocato della famiglia Regeni chiede anche sui documenti passati dagli Usa al governo Renzi. A far scoppiare il caso, rivelandolo al Nyt, è stato un alto funzionario dell’amministrazione Obama, rimasto anonimo, che ora ha confermato a Repubblica: “Chiedemmo di passare agli italiani quante più informazioni possibili”. E’ una delle persone che ha seguito fin dal primo momento il caso Regeni, “perché ci aveva sconvolto e temevamo che la stessa cosa potesse accadere a un americano”. Gli 007 statunitensi non aprirono un’inchiesta specifica, ha spiegato la fonte, ma raccolsero molto materiale. “Concludemmo che la responsabilità era dei servizi di sicurezza egiziani – ha rivelato – so per certo che le informazioni furono trasmesse via servizi segreti, non per canali diplomatici, e che lo scambio avvenne in diverse occasioni, non in una sola volta. Tutto questo accadde nelle settimane successive al ritrovamento del corpo di Regeni”.

Cosa contenessero esattamente i documenti arrivati a Roma non è dato saperlo. L’alto funzionare ha spiegato a Repubblica della necessità di “proteggere le fonti”. “Per questo non so dire se fu rivelata l’identità dell’unità specifica responsabile della morte di Giulio”. “Ma non ho dubbio alcuno – ha aggiunto – che dai documenti che trasmettemmo all’Italia si potesse capire quello di cui eravamo fortemente convinti: che i servizi di sicurezza egiziani fossero responsabili del rapimento e dell’omicidio di Giulio Regeni. E che quello che era accaduto fosse noto ai livelli più alti dello Stato egiziano”.

Eppure, sulla carta, il lavoro forzato non dovrebbe neanche esistere: i moderni schiavi

Un raccolto andato a male. Una malattia improvvisa. Un prestito che non si riesce a restituire. Un affitto impossibile da fronteggiare. Basta poco, a volte un nonnulla. Si contrae un debito che non si riesce a estinguere e che, anzi, cresce sempre più. E si sprofonda, così, in un tunnel dal quale uscire è spesso impossibile. O dal quale si evade solo con la morte. Una vita in ostaggio, in balia di prepotenze, soprusi, abusi, violenze. Vessati, maltrattati, addirittura rinchiusi in campi sorvegliati da uomini armati. Una vita da “schiavi per debito” che non risparmia ma, anzi, si accanisce sulle fette più vulnerabili della popolazione pachistana: le minoranze (cristiane e indù), i profughi (soprattutto afghani), le donne, i bambini. E che arriva persino a tramandarsi: un debito non saldato si trasmette inesorabilmente da padre a figlio, condannando allo stesso destino di miseria e sofferenza. Un fenomeno, quello degli “schiavi per debito”, massiccio, che restituisce il volto oscuro, atavico, resistente al cambiamento del Pakistan. E che coinvolge un “esercito” sterminato di persone. L’entità del fenomeno sfugge alle statistiche ufficiali. Si teme che questa forma di schiavitù assoggetti qualcosa come 2,3 milioni di persone, su una popolazione complessiva di 191 milioni.

Eppure, sulla carta, il lavoro forzato non dovrebbe neanche esistere. È vietato dalla Costituzione. È stato abolito dal Bonded Labor System, nel 1992. Di fatto però la legislazione non ha scalfito un sistema – quello dei proprietari terrieri da una parte e dell’organizzazione tribale dall’altra – che si regge proprio sullo sfruttamento della manodopera, sulla sistematica violazione dei diritti dei lavoratori. E che coinvolge due settori chiave dell’economia pachistana, vale a dire l’agricoltura e la produzione di mattoni nelle fornaci.

I dati “catturano” l’importanza dei due settori. L’agricoltura oggi rappresenta circa il 25 per cento della ricchezza nazionale, garantisce il 65 delle esportazioni e impiega il 45 per cento dell’intera forza lavoro del Paese. Altrettanto significativo è il contributo dell’industria dei mattoni che rappresenta il 3 per cento del Pil pachistano. Secondo stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro, sull’intero territorio nazionale pachistano sono disseminate tra le 8mila e le 10mila fornaci e vi lavorano circa 1,5 milioni di persone. Nella sola provincia del Punjab, la più popolosa e la seconda più vasta del Paese, ce ne sono 5mila mentre in quella del Khyber Pakhtunkhwa se ne contano circa 400: vi trovano impiego più di mezzo milione di uomini, donne e minori. Il meccanismo sui cui si basa il “lavoro a debito” è semplice, quanto terribile e inesorabile. I lavoratori usufruiscono di prestiti o anticipi.

Dovrebbero essere uno strumento di sopravvivenza, si trasforma ben presto in un cappio che si stringe sempre più. Pagare il debito richiede in media due anni. Ma basta poco – spese impreviste, malattie dei familiari – per non riuscire a ripianarlo. E si finisce stritolati da un meccanismo perverso che incatena a vita. Le storie degli schiavi per debito sono tutte drammaticamente diverse. E tutte drammaticamente uguali: una piccola galleria di orrori quotidiani.

Per vivere Suleman poteva contare su un piccolo campo. La sua era una situazione non certo di privilegio, ma dignitosa. È bastato però un raccolto andato a male per frantumarla. Come tanti, Suleman non ha avuto possibilità di accedere a una forma di credito. L’unica risorsa su cui poteva disporre era la forza delle sue braccia. E la sua ostinazione. Suleman ha contratto un debito. Che non ha potuto ripagare. Da allora non si è più liberato.

Altrettanto drammatica la storia di Saif. A sconvolgere la sua vita la malattia improvvisa della sorella. «I suoi reni – ha raccontato – non funzionavano. Abbiamo cercato di racimolare i soldi necessari per farla curare. Abbiamo venduto il nostro bestiame. Poi abbiamo venduto la nostra proprietà. Poi abbiamo venduto tutto quello che ci restava. Ho contratto un debito di 5mila rupie con il proprietario di una fornace. Pensavo di lavorarci per un periodo limitato di tempo. Quando gli ho detto che volevo partire, il proprietario mi ha risposto: “Hai vissuto in casa mia, hai mangiato il mio cibo. Ora mi devi 11mila rupie. Se le hai, puoi andare. Altrimenti devi tornare al lavoro”». Il dramma di Saif non si ferma qui: «Sono tornato dopo alcuni giorni e mi ha detto che avevo un debito di 30mila rupie. E la cosa è andata avanti ancora e ancora. Ora devo 350mila rupie. E non ho nessuna possibilità di rigare questo debito».

Salima, otto anni, è una dei tanti minori costretti ogni giorno ad affastellare mattoni di argilla, uno in fila all’altro. Tutto il giorno mescola acqua, fango e sabbia: è una “pathera”, una “mattonaia”. A fine giornata il bottino è irrisorio: mille mattoni, due-trecento rupie, qualcosa come 4 euro. Come tutti i bambini ridotti alla schiavitù, è esposta a rischi altissimi. Infortuni. La cecità. La morte. Eppure per Salima oggi una speranza c’è. Un segno che l’intero sistema che intrappola gli “schiavi per debito” può essere combattuto, scalfito. E sconfitto.

(fonte)

Iran: arrestano un quindicenne, lo impiccano l’anno successivo

Per la terza volta dal maggio 2016, si apprende da uno dei report periodici di Nessuno Tocchi Caino, le autorità iraniane hanno programmato l’esecuzione di Alireza Tajiki, arrestato nel 2012 e condannato a morte nel 2013, quando aveva rispettivamente 15 e 16 anni, con l’accusa di aver violentato e poi ucciso un suo amico. Il processo nei suoi confronti è risultato gravemente irregolare, basato prevalentemente su “confessioni” che Tajiki ha denunciato di essere stato costretto a fare sotto tortura e che ha successivamente ritrattato, dichiarandosi innocente dalla prima udienza in avanti. La mattina di tre giorni fa, Tajiki è stato trasferito in isolamento e alla famiglia è stato chiesto di recarsi alla prigione Adel Abad di Shiraz per l’ultimo saluto. Nessuna comunicazione ufficiale è invece arrivata all’avvocato, che secondo la legge dev’essere informato di un’imminente esecuzione con 48 ore di anticipo.

 

Disatteso il diritto internazionale. L’applicazione della pena di morte nei confronti di persone che all’epoca del reato avevano meno di 18 anni è contraria al diritto internazionale. A più riprese le autorità giudiziarie iraniane hanno dichiarato che Tajiki era “maturo” e pienamente consapevole “dell’illegalità dell’atto commesso e della conseguente punizione”. L’Iran è uno dei pochi paesi al mondo che continua a mettere a morte rei minorenni. Amnesty International ha i nomi di almeno 89 condannati a morte in attesa dell’esecuzione per reati commessi quando avevano meno di 18 anni.

(Fonte)

Invisibili e schiavizzati: così in Italia si lucra sui bambini

Il pezzo di Elena Basso per Left:

Con il dossier Piccoli schiavi invisibili, appena pubblicato da Save the children, si fa luce sull’inquietante fenomeno dello sfruttamento di bambini e adolescenti in Italia. Attraverso un’analisi dettagliata dei dati raccolti negli ultimi tre anni e grazie alle parole delle vittime stesse, emerge un approfondito quadro di un fenomeno in crescita: quello dei minori soli, vittime invisibili della tratta. I dati del ministero dell’Interno confermano che il flusso migratorio di minori non accompagnati è in costante crescita: nel 2015 i minori soli sbarcati in Italia sono stati 12.360, nel 2016 invece sono stati ben 25.846 e nei primi mesi del 2017 i migranti arrivati in totale sono 60.228, tra cui 6.156 donne (2.800 nigeriane) e 8.312 minori stranieri non accompagnati.
Nel 2017 i 10 principali Paesi di provenienza dei minori non accompagnati sono: Guinea (14,7%), Bangladesh (14%), Costa d’Avorio (11,8%), Gambia (11,8%), Nigeria (7%), Senegal (6%), Mali (5%), Somalia (5%), Eritrea (4%) e Siria (3%).
Per la maggior parte dei minori non accompagnati, la spirale dello sfruttamento comincia sin dall’inizio della traversata e la parte peggiore solitamente coincide con la prima fase di ingresso in Italia. Spesso le vessazioni e i maltrattamenti hanno inizio sin dalla partenza verso l’Europa e continuano poi ininterrottamente in tutte le fasi della traversata. Nei Paesi di destinazione – Italia, Francia, Spagna, Paesi Bassi – la presenza di mercati illegali favorisce lo sfruttamento dei minori, che viene portato avanti da organizzazioni criminali, attive tanto sul fronte della tratta che in quello del traffico di esseri umani. Per la stragrande maggioranza, le vittime di sfruttamento sono bambini e adolescenti in fuga da guerre, violenza, povertà e crisi umanitarie. Una volta arrivati in Europa, questi ragazzi non trovano canali d’accesso sicuri e legali, e l’unica scelta possibile per loro diventa quella di affidarsi ai trafficanti.
Secondo i dati raccolti dal Dipartimento per le Pari Opportunità, nel 2016 le vittime di tratta inserite in protezione sono state complessivamente 1.172, di cui 107 uomini, 954 donne e 111 minori. Tra i minori, nell’ 84% dei casi si tratta di ragazze (93 femmine e 18 maschi). Il 50,45% è vittima di sfruttamento sessuale, lo 0,9% di minori è coinvolto in matrimoni forzati, il 3,6% nell’accattonaggio, il 5,41% è sfruttato sul lavoro e il 9,91% è coinvolto in azioni illegali come lo spaccio di droga. Più della metà delle vittime è di origine nigeriana (59,5% totale, 67% minori).
Purtroppo a livello nazione e internazionale – si legge nel Rapporto – mancano strumenti adatti a fornire una stima accurata del fenomeno, infatti questi dati non includono la maggioranza delle vittime della tratta che restano fuori dal sistema di protezione nazionale, dato che sono difficilmente raggiungibili dalle istituzioni.

Nel 2016 i minori arrivati via mare dalla Nigeria sono stati 3.040. Secondo il rapporto di Save the children, la maggior parte delle minorenni nigeriane giunte in Italia sono destinate alla tratta: le vittime sono sempre più giovani, povere e scarsamente scolarizzate. Si tratta prevalentemente di ragazze tra i 15 e i 17 anni, con una quota crescente di bambine tra i 13 e i 14 anni. L’adescamento solitamente proviene da persone di loro conoscenza che propongono alle ragazze un lavoro ben retribuito in Europa. Molte ragazze inoltre sono vittime delle cosiddette “Italos”: ex prostitute sopravvissute ad anni di schiavitù in Italia, tornate in Nigeria vantando successi e promuovendo l’idea di intraprendere il viaggio verso l’Europa. Le bambine e ragazze nigeriane solitamente arrivano in Europa attraverso un viaggio che prevede questo percorso: Kano (Nigeria), Zinder (Niger), Agadez (Niger), Dirkou (Niger), Sabha (Libia) e Tripoli (Libia). Da Tripoli spesso le vittime vengono spostate verso i porti libici di Zuara, Zarzis e Sabratah. Le ragazze vengono solitamente vendute durante il passaggio dal Niger alla Libia: qui cominciano ad essere sfruttate sessualmente in case chiuse fino a quando non avranno guadagnato abbastanza da poter pagare ai trafficanti l’oneroso viaggio verso l’Italia. Chi rifiuta di prostituirsi viene vessata e picchiata, e i trafficanti cominciano ad estorcere denaro ai parenti rimasti in Nigeria. Per evitare violenze ed estorsioni verso di loro e dei parenti rimasti nel paese d’origine, le ragazze, anche una volta giunte in Italia, lavorano in condizioni di schiavitù per lunghi periodi di tempo: dai 3 ai 7 anni. La vita di strada lascia segni fisici e traumi psicologici che difficilmente le vittime riescono a superare.

Le ragazze rumene rappresentano il secondo gruppo più numeroso nella prostituzione per strada, che avviene sia nei centri cittadini sia in zone periferiche ad un prezzo che si aggira intorno ai 50 euro. Nonostante nel 2015 la Romania sia stato uno dei Paesi europei in maggiore crescita, non c’è stata un’equa distribuzione della ricchezza fra la popolazione e quindi molte ragazze disoccupate decidono comunque di emigrare. Molte di loro diventano vittime della tratta e dello sfruttamento: la maggioranza hanno tra i 16 e 17 anni e provengono da contesti molto poveri e da aree marginali del Paese, da distretti come Bacau, Galati, Braila, Neamt e Suceava. Le minori provengono spesso da orfanotrofi oppure sono affidate a terzi, e in assenza di una figura genitoriale sono soggetti estremamente facili da manipolare e da convincere. Le ragazze in Romania vengono spesso adescate da amiche coetanee o uomini adulti che si guadagnano la loro fiducia, dando loro la speranza di poter abbandonare il contesto di assoluta povertà in cui vivono con la promessa di avere un lavoro ben retribuito e un futuro migliore in Europa. Solitamente il viaggio viene pagato dal fidanzato, le ragazze raggiungono l’Italia con mezzi privati e una volta arrivate vivono in appartamenti abitati da connazionali. Gli sfruttatori danno inizio alle violenze, sia fisiche che psicologiche, con sistematiche minacce di morte, sin dall’arrivo in Italia.
Ci troviamo di fronte a bambini e adolescenti, invisibili e sfruttati, che aumentano di giorno in giorno: i programmi di protezione e aiuto continuano a essere drammaticamente insufficienti in Italia e in Europa: un’Europa che assiste indifferente alla silenziosa tratta di questi schiavi del terzo millennio.

Sul reato di tortura si misura la credibilità di un Paese

(una lettera da leggere e di cui farsi carico)

Caro direttore,
dopo anni di vani tentativi di introdurre il reato di tortura nel codice penale, il 17 maggio scorso il Senato ha modificato il testo che gli era pervenuto dalla Camera, partorendo un contorto groviglio giuridico che torna dunque a Montecitorio.

Occorre innanzitutto sgomberare il campo da un equivoco (che qualcuno ha alimentato ad arte). Il reato di tortura non è diretto ad ostacolare il lavoro delle forze dell’ordine! La sua finalità è unicamente quella di sanzionare penalmente la tortura, ovvero l’inflizione intenzionale di sofferenze acute ad una persona. Difatti quello previsto dall’attuale disegno di legge è un reato comune (punisce cioè la tortura anche quando viene commessa da privati), aggravato nel caso del pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.

Per definizione, dunque, la tortura non riguarda lesioni cagionate nell’esercizio legittimo della forza, che tale è quando risulta necessario e se messo in atto in modo proporzionato e con professionalità. La previsione contenuta nel testo modificato, secondo cui il reato di tortura non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti, può ritenersi ammissibile se essa venga intesa in linea con l’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, il quale esclude dolore o sofferenze risultanti da sanzioni legittime.

La tortura è altra cosa, sempre che non si voglia dare alle forze dell’ordine la possibilità di infliggere intenzionalmente sofferenze acute. Ci rifiutiamo però di credere che i nostri parlamentari e gli stessi vertici delle forze dell’ordine, nell’interesse della dignità della loro divisa e del pieno sostegno dell’opinione pubblica per il loro fondamentale servizio, vogliano abbassarsi ad un simile livello.

Ciò premesso, il testo modificato approvato dal Senato è una informe creatura giuridica. Tra l’altro, la definizione di tortura recepita dal Senato è contorta e illogica, soprattutto dove prevede che il fatto è punibile “se è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. In particolare, il requisito (aberrante) di “più condotte” condurrebbe all’assurda conseguenza di escludere, ad esempio, la rilevanza penale come “tortura” di un’unica condotta protratta nel tempo.

Ancora, il testo modificato limita in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura psicologica, esigendo che il trauma psichico sia verificabile: che cosa significa “verificabile” quando la vittima riesca a dimostrare di essere stata sottoposta a sevizie psicologiche qualificabili come tortura?

Infine, il testo modificato tace in materia di prescrizione, laddove il reato di tortura dovrebbe essere accompagnato da un termine di prescrizione lungo o, meglio ancora, andrebbe reso imprescrittibile.
Spetta dunque alla Camera di rimediare alle mancanze più gravi del pessimo testo varato dal Senato, a cominciare dalla definizione del reato di tortura, che deve essere chiara e rigorosa. Basterebbe del resto adottare una definizione essenziale (del genere: “chiunque, intenzionalmente e agendo con crudeltà, cagiona tortura …”, con l’eventuale aggiunta di una clausola di esclusione per sanzioni legittime analoga a quella contenuta nell’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite). Se lo volessero, deputati e senatori, con l’impulso della presidente Boldrini e del presidente Grasso, potrebbero benissimo riuscire a varare in tempi rapidi un reato di tortura all’altezza di un paese civile. A loro ci permettiamo di ricordare che:
a) la tortura è una delle violazioni dei diritti umani più gravi – per certi versi la più abominevole – e il nostro sistema di prevenzione e di repressione penale è privo di un deterrente efficace senza un reato configurato in termini seri;
b) l’Italia si è impegnata a farlo da anni e anni, sia di fronte alle Nazioni Unite, sia a livello europeo;
c) senza un reato di tortura serio non possiamo né estradare dei torturatori arrestati in Italia né perseguire, in quanto tali, atti di tortura commessi all’estero ai danni di un cittadino italiano.

Ne va palesemente della serietà, e quindi della credibilità, dell’Italia, in Europa e nel mondo.

Antonio Bultrini, Associato di diritto internazionale nell’Università di Firenze;
Pasquale De Sena, Ordinario di diritto internazionale nell’Università Cattolica di Milano e membro permanente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani;
Filippo di Robilant, membro del Comitato esecutivo dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea;
Flavia Lattanzi, già giudice del Tribunale speciale per l’ex-Jugoslavia e membro permanente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani;
Giuseppe Nesi, Ordinario di diritto internazionale nell’Università di Trento e membro permanente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani;
Tullio Padovani, avvocato, già Ordinario di diritto penale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa;
Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo

Morto di lavoro. Troppo.

Storie di questo secolo:

A ucciderlo è stato anche il ‘superlavoro‘. Per questo la Asl per la quale lavorava è stata condannata a indennizzare la vedova e la figlia. La sentenza della sezione Lavoro della Corte di Cassazione riguarda la morte, nel 1998, di un radiologo all’epoca trentenne in servizio in un ospedale alle dipendenze dell’Azienda provinciale sanitaria di Enna. Turni lunghissimi, reperibilità e anche il passaggio da un reparto all’altro d’inverno all’aperto sarebbero stati tra i motivi del decesso per una cardiopatia ischemica silente. Di qui la condanna dell’azienda al pagamento dell’equo indennizzo chiesto dalla moglie e dalla figlia, allora minorenne, del radiologo.

Per la Suprema Corte non è “accettabile riversare sui dipendenti tutto l’onere di garantire le prestazioni sanitarie ai pazienti”, anche in caso di carenza di organico. Perché, rilevano i giudici, è l’imprenditore (in questo caso l’Azienda sanitaria) ad essere “tenuto ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Ed è “irrilevante” che il radiologo negli anni non abbia contestato i turni. “Sarebbe inaccettabile – scrive la Cassazione – introdurre il principio per cui solo chi si lamenta delle condizioni del lavoro o sollecita misure a tutela della propria incolumità può poi reclamare i danni“.

Nel procedimento i giudici ricordano le cifre del superlavoro: dal 1991 al 1998 (data del decesso) i quattro tecnici di radiologia avevano effettuato 148.513 esami, una media di 18.564 annui, più quelli del servizio di tomografia computerizzata, 662 l’anno. Inoltre, svolgevano turni di pronta disponibilità notturna e festiva e di pronta disponibilità diurna in eccesso rispetto ai limiti previsti dalla contrattazione collettiva. Sulle cause del decesso la Cassazione scrive che “un’eventuale predisposizione costituzionale del soggetto”, deceduto per una cardiopatia ischemica silente, “non può elidere l’incidenza concausale, anche soltanto ingravescente, dei nocivi fattori esterni individuabili in un supermenage fisico e psichico, quale quello documentato in atti”.

In primo grado il Tribunale aveva dato ragione agli eredi, la Corte d’appello aveva invece riformato la sentenza. La Cassazione, valutando inammissibile il ricorso accidentale, ha ritenuto “passata in giudicato la condanna dell’Asp al pagamento al giusto indennizzo” e ha rinviato gli atti alla Corte d’appello di Palermo per “provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità”.

(fonte)

“Profugo? Una randellata nel muso”: la legge secondo i carabinieri di Aulla

Ecco qua:

«I negri sono degli idioti, sono delle scimmie». «Profugo? Io ti do una randellata nel muso se non stai zitto». «Minchia, le botte che hanno preso quei due neri». «Lo abbiamo preso, lo saccagnavamo di botte perché non voleva entrare in macchina… quante gliene abbiamo date». «Come siamo caduti in basso! Questa (parlano di Alessandra Mussolini – ndr) dice: “Tagliate i capelli al negro clandestino”. Il nonno tutte saponette ha fatto. Cioè, vuoi mettere la differenza proprio di utilità di sta gente? Ha capito tutto tuo nonno, te non capisci un c…». Conversazioni a ruota libera fra i carabinieri in servizio in Lunigiana. Intercettate dalle microspie piazzate nelle auto di servizio nel corso dell’inchiesta della procura di Massa costata l’arresto a quattro di loro e l’allontanamento dalla provincia di altri quattro, mentre ulteriori 18 militari e 4 civili sono indagati. L’inchiesta documenta decine e decine di reati, fra cui almeno cinque brutali pestaggi subìti nell’ultimo anno da un clochard polacco e da immigrati nordafricani, uno dei quali sbattuto a terra, la faccia schiacciata con una scarpa contro l’asfalto, la canna della pistola in bocca, pugni e calci in tutto il corpo. Emergono anche condotte non così violente ma spregevoli, come fare pipì sui materassi sui quali dormivano degli extracomunitari.

«Se i nostri vertici volessero veramente che smettono con i furti… ci danno carta bianca. Per un mese… tu nel giro di un mese debelli il 90% dei delinquenti. Carta bianca però ci vuole, eh! Guarda anche senza uccidere… Tutti i marocchini che ci stanno qua, che spacciano, che cosano… li prendi una volta al giorno, li carichi in macchina… tutti i giorni e li gonfi di botte. Gli devasti la casa, gli devasti tutto quello che c’ha. Un po’ di sana violenza, vedi che nel giro di un mese già le cose son cambiate da così a così».

E come fare a impedire alla gente di andare a comprare droga? Una scarica di multe per violazioni del codice della strada, inventando eccessi di velocità o il mancato uso delle cinture di sicurezza. «Bisogna cominciare a seminare il terrore tra quelli che comprano (droga – ndr)! Via soldi, punti, patenti, via!».

Poi se qualche auto aveva il contrassegno dell’assicurazione scaduto, bastava bucare le gomme. Punizione toccata anche a una sarta colpevole di fare prezzi troppo alti.

È come se Aulla e l’intera Lunigiana fossero una sorta di Far West, con tanto di sceriffi giustizieri armati fino ai denti. Agli indagati sono stati sequestrati alcuni taser, storditori elettrici con cui – diceva uno di loro – «ogni tanto damo una scaricatella a qualcuno». E poi manganelli, pugnali, coltelli a serramanico, un’ascia, che gli indagati tenevano in casa, in auto e anche in caserma. Alcuni erano arrivati a immaginare di uccidere in caserma un marocchino per far finire nei guai un maresciallo colpevole di aver avviato un procedimento disciplinare contro uno di loro. Secondo loro, nell’Arma tutti si dovevano sostenere. «La regola madre per fare il carabiniere è che quello che succede qua non se deve venì a scoprì. È cosa nostra. Proprio come la mafia». E la pm che ha “osato” indagare su di loro «deve morire, e male anche».

Il gip Ermanno De Mattia sottolinea la propensione alla violenza e l’intenso odio razziale che anima molti degli indagati. A proposito del brigadiere Alessandro Fiorentino, da mercoledì in carcere, scrive: «L’imponente mole di elementi indiziari ne dimostra un impressionante abituale ricorso alla violenza». E aggiunge: «Non è in grado di svolgere la sua attività di Carabiniere senza commettere numerosi e frequenti delitti… E, soprattutto quando si trova a interagire con extracomunitari o con persone socialmente emarginate, è privo di qualsiasi capacità di autocontrollo».

«Io, mamma lavoratrice, non ce l’ho fatta»

(C’è una lettera sul Corriere della Sera che vale al pena leggere perché parla di donne, madri, lavoro e del diritto al tempo. È stata inviata a Severgnini e l’autrice ha chiesto di rimanere anonima)

“Caro Beppe, dopo giorni di lacrime e dubbi scrivo a te, rendendoti destinatario di un flusso di coscienza ma anche di una dichiarazione di fallimento. Prima di entrare nel merito dello sfogo, ti racconto però un breve aneddoto che ti farà sorridere… Ho sempre sognato di fare la giornalista, fin da bambina, e ti ho sempre letto; quando al liceo ci assegnarono un tema sui nostri miti, mentre i miei compagni parlarono di Che Guevara o di Bob Marley, io parlai di te… Scrissi di volermi occupare di cronaca di costume perché l’unica cosa in cui ero brava era osservare la gente e il mio maestro eri tu… Son passati 20 anni da quel tema e la realtà è che non sono diventata giornalista. Mi sono iscritta a giurisprudenza perché, figlia di magistrato, ho seguito il consiglio paterno, quel genere di consigli che ti pesano come macigni ma che ti sembrano ineluttabili, perché non riesci a contraddire la persona che per te è l’essenza della ragionevolezza. Son finita a fare l’avvocato, neanche troppo brava, e provo anche a fare la madre, ruolo cercato e voluto con lacrime e sangue (ho perso in grembo ben due figli, ma ho due bimbe meravigliose). Ma proprio in questo sta il mio fallimento.

Ci ho provato, disperatamente, a conciliare le due cose.

Ho chiesto orari ridotti che mi consentissero di portare le piccole al nido o alla scuola materna, mi sono avvalsa di tate, di aiuti di ogni genere, e per qualche tempo mi sono anche illusa di poter fare tutto. Ma la realtà è che è impossibile. Pur con tutti gli aiuti del mondo, ti ritrovi con il conto in banca prosciugato dagli stipendi alle tate e alle sostitute delle tate, dai folli costi dei nidi e delle attività extrascolastiche (che, pur senza esagerare, ti paiono irrinunciabili, come ad esempio un corso di nuoto, uno di inglese) e al contempo devi convivere con enormi sensi di colpa che ti tormentano. Non riesci a recuperarle da scuola tutti i giorni, non riesci a giocare con loro nel pomeriggio perché devi preparare una cena possibilmente sana e devi organizzare la giornata successiva, non sei abbastanza serena da assicurare loro un sorriso costante ed una parola indulgente, affannata come sei da tanti pensieri.

Ma i sensi di colpa non sono solo questi.

Ti sembra di essere una lavoratrice meno solerte degli altri perché esci prima dallo studio rispetto ai colleghi uomini;

Ti sembra di non essere una brava moglie perché tuo marito ti chiede cosa hai fatto dalle 18 in poi e a te sembra troppo poco farfugliare «Le ho portate al parco giochi, le ho lavate perché erano sporchissime e ho preparato la cena con la piccola sempre attaccata alle gambe»;

Ti senti in colpa per non riuscire ad avere un rapporto umano o addirittura amorevole con una suocera criticona; ti senti in colpa a scaldarti il cuore con un bel piatto di pasta serale perché sei fuori forma e non hai neppure il tempo di farti una messa in piega; insomma, ti senti sempre e costantemente sotto pressione.

E poi ti guardi intorno e vedi donne ammazzate, donne vilipese, donne aggredite fisicamente e verbalmente, sul web o in televisione. Ma non trovi conforto neppure negli incontri quotidiani con uomini per bene, evoluti e sensibili, i quali (chissà perché) dimostrano sempre una impercettibile sfumatura di diversità nel trattare con una donna o con un uomo. Sono stanca, caro Beppe.

Ti dico la verità, se è questo quello che volevano le donne quando lottavano per i loro diritti, beh, penso abbiano fallito.

Sia loro nel prefiggersi uno scopo irrealizzabile, sia noi che siamo state incapaci di realizzarlo. Non è possibile dover lavorare come matte per guadagnarsi la minima credibilità professionale e allo stesso tempo fare i salti mortali per tenere la gestione di una famiglia. Certo, i mariti aiutano, ma il loro apporto è sempre marginale ed il carico fisico ed emotivo è nostro. Non abbiamo nessun aiuto dai Comuni, dallo Stato, nessuna comprensione (se non di facciata) dai colleghi uomini, nessun supporto neppure tra di noi. Anche tra mamme lavoratrici, millantiamo comprensione e condivisione, ma poi siamo sempre pronte a giudicarci vicendevolmente. Ho il nodo alla gola da giorni e non vedo soluzione, se non una nuova chiave di lettura di questa ormai esasperata condizione.

Spero tu possa trovare il tempo di rispondermi e di regalarmi il tuo (per me) prezioso punto di vista. Ti prego di non pubblicare il mio nome, perché, avendoti scritto col cuore, ho inserito troppi riferimenti personali e professionali.”