Vai al contenuto

diritti

Spariti trentamila bambini stranieri in Italia. Trentamila.

Marco Sarti per Linkiesta scrive di dati che da noi passano sotto un vomitevole silenzio:

In Italia ci sono 43.665 fantasmi. Persone scomparse, che ancora oggi risultano irreperibili. Alcuni hanno fatto perdere volontariamente le proprie tracce, altri sono vittime della criminalità, non mancano anziani in difficoltà. Nella lista ci sono tanti adulti, ma soprattutto bambini. I minorenni spariti arrivano a 30.063, in gran parte sono stranieri non accompagnati. Arrivati in Italia dopo aver attraversato il Mediterraneo, sono fuggiti da centri accoglienza o case famiglia. Spesso cercano di raggiungere le comunità di appartenenza all’estero, nel Nord Europa. Altre volte, ed è questo l’incubo peggiore, sono vittime di violenza. Rapiti, costretti a prostituirsi, prede del traffico d’organi.

I dati sono stati presentati pochi giorni fa al Viminale. Sono contenuti nella relazione del commissario straordinario del governo per le persone scomparse, il prefetto Vittorio Piscitelli. Il numero che colpisce è proprio quello relativo ai bambini stranieri. «E questo dà adito a una serie di evidenti preoccupazioni – ha spiegato il sottosegretario all’Interno Domenico Manzione, presente all’incontro – per il loro possibile impiego in organizzazioni criminali nazionali e internazionali». È un fenomeno in crescita. I minori stranieri scomparsi sono 27.995, in aumento del 44,84 per cento rispetto all’anno precedente. Una realtà che va letta in relazione all’aumento dei flussi migratori. Solo nel primo trimestre di quest’anno si sono registrati 25mila arrivi sulle nostre coste. Tra questi migranti, 2.200 erano proprio bambini non accompagnati.

(continua qui)

Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.

La lezione di Antonio

Antonio Prisco ha subito nei giorni scorsi un’aggressione a Napoli. Un tentato furto finito a suon di botte. I due aggressori erano marocchini, probabilmente, e la sua vicenda ovviamente è stata usata per gettare merda nel ventilatore dai soliti che giudicano i reati per razza (che poi chissà allora di che razza è la camorra, per dire, che spara in pieno giorno in città). Ma i razzisti sono sempre pronti a sfruttare ogni spunto. Si sa.

Ebbene, oggi Antonio, ha risposto sul suo Facebook così:

Riesco a scrivere solo ora dopo quanto accaduto. La #paura è stata tanta, sono ancora un po’ ammaccato però già sto meglio. #Violenze del genere non sono mai solo fisiche, ma tutta l’onda di #amore e di affetto che mi sta travolgendo in queste ore mi fa capire che non sono solo. #Ringrazio quanti mi sono stati vicino, perché sono stati lo spiraglio di luce che anche esperienze così forti possiedono: chi c’è sempre e chi ho ritrovato al mio fianco senza che me l’aspettassi. A chi sta #strumentalizzando quanto accaduto, invece, rispondo che no, non ho cambiato assolutamente idea. Ho già comunicato ai miei avvocati (Anna Starita, Domenico Di Paola, Roberta Nobile, Luna Bussone, Alessio Portobello, Michele Bonetti) di avere l’intenzione di denunciare quanto è accaduto e sta accadendo sui social e sui giornali(offese, itilizzo improprio e non autorizzato della mia immagine ect. etc…) gli eventuali rimborsi ricevuti creeranno un fondo per la creazione di un centro per la formazione e l’integrazione dei giovani #migranti. Sono sempre io, Antonio convinto che la violenza non abbia a che fare col colore della pelle ma con il male insito nel cuore delle persone a prescindere dal luogo dove sono nate. Sono sempre io, quello che crede che siamo tutti fratelli nelle diversità, figli di un unico mondo e ciò che ci unisce è lottare per il Bene di tutti.

#Napoli #SoloPerPassione

Esclusi perché non italiani da un torneo di scacchi: succede a due bambini, a Ladispoli.

Ne scrive Il Post. Avanti così:

La scorsa settimana a Ladispoli, in provincia di Roma, si è svolto il campionato regionale giovanile di scacchi del Lazio. Due bambini della scuola elementare di Marina di S. Nicola però non si sono potuti iscrivere, scoprendo che non potevano farlo perché, nonostante siano nati in Italia, non sono italiani. Il caso è stato sollevato dalla pagina Facebook degli Italiani senza cittadinanza e la storia è stata confermata al Post da Valeria Viara, che durante l’anno, insieme a suo marito, ha tenuto un corso di scacchi gratuito nella quinta elementare frequentata da suo figlio e dai due bambini che poi sono stati esclusi dal torneo.

Viara ha raccontato che un gruppetto di bambini della scuola erano stati iscritti al torneo perché erano i più entusiasti tra quelli che avevano partecipato al corso (avevano iniziato a giocare a scacchi anche da soli durante l’intervallo, per esempio). I due bambini stranieri non si sono però potuti iscrivere per via di una clausola prevista dal regolamento della Federazione scacchistica italiana. I partecipanti dovevano avere meno di 16 anni e almeno uno di questi due requisiti: la cittadinanza italiana o, in mancanza di questa, essere stati tesserati alla Federazione Scacchistica italiana per almeno un anno nei cinque precedenti alla gara (presentando anche un certificato di frequenza scolastica per l’anno scolastico in corso).
L’ufficio stampa della federazione ha spiegato al Post che questa regola viene applicata a livello internazionale, ma non ha chiarito come mai esista. È stato anche precisato che questa limitazione è prevista solo nei tornei legati al campionato italiano, mentre per altri tornei open non è prevista alcuna clausola limitativa per la partecipazione degli stranieri.

Anche una sola applicazione di un diritto è un successo

Repubblica oggi spara un titolo che mette i brividi:

Evidentemente da quelle parti non sanno che i diritti sono quasi sempre quelli degli altri e si fatica a ribadirli e rivendicarli perché troppo spesso appartengono a una minoranza che fatica a trovare rappresentanza. Strano, perché il processo di trasformazione che porta alla consapevolezza culturale di un diritti (oltre alla sua applicazione) una volta da queste parti era roba anche della stampa e degli intellettuali. O forse non è strano proprio per questo.

Intanto in Islanda l’uguaglianza di paga tra uomini e donne è legge

(Ne scrive Repubblica e, se l’avete notato, qui se n’è parlato pochissimo)

Già da decenni all´avanguardia nelle politiche di gender equality (parità di diritti e opportunità tra sessi) la piccola, dinamica Islanda è da ieri il primo paese al mondo ove è in vigore una legislazione dura e coercitiva, la quale obbliga tutti i datori di lavoro privati e pubblici a provare che donne e uomini ricevono la stessa retribuzione a parità di qualifica. La legge, approvata poche settimane fa dall´Althingi, il parlamento islandese, e ora pubblicata sulla gazzetta ufficiale, è definitivamente operativa. E i datori di lavoro, se non tremano, sanno di dover stare bene attenti: il controllo del rispetto della gender equality salariale non è solo teorico. E´affidato a controlli della Lögreglan (polizia), della tributaria e al limite anche allo Squadrone vichingo, il reparto scelto delle forze dell´ordine.

E´una grande vittoria per Frida Ros Valdimarsdottir, che da anni guida il particolare tipo di sciopero di protesta delle donne: hanno lasciato tutte compatte il lavoro, da un capo all´altro della bella isola di appena 330mila abitanti, circa due ore e mezza prima della fine dell´orario lavorativo quotidiano, tempo che grosso modo era calcolato come l´equivalente della differenza retributiva a pari qualifica a vantaggio dei colleghi maschi. “Il problema e la discriminazione esistono ancora”, dice la dsignora Valdimarsdottir. Aggiungono Yrsa Sigurdardottir e Gerdur Kristny, le due più famose scrittrici locali, tradotte in tutto il mondo in decine di lingue: “E come se non bastasse spesso le aziende e i poteri pubblici tendono ad affidare a donne lavori meno qualificati”. Senza parlare delle violenze domestiche celate nell´intimità nell´Islanda profonda, nella provincia lontana da Reykjavík piccola ma vivacissima metropoli centro della vita giovanile.

Il governo centrista si è deciso ad affrontare il problema, con una legge dura appunto. I datori di lavoro saranno sottoposti a controlli e dovranno anche di loro iniziativa fornire documentazione sufficiente per ottenere la certificazione ufficiale di azienda o istituzione che davvero rispetta la parità retributiva tra gender. “Siamo decisi ad abbattere le ultime barriere retributive legate al gender in ogni posto di lavoro”, afferma citato dal New York Times il ministro degli Affari sociali e dell´uguaglianza, Thorstein Viglundsson, “la Storia ha mostrato che a volte se vuoi il progresso sei costretto a imporlo dall´alto contro chi vi si oppone”.

L´Islanda già oggi è ai vertici nelle classifiche mondiali della gender equality. Metà dei ministri sono donne, le leggi sulle quote rosa funzionano, il paese scandinavo fu il primo al mondo ad avere già decenni fa una capo dello Stato donna, Vigdis Finnbogadottir, e massiccia è la presenza di talenti femminili nel mondo accademico e nella letteratura che vanta il maggior numero di scrittori per abitante nel pianeta intero. L´ottanta per cento delle donne lavora, le casalinghe sono una piccola minoranza. Ma le discriminazioni sussistono, con differenze retributive ingiustificate, a pari qualifica, tra il 14 e il 20 per cento a vantaggio degli uomini.  E le donne hanno meno potere economico degli uomini. Controlli e richiesta di certificazioni inizieranno l´anno prossimo, e verranno completate entro il 2022. La Confindustria locale esprime lieve dissenso: “Le aziende dovrebbero fare di piú per le donne nel loro interesse ma non obbligate per legge”, afferma il suo direttore generale Halldor Thorbergsson. Ribatte il ministro Viglundsson: “Combatteremo come vogliamo, noi eletti dal popolo, ogni vested interest (interesse radicato e celato di gruppi di potere, in tal caso i maschi, ndr) per quanto tempo e costi ciò ci imponga”. La forte crescita economica, la tradizione femminista, lo spirito solidale tutto scandinavo della società, aiuteranno probabilmente la riforma.

Sei incinta? «Pagati il sostituto o ti licenziamo». Succede a Treviso.

Ne scrive qui Silvia Madiotto:

Non si è nemmeno arrabbiata. Stupita, certo, ma non arrabbiata. Come se fosse quasi scontato, come se potesse andare peggio di così. Quando il titolare le ha detto che sarebbe stata lei, incinta di pochi mesi, a dover pagare lo stipendio del suo sostituto per la durata della maternità, e quando le ha detto che in mancanza di questa garanzia avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni, ci ha pensato un po’ e ha sospettato che qualcosa non andasse. È stato il sindacato a cui si era rivolta, la Cgil di Treviso, a dirle che non erano ipotesi accettabili e che avrebbe difeso lei e il suo diritto di mamma lavoratrice. Ma rischia di essere solo la punta di un iceberg perché emerge un caso non unico e nemmeno così raro.

La storia è di quelle che lasciano un fondo di amarezza benché si sia risolta nel migliore dei modi. Si svolge in una piccola azienda artigiana del settore cartografico della Marca, due dipendenti, la famiglia coinvolta nella gestione e nella produzione: una sintesi di rapporti umani e professionali paradigmatica nell’imprenditoria del Nordest. Fra i dipendenti c’è anche una venticinquenne apprendista che, qualche giorno fa, comunica al titolare di essere incinta. È una notizia che riempie di gioia una donna ma che, consapevolmente, pone anche dei dubbi su quale sarà la reazione del datore di lavoro. Quante se ne sentono, in giro, fra dimissioni in bianco e contratti non rinnovati a causa di un pancione. La giovane ne parla quindi al titolare che la pone subito davanti a un bivio: «Mi ha proposto che, durante la maternità, dia io a loro i soldi per pagare il mio sostituto – ha raccontato al sindacato -. Mi è parso strano, ma se non lo faccio vogliono che mi dimetta. Altrimenti temo che mi licenzieranno loro». Il suo datore di lavoro infatti ha opposto la spesa che avrebbe dovuto sostenere per anticipare l’Inps, un costo ritenuto insostenibile per l’attività. Nicola Atalmi, membro della segreteria della Cgil, dopo il contatto con la ragazza ha sgranato gli occhi e chiesto subito un incontro con l’artigiano. «La storia ha avuto un happy ending, l’azienda assumerà un sostituto che pagherà mentre la maternità sarà, come da prassi, sostenuta dall’Inps. La cosa che mi ha sorpreso di più è che la lavoratrice non fosse scandalizzata, lo trovava semplicemente strano – spiega -. Il suo contratto di apprendistato, concluso il periodo di prova, le dava il diritto alla maternità ma lei non lo sapeva. E non è un caso unico».

E continua: «Titolari che avanzano richieste inaudite, non solo nei casi di maternità, e pensano che tutti i ragazzi siano disperati al punto da considerare un’opportunità di lavoro come un favore. Chiedono al dipendente di licenziarsi volontariamente per non sostenere ulteriori spese. Ma vengono da noi giovani bisognosi di una massiccia educazione civica sui diritti e sul lavoro. La ragazza in questione non sapeva che una donna incinta non può essere licenziata ed è francamente inaccettabile». C’è un altro elemento che Atalmi evidenzia a partire da questo caso: «Non voleva che usassimo toni troppo duri per non incrinare il rapporto con l’azienda. Le ho fatto notare che se erano arrivati al punto di volerla licenziare, il timore di incrinare ancora di più il rapporto era surreale. Succede spesso che i lavoratori non vogliono arrivare alle vertenze per lo stesso motivo, come se i diritti venissero dopo i rapporti con l’azienda».

Mihai, uomo invisibile: lavoratore in nero morto in cantiere e buttato in discarica

«Stai zitto, non dire niente a nessuno… Bada alla tua famiglia, pensiamo noi a tutto». Meglio farlo scomparire, il cadavere di quel manovale rumeno precipitato dall’impalcatura di un cantiere dalle parti di Venaria Reale, nel Torinese: se lo avessero visto i carabinieri, le rogne sarebbero state inevitabili. Assunto al nero; e poi quella caduta dovuta alla mancanza di imbracature mentre, con un martello pneumatico, era alle prese con la «stonacatura» delle pareti di una villetta da ristrutturare. Ecco perché, durante una mattina del giugno 2009, il corpo senza vita di Mihai Istoc, 45 anni, la moglie e i due figli rimasti ad attenderlo in Romania, venne gettato — come fosse un sacco di spazzatura, e non uomo — dai due titolari dell’impresa edile sotto un divano lasciato in una discarica abusiva tra i boschi dell’Astigiano. Dove dieci giorni dopo venne trovato dai cani di due cacciatori di cinghiali che si erano avvicinati per controllare da dove venisse «quel fetore nauseabondo» nell’aria.
Per quattro anni quello di Mihai rimase un cadavere senza nome. Un fantasma sconosciuto all’anagrafe. Sulla lapide unicamente quelle due lettere: «N. N», non nominato. Una storia non differente da altre che si ripetono in tutta Italia: se si muore sul lavoro, e se non c’è contratto, può capitare che il cadavere sparisca per evitare noie giudiziarie.

Il test del Dna

Se questa volta c’è stato un finale differente, ma pur sempre amaro, è grazie alla testardaggine degli investigatori coordinati dalla procura di Asti. E al test del Dna che ha svelato e ridato dignità a nome e cognome altrimenti nell’oblio. Ma nella motivazione della sentenza — quella del 28 novembre e depositata nella cancelleria del tribunale pochi giorni fa — che in primo grado ha condannato per occultamento di cadavere i due costruttori, Antonino Marino e Vittorio Opessi, emerge anche il risvolto della brutta storia di una «morte bianca» condannata a restare seppellita se, appunto, i cani non avessero trovato quel corpo senza vita.
Nulla sembrava aiutare a riconoscere l’identità. Il cadavere scarnificato, mangiato dai cinghiali. Il volto riposto e schiacciato — si legge nel dispositivo pubblicato da La nuova provincia — per meglio nasconderlo, sotto quel divano portato dal cantiere. Senza documenti nelle tasche.

La svolta nel 2012

La svolta del caso arrivò nel 2012, quando l’Interpol segnalò alle autorità italiane la scomparsa del manovale. Una nota vagliata con attenzione dal procuratore di Asti Giorgio Vitari e dal pm Maria Vittoria Chiavazza che decisero di riaprire quel fascicolo a un passo dall’archiviazione. Le denunce di sparizione di tutto il Piemonte vennero ricontrollate una ad una dai carabinieri, individuando possibili collegamenti con la scomparsa del muratore uscito di casa a Torino per cercare un lavoro in cantiere. Sveglia puntata all’alba, nella speranza di essere reclutato al «mercato delle braccia» da un «caporale» per una paga non superiore ai trenta, quaranta euro al giorno. Senza orari, dieci, dodici ore filate. Senza regole, al nero. E senza la certezza di essere pagati. Abitudini vigenti in tutto lo Stivale, tanto al Nord quanto al Sud: il «soldo» pattuito viene pagato a fine lavoro per due terzi. Poi il datore scompare, si nega alle telefonate. «Chi insiste, viene allontanato a spinte dai cantieri, minacciato con la pistola, oppure picchiato. E se per caso hai un malore oppure un infortunio – racconta Marco Bazzoni, uno degli animatori di «Articolo 21», associazione che si occupa di diritti del lavoro – devi stare zitto. E pregare che tu non abbia bisogno di un ospedale, perché altrimenti diventi un problema pesantissimo per i padroncini per cui lavori».

L’ultimo a vederlo fu il fratello

Appunto, un problema per chi ti paga: quel che era divenuto il povero Mihai, ora «solo» un corpo senza vita. L’ultimo a vederlo fu il fratello, che ne denunciò la sparizione. Poi una prima svolta nelle indagini. Il volto del manovale somigliava a quello ricostruito al computer dalla polizia scientifica. Il test del Dna fornì la conferma. I carabinieri scandagliarono tutti i contatti di Istoc, fino a giungere ad un altro manovale romeno. Decisivo al processo, con la sua testimonianza. I due erano amici, e per il pranzo volevano vedersi per consumare un panino assieme. Sotto interrogatorio, fu lui a dire di aver trovato il connazionale: «L’ho raggiunto al cantiere vicino a quello presso cui lavoravo io. Era morto». Mihai era caduto da un’impalcatura, sbattendo violentemente la testa. Era su un ponteggio, senza cinture di sicurezza e imbracature.

«Pensa alla famiglia, stai zitto»

Stando alla testimonianza raccolta dagli inquirenti, i datori di lavoro di Istoc giunti poi in cantiere, avrebbero detto al rumeno di scomparire, intimidendolo. Appunto: «pensa alla famiglia, stai zitto, ci occupiamo noi di tutto». Fatti sparire in qualche modo i documenti e il cellulare del morto, avrebbero architettato la «messinscena», come la definisce Antonio Foti, l’avvocato del testimone. Il cadavere di Mihai venne caricato su un divano preso dal cantiere — probabilmente per meglio trasportare il corpo privo di vita — e gettato, dopo essere andati via in automobile, in quella discarica nell’Astigiano, a una sessantina di chilometri da Venaria Reale e nelle vicinanze dell’abitazione della madre di un dei due costruttori. Poi il passaggio di quei cacciatori, l’indagine che riprende. Un nome e un cognome che vengono riassegnati ad un corpo senza nome. «Ma c’è ancora un rischio – osserva amaro Carlo Soricelli, direttore dell’Osservatorio indipendente di Bologna morti sul lavoro -. E cioè che questo povero lavoratore rimanga uno dei tanti morti che spariscono dalle statistiche, solo perché non assicurate e prive di contratto».

(fonte: Fulloni per il Corriere della Sera qui)

«I diritti si possono perdere. Non sono per sempre.»

“I diritti si possono perdere. Non sono per sempre. Guardate l’America in questo momento, sta discutendo sui diritti della pace, la difesa dell’ambiente, l’aborto. Dopo aver faticato tanto per cambiare le cose arriva uno, votato – ma non e’ detto che il mondo porti avanti il migliore – e i diritti possono essere revocati. Bisogna difenderli. Il mondo cambia ma in tanti modi. Va avanti, poi torna indietro”.

Dacia Maraini, qui.