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Se la politica diserta l’addio a Gino Strada e va in massa al meeting di CL

Alla camera ardente allestita per Gino Strada si sono presentate circa undicimila persone. Sapete quanti rappresentanti del governo o delle massime istituzioni sono state presenti? Zero. Zero assoluto. Del resto, visitare Gino Strada mentre il mondo ha gli occhi sulle macerie afghane dovute all’avidità dell’Occidente è qualcosa che richiede un certo pelo sullo stomaco, una capacità di dissimulazione che viene difficile perfino ai politici più spericolati.

Gino Strada, del resto, come dice sua figlia, va benissimo come icona da morto, come andava bene da vivo solo mentre era chiuso in sala operatoria. Altrimenti toccherebbe rispondere alle accuse che per tutta la vita ha brillantemente argomentato contro i signori della guerra che ora si mettono in posa mentre prendono in braccio i bambini davanti alle televisioni del mondo.

La politica, si sa, si compie votando in Parlamento, decidendo al governo, scegliendo le parole da usare e decidendo dove essere presenti (e dove non essere presenti) e i politici nostrani erano tutti, ma proprio tutti, a baciare la pantofola di Comunione e Liberazione al meeting di Rimini.

Come tutti gli anni la festicciola di fine anno di una combriccola parareligiosa riesce magicamente a coniugare tutti, destra e sinistra e buoni e cattivi e perfino il presidente della Repubblica: tutti concentrati a mettere in scena lo spettacolo di una classe dirigente in tournée come se fosse in circo per farsi applaudire dai ciellini. Mentre gli eredi di Gino Strada corrono a suturare le ferite del mondo a Rimini oggi, martedì 24 agosto 2021, Matteo Salvini ci ha spiegato che la ministra Lamorgese no, non va bene e ne chiede le dimissioni perché sarebbe colpevole di essere troppo poco feroce con i disperati del Mediterraneo (nonostante in termini di disumanità Lamorgese abbia comunque ottenuto grandi risultati nella solita guerra alla solidarietà).

Il solito inarrivabile Salvini: subito dopo aver messo in discussione una delle ministre più rappresentative del Governo Draghi – di cui fa parte, anche se finge di non saperlo – risponde alle critiche sul suo sottosegretario Durigon – quello che vorrebbe cancellare la memoria di Falcone e Borsellino per deviarla su Arnaldo Mussolini – dicendo: “Ragioneremo io e Durigon su cosa è più utile fare. Di perdere tempo con il passato non ne ho assoluta voglia”.

Capito? La ministra si prende a cannonate in pubblica piazza, mentre il suo nostalgico sottosegretario compagno di partito è una questione che si deve risolvere nel tinello di via Bellerio.

Sulla politica estera, al meeting di Comunione e Liberazione, abbiamo ascoltato Giorgia Meloni puntare il dito contro Biden per la gestione della guerra in Afghanistan dimenticando 20 anni di storia recente e il suo idolo Trump che decise il ritiro delle truppe.

A proposito di Afghanistan: il renziano Ettore Rosato ci fa sapere, sempre dal meeting di Comunione e Liberazione, che dobbiamo organizzare l’accoglienza dei profughi e che “tra l’altro molti di loro sono persone istruite, colte che conoscono lingue”. Chissà cosa gli avrebbe risposto Gino sentendo questo classismo perfino nella solidarietà.

Meloni si è anche lamentata di essere additata come omofoba solo perché si oppone al Ddl Zan. Ma che strano: un’amica di Orban ed Erdogan (noti omofobi) che si oppone a una legge contro l’omotransfobia e che si è inventata una “ideologia gender” che esiste solo nei bigini della destra peggiore viene accusata di essere nemica della comunità Lgbti. Che vergogna, signora mia.

Ovviamente al meeting di CL non poteva mancare un attacco contro i poveri, colpevoli di essere poveri e che si meritano di essere poveri, perché se sono poveri non può significare altro che siano dei falliti e indolenti.

“Io lo sento dire ogni giorno da centinaia di imprenditori, commercianti, lavoratori. Il reddito di cittadinanza sta creando enormi problemi, sta provocando un deserto economico, e anche morale perché disincentiva alla politica. Crea solo un deserto economico e morale perché diseduca le persone alla fatica e alla sofferenza”, dice Matteo. No, no, non è il solito Matteo Renzi che tuona come al solito contro il reddito di cittadinanza: è l’altro Matteo, sempre più gemello, Matteo Salvini, che chiede scusa per averlo votato.

Avere poi una classe politica (in gran parte di sfaticati) che si pone l’obiettivo di “educare le persone alla fatica e alla sofferenza” e viene applaudita di gran lena rende perfettamente l’idea sullo stato delle cose.

Poi c’è Antonio Tajani: Tajani di quella Forza Italia che qui da noi ha smantellato la sanità pubblica (e con CL ha reso la Lombardia regina degli interessi privati della sanità privata) che chiede di “rifondare il sistema sanitario”. Applausi anche qui. E alla fine, ascoltandoli, viene perfino da ringraziarli di non essere passati da Gino. Meglio così.

L’articolo proviene da TPI.it qui

«Non si parla più della malattia di mia madre, perché la malattia sono io»

(Se volete leggervi uno dei migliori pezzi scritti di questi tempi ecco Paul B. Preciado)

Torno nella città dove sono nato per fare compagnia a mia madre, costretta a restare qualche giorno in ospedale dopo un’operazione. Questa città della Castiglia, dove corpi umani vagano avvolti da pellicce di animali che non hanno mai vissuto in questa regione e in cui le finestre delle case sono decorate con bandiere spagnole, mi spaventa.

Mi dico che la pelle degli stranieri finisce con l’essere trasformata in cappotti, e che la pelle di quelli che sono nati qui si trasforma da un giorno all’altro in una bandiera. Passiamo i giorni e le notti nella camera 314. L’ospedale è stato ristrutturato di recente, ma mia madre ripete che questa stanza le ricorda quella in cui mi ha partorito. A me, proprio perché non mi ricorda niente, questa stanza di ospedale sembra più accogliente della mia casa natale, più sicura delle strade dello shopping, più festiva delle piazze con le chiese.

La mattina, dopo la visita di routine del dottore, esco a prendere un caffè. In questo ospedale, situato in una zona deserta, non c’è una caffetteria. Cammino lungo il fiume Arlanzón fino al bar più vicino, in un freddo luminoso che i castigliani chiamano “sole con le unghie”. Respiro un’aria gelida, pulita, come un getto di vapore compresso che punta l’angoscia che nascondo nel petto.

La sedia assegnata
Essere il figlio trans di una famiglia cattolica spagnola di destra non è facile. Il cielo castigliano è chiaro come quello di Atene, ma in Grecia è di un blu cobalto. Qui è d’acciaio. Ogni mattina esco fuori e desidero non tornare più. Disertare la famiglia come si diserta la guerra. Ma non lo faccio. Torno in ospedale a occupare la sedia da parente stretto che mi è stata assegnata. A cosa serve che la ragione avanzi se il cuore resta indietro, diceva Baltasar Gracián.

In ospedale, da mezzogiorno alle otto di sera, si alternano le visite. Questa camera si trasforma in una scena di teatro pubblico in cui io e mia madre lottiamo, non sempre con successo, per ristabilire i ruoli. Quando deve presentarmi, mia madre dice: “Lui è Paul, mio figlio”. La risposta è sempre la stessa: “Pensavo che avessi solo una figlia”. A quel punto mia madre dice, alzando gli occhi al cielo e cercando di immaginare una scappatoia a questa impasse retorica: “Sì, avevo solo una figlia e ora ho un figlio”. Uno dei visitatori deduce: “Ah, è il marito di tua figlia? Non sapevo che fosse sposata, congratulazioni…”.

Mia madre capisce di aver commesso un errore strategico e si affanna come chi cerca di riavvolgere freneticamente il filo di un aquilone volato già troppo in alto: “No, no, non è sposata, è mia figlia…”. Poi tace per un istante, durante il quale smetto di guardarla. “Mia figlia ora è mio figlio”. La sua voce disegna una cupola di Brunelleschi che si innalza per dire “figlia” e precipita per dire “figlio”.

Non è facile essere la madre di un trans in una città dove avere un figlio queer è peggio che avere un figlio morto. Allora, gli occhi del visitatore schizzano in tutte le direzioni, prima di rispondere con un piccolo sospiro.

Non è facile essere la madre di un trans vivendo in una comunità di sostenitori dell’Opus Dei

A volte sorrido: mi sento come un Louis de Funès in un film di fantascienza. Altre volte sono sopraffatto dallo stupore. Non si parla più della malattia di mia madre, perché la malattia sono io. Non è facile essere il figlio di una famiglia cattolica convinta che Dio non sbaglia mai.

Azioni e pensieri rasserenanti
Decidere di cambiare qualcosa significa contraddire Dio. Mia madre ha rinnegato la dottrina della chiesa. Dice che una madre è più importante di Dio. Continua ad andare a messa la domenica, ma ci va per fare i conti con l’aldilà, e la chiesa non deve immischiarsi. Lo dice a bassa voce, sa di essere blasfema. Non è facile essere la madre di un trans vivendo in una comunità di sostenitori dell’Opus Dei. Mi sento in debito verso mia madre perché non sono e non posso essere un buon figlio per lei.

Quando le sollevo le gambe per favorire la circolazione del sangue mi dico che sono più bravo come badante che come figlio. Quando aggiorno le app del suo telefono, riorganizzo lo schermo e installo nuove suonerie mi dico che sono meglio come tecnico informatico che come figlio. Mentre le acconcio in capelli in uno chignon e aumento il volume della pettinatura sopra la fronte mi dico che sono meglio come parrucchiere che come figlio. Quando scatto qualche foto per inviarla ai suoi amici che hanno superato gli ottant’anni e non possono venire a farle visita mi dico che sono meglio come fotografo che come figlio.

Sono meglio come garzone che come figlio. Sono meglio come compilatore dei suoi video preferiti di Rocío Jurado su YouTube che come figlio. Sono meglio come lettore del giornale locale che come figlio. Sono meglio come piegatore di vestiti che come figlio. Sono meglio come pulitore del bagno che come figlio. Sono meglio come infermiere notturno che come figlio. Sono meglio come aeratore della stanza che come figlio. Sono meglio come cercatore di chiavi perse in fondo alla borsa che come figlio. Sono meglio come distributore di pillole che come figlio. Sono meglio come fotocopiatore di documenti per la previdenza sociale che come figlio.

E tutte queste cose – curare, acconciare i capelli, riparare computer e telefoni, scaricare video, trovare chiavi, fare fotocopie – mi calmano i pensieri e mi rasserenano.

(Traduzione di Andrea Sparacino, fonte Internazionale)