Vai al contenuto

distributore

«Non si parla più della malattia di mia madre, perché la malattia sono io»

(Se volete leggervi uno dei migliori pezzi scritti di questi tempi ecco Paul B. Preciado)

Torno nella città dove sono nato per fare compagnia a mia madre, costretta a restare qualche giorno in ospedale dopo un’operazione. Questa città della Castiglia, dove corpi umani vagano avvolti da pellicce di animali che non hanno mai vissuto in questa regione e in cui le finestre delle case sono decorate con bandiere spagnole, mi spaventa.

Mi dico che la pelle degli stranieri finisce con l’essere trasformata in cappotti, e che la pelle di quelli che sono nati qui si trasforma da un giorno all’altro in una bandiera. Passiamo i giorni e le notti nella camera 314. L’ospedale è stato ristrutturato di recente, ma mia madre ripete che questa stanza le ricorda quella in cui mi ha partorito. A me, proprio perché non mi ricorda niente, questa stanza di ospedale sembra più accogliente della mia casa natale, più sicura delle strade dello shopping, più festiva delle piazze con le chiese.

La mattina, dopo la visita di routine del dottore, esco a prendere un caffè. In questo ospedale, situato in una zona deserta, non c’è una caffetteria. Cammino lungo il fiume Arlanzón fino al bar più vicino, in un freddo luminoso che i castigliani chiamano “sole con le unghie”. Respiro un’aria gelida, pulita, come un getto di vapore compresso che punta l’angoscia che nascondo nel petto.

La sedia assegnata
Essere il figlio trans di una famiglia cattolica spagnola di destra non è facile. Il cielo castigliano è chiaro come quello di Atene, ma in Grecia è di un blu cobalto. Qui è d’acciaio. Ogni mattina esco fuori e desidero non tornare più. Disertare la famiglia come si diserta la guerra. Ma non lo faccio. Torno in ospedale a occupare la sedia da parente stretto che mi è stata assegnata. A cosa serve che la ragione avanzi se il cuore resta indietro, diceva Baltasar Gracián.

In ospedale, da mezzogiorno alle otto di sera, si alternano le visite. Questa camera si trasforma in una scena di teatro pubblico in cui io e mia madre lottiamo, non sempre con successo, per ristabilire i ruoli. Quando deve presentarmi, mia madre dice: “Lui è Paul, mio figlio”. La risposta è sempre la stessa: “Pensavo che avessi solo una figlia”. A quel punto mia madre dice, alzando gli occhi al cielo e cercando di immaginare una scappatoia a questa impasse retorica: “Sì, avevo solo una figlia e ora ho un figlio”. Uno dei visitatori deduce: “Ah, è il marito di tua figlia? Non sapevo che fosse sposata, congratulazioni…”.

Mia madre capisce di aver commesso un errore strategico e si affanna come chi cerca di riavvolgere freneticamente il filo di un aquilone volato già troppo in alto: “No, no, non è sposata, è mia figlia…”. Poi tace per un istante, durante il quale smetto di guardarla. “Mia figlia ora è mio figlio”. La sua voce disegna una cupola di Brunelleschi che si innalza per dire “figlia” e precipita per dire “figlio”.

Non è facile essere la madre di un trans in una città dove avere un figlio queer è peggio che avere un figlio morto. Allora, gli occhi del visitatore schizzano in tutte le direzioni, prima di rispondere con un piccolo sospiro.

Non è facile essere la madre di un trans vivendo in una comunità di sostenitori dell’Opus Dei

A volte sorrido: mi sento come un Louis de Funès in un film di fantascienza. Altre volte sono sopraffatto dallo stupore. Non si parla più della malattia di mia madre, perché la malattia sono io. Non è facile essere il figlio di una famiglia cattolica convinta che Dio non sbaglia mai.

Azioni e pensieri rasserenanti
Decidere di cambiare qualcosa significa contraddire Dio. Mia madre ha rinnegato la dottrina della chiesa. Dice che una madre è più importante di Dio. Continua ad andare a messa la domenica, ma ci va per fare i conti con l’aldilà, e la chiesa non deve immischiarsi. Lo dice a bassa voce, sa di essere blasfema. Non è facile essere la madre di un trans vivendo in una comunità di sostenitori dell’Opus Dei. Mi sento in debito verso mia madre perché non sono e non posso essere un buon figlio per lei.

Quando le sollevo le gambe per favorire la circolazione del sangue mi dico che sono più bravo come badante che come figlio. Quando aggiorno le app del suo telefono, riorganizzo lo schermo e installo nuove suonerie mi dico che sono meglio come tecnico informatico che come figlio. Mentre le acconcio in capelli in uno chignon e aumento il volume della pettinatura sopra la fronte mi dico che sono meglio come parrucchiere che come figlio. Quando scatto qualche foto per inviarla ai suoi amici che hanno superato gli ottant’anni e non possono venire a farle visita mi dico che sono meglio come fotografo che come figlio.

Sono meglio come garzone che come figlio. Sono meglio come compilatore dei suoi video preferiti di Rocío Jurado su YouTube che come figlio. Sono meglio come lettore del giornale locale che come figlio. Sono meglio come piegatore di vestiti che come figlio. Sono meglio come pulitore del bagno che come figlio. Sono meglio come infermiere notturno che come figlio. Sono meglio come aeratore della stanza che come figlio. Sono meglio come cercatore di chiavi perse in fondo alla borsa che come figlio. Sono meglio come distributore di pillole che come figlio. Sono meglio come fotocopiatore di documenti per la previdenza sociale che come figlio.

E tutte queste cose – curare, acconciare i capelli, riparare computer e telefoni, scaricare video, trovare chiavi, fare fotocopie – mi calmano i pensieri e mi rasserenano.

(Traduzione di Andrea Sparacino, fonte Internazionale)

Lo stipendio dei Graviano è nelle pompe di benzina

La Procura della Repubblica chiede il rinvio a giudizio per Angelo Lo Giudice e Rosa Bompasso. I loro distributori di carburante sarebbero stati per anni una fonte di reddito per i fratelli Benedetto, Filippo e Giuseppe Graviano. Come? Le colonnine degli impianti sarebbero state manomesse per ottenere maggiori ricavi da girare ai capimafia di Brancaccio e ai loro familiari. Da qui le accuse di truffa e riciclaggio che vengono contestate a Lo Giudice e Bompasso, marito e moglie, formalmente intestatari dei distributori Agip di viale Regione Siciliana, ad angolo con via Oreto, ed Esso di Piazza Sant’Erasmo. Entrambi gli impianti sono finiti sotto sequestro. Il primo è fallito e il secondo ha riaperto sotto un’altra insegna estranea ai fatti. Le due compagnie petrolifere, Esso e Agip, sono parte offesa dell’inchiesta e sono pronte a costituirsi parte civile con l’assistenza dell’avvocato Cristiano Galfano. Ad entrambi gli indagati i pubblici ministeri Vania Contrafatto e Francesca Mazzocco contestano l’aggravante dell’articolo 7, quella prevista per chi agevola Cosa nostra.

Nelle pompe non si vendeva solo carburante con il trucco. Sarebbero state anche due stazioni di posta del clan mafioso di Brancaccio. Il nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza vi trovò una sfilza di pizzini. E così sarebbe venuta a galla la contabilità che prevedeva stipendi sostanziosi per i parenti più stretti degli ergastolani che nonostante il 41 bis avrebbero continuato a gestire affari e potere. E cioè Rosalia Galdi, detta Bibiana, moglie di Giuseppe Graviano, Francesca Buttitta, moglie di Filippo, Nunzia Graviano, “a picciridda” sorella dei boss (pure lei è finita in carcere) a cui sarebbero spettati 4 mila euro al mese. E ancora mille euro ciascuno a Maria Anna Di Giuseppe ed Antonietta Lo Giudice, mogli di Giuseppe Faraone e Giorgio Pizzo, entrambi detenuti, e a Benedetto Graviano.

Nei due distributori i finanzieri trovarono tutto ciò che serviva per truffare, sostiene l’accusa, i clienti. C’era la calamita che diminuiva l’erogazione fino al dieci per cento in meno di quanto indicato sul dispaly. C’era l’interruttore piazzato in bagno che qualcuno pigiava quando il benzinaio azionava la pistola del carburante. Oppure il telefono che a distanza accelerava il conteggio della colonnina facendo semplicemente finta di essere impegnati in una conversazione.

Il difensore dei due indagati, l’avvocato Enrico Tignini non entra nel merito delle accuse, ma si limita a precisare che nel caso di Lo Giudice “alcune fattispecie di reato potrebbero essere già oggetto di analogo processo penale in fase di celebrazione con il rito abbreviato” (Lo Giudice è per imputato di intestazione fittizia di beni ndr). Nel caso della Bompasso, invece, “si tratta della titolare del Bar Liberty che nulla aveva a che fare con il distributore”. Anche il bar, annesso alla pompa di benzina di viale Regione Siciliana è finito sotto sequestro perché considerato di proprietà dei capimafia di Brancaccio.

(clic)