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domenico zambetti

È sentenza: in Lombardia “c’è stato patto di scambio tra le cosche e la politica”. Così cadde Formigoni.

Parlano di “un patto di scambio” avvenuto “concretamente” tra l’ex assessore regionale Domenico Zambetti e Eugenio Costantino e Giuseppe D’Agostino come “referenti e portavoce di alcune importanti famiglie mafiose della ‘ndrangheta lombarda” le motivazioni della sentenza con cui il Tribunale lo scorso febbraio ha inflitto pene dai 16 anni e mezzo in giù (13,5 a Zambetti), nell’ambito del processo sulle presunte infiltrazioni delle cosche calabresi in Lombardia e sul voto di scambio. Nelle quasi 500 pagine il giudice Maria Luisa Balzarotti scrive che il “contraente” di Zambetti è una organizzazione criminale unitaria in cui sono federate le famiglie di ‘ndrangheta operanti in Lombardia”. Inoltre “tale compattezza e unitarietà che rende elevatissimo il potere criminale dell’associazione è nota a Zambetti, ed è ciò che gli garantisce di trarne dal negozio illecito l’utilità che si propone: quella cioè di ottenere un numero di voti, di tale entità da assicurare la sua elezione nella competizione per il rinnovo del consiglio regionale del 28-29 marzo 2010”.

Per il magistrato, che ha depositato le motivazioni sabato scorso, è “inequivocabile” che i due esponenti delle organizzazioni criminali, con “la collaborazione” di altre persone tra cui Ambrogio Crespi (fratello dell’ex sondaggista di Berlusconi e condannato a 12 anni, ndr), “hanno raccolto effettivamente i voti promessi a Zambetti(…) e di contro, l’assessore regionale, dopo una iniziale ritrosia, ha versato in contanti il corrispettivo precedentemente pattuito nelle loro mani”. Corrispettivo che, secondo l’accusa, sarebbe ammontato a 200 mila euro per circa quattromila voti.

Domenico Zambetti, l’ex assessore regionale tra le persone condannate lo scorso febbraio nell’ambito del processo sulle presunte infiltrazioni delle cosche calabresi in Lombardia e sul voto di scambio, “ha dato dimostrazione di essere pienamente consapevole delle capacità di intimidazione del gruppo criminale, al quale si è volontariamente e consapevolmente rivolto per reclutare i suffragi”. Lo scrive il giudice Maria Luisa Balzarotti nelle motivazioni della sentenza, sottolineando che “la particolare qualità del contraente di Zambetti- la federazione delle più importanti famiglie di ‘ndrangheta insediate nel territorio lombardo – sodalizio di cui è notorio il potere criminale e che ha esercitato in concreto (…) un condizionamento diffuso e fondato sulla prepotenza e sulla sopraffazione (…) rende evidente che l’accordo negoziale illecito non ha esaurito il proprio contenuto nello scambio di voti contro denaro, ma ha incluso l’impiego, presso gli elettori, del potere di condizionamento mafiosi”.

Per il giudice “Zambetti ha, consapevolmente, scelto quale contraente un tale terribile centro di potere perché puntava al bacino elettorale lombardo della ‘lobby calabrese’ e al consenso dell’intera consorteria. Un’indicazione di voto – si legge ancora – proveniente da tale sodalizio (…) che, in quanto tale, è sorretta dalla forza intimidatrice del vincolo associativo, al di là di atti di violenza o di minaccia, (…) avrebbe potuto consentirgli di conseguire nel bacino territoriale della Lombardia, in cui il sodalizio è ormai storicamente radicato, il quantitativo di voti propostogli”.

(fonte)

Un assessore regionale condannato per avere comprato voti mafiosi? Eccolo, in Lombardia.

A proposito di reati gravi, di politici impuniti (e di Formigoni che comodamente continua a stare in Senato) e di una Lombardia che qualcuno continua a credere “guarita”: 

Il Tribunale di Milano ha condannato mercoledì l’ex assessore regionale lombardo Domenico Zambetti a 13 anni e mezzo con l’accusa di aver comprato quattromila voti alla `ndrangheta per le regionali del 2010. I giudici hanno inflitto pene fino a 16 anni e mezzo di carcere. Assolto Alfredo Celeste, ex sindaco di Sedriano, il primo Comune del milanese sciolto per mafia. Inflitti 12 anni ad Ambrogio Crespi, fratello di Luigi, l’ex sondaggista di Berlusconi, e 16 anni e mezzo a Eugenio Costantino, referente della cosca Di Grillo-Mancuso.

‘Ndrangheta in Lombardia (e l’ex assessore Zambetti): le condanne

Domenico-Zambetti-586x390Si è concluso con la conferma della condanna inflitta in primo grado a 10 persone, una assoluzione e la riduzione della pena per un imputato il processo d’appello a carico di 12 uomini coinvolti nell’inchiesta della Dda di Milano sull’infiltrazione della ‘ndrangheta in Lombardia che aveva portato anche all’arresto dell’ex assessore regionale Domenico Zambetti, accusato di voto di scambio con le cosche.

Si tratta degli imputati che avevano scelto di essere processati con rito abbreviato e in primo grado erano stati condannati a pene dai 14 anni e 8 mesi ai 2 anni e 8 mesi di carcere. I giudici della Corte d’Assise d’appello di Milano, quindi, hanno confermato la condanna a 10 anni e 10 mesi di reclusione per Sabatino Di Grillo, il presunto capo della ‘ndrina radicata in Lombardia e legata alla cosca Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia), e la condanna a 14 anni e 8 mesi per il suo braccio destro, Vincenzo Evolo.

Confermati anche i 9 anni e 10 mesi inflitti ad Alessandro Gugliotta e i 14 anni e 2 mesi a Giampiero Guerrisi. È stato assolto, invece, Salvatore Mancuso, accusato di aver preso parte a un sequestro di persona a scopo di estorsione. Mentre la pena è stata ridotta da 10 anni e 10 mesi a 8 anni e 8 mesi di reclusione perGiuseppe D’Agostino, definito nell’inchiesta il ‘portavoce’ dei clan nel loro ruolo di avvicinamento a Zambetti. Nel suo caso, i giudici della Corte d’assise d’appello hanno riqualificato il reato in concorso esterno in associazione mafiosa. L’ex assessore regionale Zambetti e altre persone, che non avevano scelto il rito alternativoed erano state rinviate a giudizio, sono attualmente sotto processo all’ottava sezione penale del Tribunale di Milano.

(fonte)

La ‘ndrangheta a Milano: ecco chi comanda

Ama i casinò e i bei vestiti. Nasce a San Luca nel cuore dell’Aspromonte, ma è a Milano che tesse business e rapporti. Dalla Calabria però si porta in dote una relazione privilegiata con la cosca di Sebastiano Romeo detto u Staccu. In curriculum mette anche qualche anno di università. Da qui il soprannome di DutturicchiuGiuseppe Calabrò, classe ’50, è uno dei dieci uomini d’oro che sovraintendono gli affari nel capoluogo lombardo. Tutti hanno contatti e sanno come muoversi. Sulle spalle portano decenni di carcere. Oggi, però, sono uomini liberi, nonostante molti dei lori nomi compaiano nelle carte delle ultime inchieste dell’antimafia. Vivono da fantasmi e sfuggono agli arresti. Stanno lontani dai reati e utilizzano poco il telefono. S’incontrano per strada o negli uffici. I salotti buoni li accolgono a braccia aperte. La politica li invita a cena. Nei quartieri della mala il loro nome è sinonimo di rispetto. Mafiosi di rango, certificati dalle sentenze dei giudici e da recentissime informative della polizia giudiziaria. Siciliani, ma soprattutto calabresi perché come spiega il 59enne broker della coca Marcello Sgroi “A Milano comanda la ’ndrangheta”.

Kalashnikov e Uzi – Ore 15 del 25 maggio 2012 via Oldrado de Tresseno zona viale Monza. U Dutturicchiu attende in strada. Suona il cellulare. La telefonata dura nove secondi. Giusto il tempo perché l’interlocutore confermi l’appuntamento. Non è la prima volta, è già successo e sempre in questa strada privata non lontana dalla stazione Centrale, dove il cellulare di Calabrò viene agganciato diverse volte dagli investigatori. Chi chiama è Giulio Martino, uomo del clan Libri, gregario di lusso dell’ergastolano Mimmo Branca. I due discutono di armi e di droga da trafficare dal Sudamerica direttamente nel porto di Gioia Tauro. Calabrò ha una partita di Kalashnikov e Uzi. Li tiene ad Arma di Taggia e vuole portarli a Milano. Martino interessa il suo factotum Eddy Colangelo, ex trafficante oggi collaboratore di giustizia. È lui che fa il nome di Calabrò. Lui che con le sue confessioni svela i traffici del clan Martino coinvolto nell’operazione Rinnovamento del 16 dicembre scorso. Racconta Colangelo: “Giulio Martino mi dice che c’era da fare un favore al vecchio. Con tale soprannome noi ci riferivamo a Beppe Calabrò”. Spiega: “Io lo avevo conosciuto nel 1999 a San Vittore, me lo avevano presentato i fratelli Martino (…). In carcere si sentiva parlare di lui come di una persona importante. Lo rividi molti anni dopo nel 2011, in compagnia di Giulio Martino”. Uomini liberi si diceva. Tale è oggi Calabrò, il quale non risulta indagato nell’ultima inchiesta della Dda milanese. Prosegue Colangelo: “Giulio Martino mi parlava di costui come di una persona che era uno molto importante in Calabria”. Chi è realmente u Dutturicchiu lo mettono nero su bianco i carabinieri per i quali le parole di Colangelo “confermano lo spessore criminale di Giuseppe Calabrò (…) personaggio di spicco della ‘ndrangheta”. Il suo nome è collegato anche al malavitoso serbo Dragomir Petrovic detto Draga. Il serbo, intercettato dalla Guardia di Finanza nell’ottobre 2013, discute di un traffico di droga assieme a Roberto Mendolicchio, fratello di Luigi già luogotenente di Mimmo Branca e attuale ras della zona di piazza Prealpi. Per il carico i due fanno riferimento allo stesso Calabrò, il quale, ancora una volta, non risulta coinvolto penalmente nella vicenda.

Contatti e relazioni. Così se nel 2012 Calabrò incontra gli uomini di Mimmo Branca, il suo nome compare già in alcune informative del 1990. Si tratta dell’indagine Fior di Loto dove viene descritto “come personaggio dotato di una forte potenzialità criminale” in contatto con Santo Pasquale Morabito, altro boss alla milanese, originario di Africo e legato al padrino ergastolano Giuseppe Morabito alias u Tiradrittu. Dopo quasi 30 anni di galera, oggi Santo Pasquale è tornato in libertà. La sua scarcerazione risale al febbraio scorso. Attualmente abita in una zona residenziale della città e non risulta indagato in nessuna inchiesta. A metà degli anni Novanta ecco cosa scrive di lui la Criminalpol: “Santo Pasquale Morabito, per il suo modo di essere, di atteggiarsi e per i riguardi che gli sono riservati dai suoi interlocutori ha indubbiamente raggiunto una posizione di alto rango. E ciò anche in relazione alla sua capacità di penetrazione nel tessuto socioeconomico, con l’acquisizione di attività imprenditoriali, e negli organi istituzionali e rappresentativi”. Da quell’indagine emergono, netti, i legami con Calabrò. Più volte i due, intercettati, discutono di armi e di droga. Addirittura, ricostruiranno gli investigatori, progettano un agguato all’allora capo della polizia Arturo Parisi

Durante quei colloqui negli uffici della Loto Immobiliare, impresa mafiosa a due passi dal Tribunale, c’è Pietro Mollica, anche lui di Africo, cugino di Santo Pasquale Morabito. Mollica oggi è un cittadino libero. E nonostante questo mantiene stretti rapporti con la malavita. Tanto che nel marzo 2012, la Guardia di Finanza filma un incontro di altissimo livello ai tavolini del bar il Borgo di via San Bernardo 33 a Milano. Oltre al cugino di Morabito, i militari fotografano Mario Trovato, fratello dell’ergastolano Franco Coco Trovato. Oggi Santo Pasquale Morabito conduce una vita riservata, periodicamente si reca al commissariato per la firma di rito, s’incontra con i vecchi amici. Tra questi il cugino Pietro Mollica. Basso profilo, dunque, e la solita grande passione per gli orologi di lusso. E se Santo Pasquale Morabito è tornato in libertà, un altro uomo del clan è in fuga dal 1994. Rocco Morabito, detto u Tamunga, è inserito nella lista dei dieci latitanti più pericolosi. Ricercato per mafia, è considerato un broker della droga di altissimo spessore. Ultima residenza nota: via Bordighera 18 a Milano. Da sempre u Tamunga è considerato l’alter ego di Domenico Antonio Mollicatrafficante legato ai servizi segreti militari. In città, dunque, gli uomini della cosca Morabito tornano in pista. Il clan, infatti, non è stato coinvolto nelle recenti inchieste dell’antimafia. L’ultima indagine risale al 2006. Si tratta dell’operazione For a King che ha fotografato l’infiltrazione della ’ndrangheta di Africo all’interno dell’Ortomercato di Milano e i rapporti con l’attuale consigliere regionale del Nuovo centrodestra Alessandro Colucci (mai indagato).

Occhio al passato – E così per capire il presente bisogna conoscere il passato. Dal passato arriva Giuseppe Ferraro alias il professore. Classe ’47 da Africo Nuovo, il professore oggi gestisce una lavanderia in via Amadeo. Nel 1984 la squadra Mobile scrive come fosse “legato al fratello Santo Salvatore e ad altri pregiudicati calabresi in relazione a traffici illeciti, in particolare commercio di stupefacenti ed estorsioni”. Recentemente il suo nome, mai iscritto nel registro degli indagati, è emerso nell’inchiesta dei carabinieri che ha portato in carcere l’ex assessore regionale Domenico Zambetti. In particolare Ferraro viene allertato da Pino d’Agostino, altra eminenza grigia della cosca in riva al Naviglio, per procurare voti certi al candidato di riferimento. La contabilità degli affari malavitosi passa anche e soprattutto per le zone a sud di Milano. Qui l’alto commissariato del crimine è rappresentato dagli uomini e dalle donne della cosca Barbaro-Papalia, il cui organico è tornato a ingrossarsi dopo che la maxi-inchiesta Parco sud è recentemente naufragata in Cassazione scagionando dall’accusa di mafia diversi personaggi. Su tutti: Salvatore BarbaroDomenico Papalia, figlio del boss ergastolano Antonio Papalia. Giovani leve sulle quali si accendono di nuovo i riflettori. E nonostante questo, attualmente equilibri, decisioni, affari sono in mano a due vecchi luogotenenti del clan. Il primo è Domenico Trimboli, detto Micu u Murruni, classe ’59 e una nobile parentela con il vecchio cda della ’ndrangheta al nord rappresentato dalla famiglia Papalia.

Il ruolo di primo piano di Trimboli emerge netto dall’indagine Rinnovamento, quando il reggente della cosca viene contattato dagli uomini del clan Libri, i quali chiedono un incontro. Il 16 luglio 2013 l’appuntamento è fissato ai tavolini del bar Clayton di via Volta a Corsico. A Trimboli, che non risulta indagato, viene chiesto di appoggiare l’azione di protezione nei confronti di un imprenditore milanese minacciato da un gruppo di siciliani. Trimboli, definito “personaggio di spicco della criminalità organizzata calabrese”, viene scarcerato nel 2009 e subito decide di tornare nella sua residenza di via Milano a Corsico. Nell’appartamento spesso alloggia Antonio Papalia, classe ’75, trafficante di droga, il quale, negli anni Novanta, aveva progettato di uccidere l’attuale procuratore aggiunto Alberto Nobili. Dopo Murruni, nel 2012 torna in libertà un altro pezzo da novanta. Si tratta di Rocco Barbaro, classe ’65, detto u Sparitu. Come il primo anche lui sceglie una residenza milanese in via Lecco a Buccinasco. Attualmente non risulta indagato. Le intercettazioni dell’indagine Platino ne tracciano la figura. Parla Agostino Catanzariti, reggente arrestato nel gennaio 2014 e recentemente condannato a 14anni. Dice: “Lui è capo di tutti i capi (…) di quelli che fanno parte di queste parti”. Per i carabinieri il senso è chiaro: Rocco Barbaro è l’attuale referente di tutta la ’ndrangheta lombarda. E lo è “per regola”, visto che è figlio di Francesco Barbaro detto Ciccio u Castanu, classe 1927, “una delle figure più importanti di tutte le ‘ndrine platiote”.

Arriva anche Cosa nostra – Milano capitale di ’ndrangheta, ma non solo. Attualmente, infatti, diversi esponenti di Cosa nostra sono tornati in libertà o stanno per essere scarcerati. Si tratta di nomi storici da sempre in affari con le ’ndrine. Tra questi Antonino e Carlo Zacco, padre e figlio. Il primo soprannominato Nino il bello, negli anni Novanta viene coinvolto nell’inchiesta Duomo connection mentre in Sicilia lavora nella grande raffineria di Alcamo. Da sempre è in contatto con la ’ndrangheta a sud di Milano. Suo figlio Carlo, non indagato, viene citato nell’ultima indagine sui fratelli Martino. In particolare viene coinvolto dal clan nella vicenda della protezione da dare a un imprenditore sotto scacco da un gruppo di catanesi. All’incontro Carlo Zacco, scrivono i carabinieri, si presenterà armato. In attesa di concludere una carcerazione trentennale è invece Antonino Guzzardi, broker della droga legato ai corleonesi Ciulla, in rapporto con i cartelli colombiani e in passato vicino a Pablo Escobar.

Giocano forte gli uomini d’oro del crimine alla milanese. Incrociano inchieste, ben attenti a non inciampare in reati penali. Liberi si muovono da fantasmi. Nella Milano dell’Expo e dei quartieri popolari: dal Corvetto a Quarto Oggiaro, fortino dello spaccio svuotato dalle inchieste e oggi controllato da personaggi storici come Luigi Giametta e Francesco Giordano detto don Nicola. Ultimi sopravvissuti dopo la mattanza dell’inverno 2013, quando Antonino Benfante ha sterminato il clan Tatone. Benfante lo chiamano Nino Palermo. Testa criminale e una sola strategia: “Bacia le mani a chi le merita tagliate”. Benvenuti in città.

da Il Fatto Quotidiano del 5 gennaio 2015

Le inopportunità e la ‘ndrangheta a Fino Mornasco, Como, Lombardia.

Affari e politica, favori in cambio di voti. E’ la ‘ndrangheta che si divora la Lombardia anche grazie alla compiacenza della pubblica amministrazione. E così mentre le inchieste fissano ruoli e competenze dell’infiltrazione, alle prefetture tocca il compito di valutare le ipotesi di scioglimento per mafia dei comuni del nord. E’ successo per Sedriano dopo l’indagine Grillo Parlante che ha coinvolto non solo il sindaco Alfredo Celeste ma anche l’ex assessore regionale Domenico Zambetti. Rischia di ripetersi oggi per il comune di Fino Mornasco. Il prefetto di Como Bruno Corda, infatti, ha intenzione di chiedere l’accesso agli atti della pubblica amministrazione. Corda lo ha detto esplicitamente ai membri della Commissione parlamentare antimafia che il 25 novembre sono saliti a Milano. Corda è stato ascoltato dopo che il 18 novembre l’operazione Insubria, coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, ha svelato gli interessi di tre locali di ‘ndrangheta: Cermenate, Calolziocorte e Fino Mornasco, quest’ultima definita come “uno dei più fulgidi esempi di comunità mafiosa nel nord Italia”. Il comune del Comasco così si candida a essere la seconda città lombarda sciolta per mafia.

Il primo spunto dal quale parte il Prefetto è l’inchiesta Insubria del 18 novembre 2014. L’indagine del Ros, infatti, nasce da una serie di atti intimidatori, “che – scrive il giudice Simone Luerti nella sua ordinanza d’arresto – pur se all’apparenza scollegati tra loro, possono essere, con alta probabilità, ricondotti a un filo comune”. Tra le vittime ci sono anche tre politici: si tratta dell’attuale sindaco Giuseppe Napoli, dell’ex vicesindaco Antonio Chindamo e dell’attuale presidente del consiglio comunale Luca Cairoli, il quale subisce ben quattro intimidazioni: il 24 novembre 2011 viene appiccato un incendio davanti alla sua concessionaria di auto Finomotori. Il 10 dicembre 2011 qualcuno invia una richiesta estorsiva sempre all’autosalone, l’8 febbraio 2011 ignoti sparano con un fucile calibro 12 contro la Finomotori, il 14 giugno 2012 arriva una lettera minatoria.

Politica sotto scacco, dunque. Questa la fotografia scattata dal Ros. Fotografia parziale. Per capire, infatti, bisogna riprendere l’inchiesta Arcobaleno che tra il 2009 e il 2010 mostra l’opacità della stessa politica locale. Nelle oltre mille pagine dell’informativa dei carabinieri di Como finiscono centinaia di intercettazioni e decine di amministratori pubblici. Sull’inchiesta pesa attualmente una richiesta di archiviazione.

Ma se i contatti con gli uomini delle cosche da un lato non hanno rilevanza penale, dall’altro le intercettazioni dei carabinieri mettono in primo piano le responsabilità politiche di diversi amministratori pubblici. Tra questi certamente l’attuale presidente del consiglio comunale di Fino Mornasco Luca Cairoli (non indagato), il quale, se tra il 2011 e il 2012 subisce quattro intimidazioni, nel 2010 è in contatto con diversi pregiudicati calabresi. In quell’anno, poi, annotano i carabinieri di Como, Cairoli si occupa della campagna elettorale del consigliere regionale Pdl Gianluca Rinaldin (non indagato), recentemente coinvolto nella “rimborsopoli” della Regione Lombardia. Lo stesso Rinaldin che, intercettato dalla Dda, afferma: “A me interessa la parola (…) cioé preferisco sedermi col peggior delinquente di questo mondo ma di parola”

Tra i vari contatti di Cairoli c’è Luciano Nocera, trafficante di droga legato al boss Bartolomeo Iaconis e alla cosca Muscatello di Mariano Comense, recentemente coinvolta nell’operazione Quadrifoglio del Ros di Milano. Nocera risulta indagato anche per l’omicidio di Ernesto Albanese ucciso a Guanzate nel maggio 2014. Nel 2010 Luca Cairoli spende i propri contatti politici per far ottenere a Nocera una licenza per aprire il locale Black Mamba ad Appiano Gentile.

Il 10 marzo così va in scena un’incredibile intercettazione tra Cairoli, l’allora consigliere regionale Rinaldin e Martino Clerici (non indagato), all’epoca sindaco di Appiano e oggi consigliere di maggioranza nello stesso comune. Cairoli chiama Rinaldin il quale risponde e chiede: “Sono al telefono con il sindaco di Appiano, si chiama Nocera questo qua”. Cairoli: “Sì Nocera”. Dice Rinaldin: “Lo ha appena visto mezz’ora fa e gli risolve il problema (…) aspetta che unisco le telefonate”. Cairoli e Martino Clerici si salutano. Il sindaco: “Lo conosco bene lui (Nocera, ndr)”. Rinaldin chiede a Clerici: “L’hai incontrato oggi?”. Il primo cittadino risponde in modo affermativo. La questione della licenza, dunque, pare risolversi. Cairoli rivolto a Rinaldin: “Gianluca guarda abbiamo fatto un affare perché se il problema glielo risolviamo questo qua è uno che mo smette di lavorare e ci procura voti certi”. A quel punto il consigliere regionale lo ammonisce: “Non parlare al telefono che poi qualcuno…”. Poche ore dopo Cairoli è al telefono con lo stesso Nocera: “Lucio ci ho parlato (…) eravamo in conferenza io, il sindaco e Gianluca Rinaldin che è quello che appoggiamo (…). Il Sindaco, mi fa non c’è problema”.

In quel 2010 Cairoli raccoglie firme per la candidatura di Rinaldin. Per farlo si appoggia anche a Salvatore Larosa soprannominato Satana e ritenuto affiliato alla locale di Fino Mornasco con la dote di santista. Coinvolto nel blitz Insubria del 18 novembre, si consegnerà alle forze dell’ordine dopo pochi giorni di latitanza. I due si sentono spesso. Si salutano con l’appellativo di “compare”. Il 22 febbraio 2010 sono al telefono. Argomento: la campagna elettorale per le regionali. “Noi compare – dice Larosa – adesso dobbiamo andare nei comuni più lontani (…) devo chiedere le schede elettorali”. Risponde Cairoli: “Sì e dì che stai facendo la presentazione della lista e delle schede elettorali”. Della partita elettorale è anche Michelangelo Chindamo l’eminenza grigia della ‘ndrangheta anche lui arrestato il 18 novembre 2014. Larosa si rivolge al boss con il voi. “Quando ci vediamo?”, chiede Chindamo e spiega: “Perché (di firme, ndr) ne ho trovate altre”. Larosa spiega che ne bastano “cinque o sei”, poi dice: “Diciamo che poi è più importante ancora di più il voto queste firme qua sono importanti ma il voto dopo è ancora più importante”

Inquietano e non poco alcune espressioni di Antonio Chindamo (altro politico intimidito nel 2012 e non indagato), il quale, all’epoca delle intercettazioni, è vice sindaco di Fino Mornasco. Il 16 marzo 2010, all’interno dell’ufficio tecnico del comune, Chindamo parla con un architetto e racconta l’episodio di una persona che lo ha minacciato. “Gli ho detto – spiega il politico – se il tuo discorso è quello di intimorirmi perche parli di pistole guarda hai sbagliato strada te lo dico subito (…) Tu sai qual è la mia provenienza? Le pistole le troviamo in ogni angolo del mondo”. Annotano i carabinieri: “Pasquale, fratello di Antonio Chindamo, già candidato nelle elezioni amministrative del 1975 per il comune di Fino Mornasco, nel 1996 viene coinvolto nell’operazione antimafia La notte dei fiori di San Vito bis”. L’indagine Arcobaleno, come detto, si occupa anche del boss Michelangelo Chindamo (nessuna parentela accertata con l’ex politico), scarcerato nel 2009 e riarrestato il 18 novembre 2014. Definito dal Ros di Milano, capo della locale di Fino Mornasco, il 31 luglio 2009 Chindamo viene controllato dalla polizia stradale a Lamezia Terme. L’auto su cui viaggia è intestata alla Omega Team srl di Casnate con Bernate, società riconducibile ai figli dell’ex vicesindaco.

Politici e boss. Contatti, relazioni, favori, voti. Ci sono le intercettazioni, ma ad oggi non c’è reato. Responsabilità politiche però sì e molti ora dovranno spiegare. Questa la feroce istantanea di uno dei territori più ricchi d’Italia.

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Di padre in figlia: Cinzia Mangano

“Noi non abbiamo bisogno di presentazioni”. Diceva così Cinzia Mangano, figlia del boss Vittorio – lo ‘stalliere’ di Arcore – per fare capire a chi le stava davanti chi era e cosa rappresentava. La donna, arrestata con altre sette persone il 24 settembre del 2013, è stata condannata con rito abbreviato sei anni e quattro mesi di reclusione per associazione a delinquere. Con lei sono state condannate dal giudice per l’udienza preliminare a pene fino a otto anni altre cinque persone. Il giudice ha ritenuto che a loro carico non fosse configurabile l’associazione a delinquere di stampo mafioso, ma solo l’associazione semplice.

L’inchiesta era incentrata su una rete di cooperative di servizi che, secondo l’accusa, riciclavano denaro illecito anche per aiutare i familiari degli arrestati e i latitanti. L’organizzazione, secondo gli inquirenti, era una sorta di succursale della mafia siciliana a Milano, attiva già negli anni ’90 e rimasta operativa fino agli arresti. Secondo la Dda di Milano gli arrestati erano in contatto e avrebbero sostenuto l’ex assessore alla Casa della Giunta lombarda, Domenico Zambetti, il quale era invece stato arrestato nell’ambito dell’inchiesta per voto di scambio e presunti legami con la ‘ndrangheta.

Un’associazione a delinquere semplice, anche se dall’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Milano Stefania Donadeo, su richiesta dei pm Marcello Tatangelo e Alessandra Dolci, emergeva una storia criminale che andava dai mandamenti di Pagliarelli e Porta Nuova, cui apparteneva Vittorio Mangano, fino all’eredità raccolta per conto delle cosche di Cosa Nostra dalla figlia Cinzia, dal marito dell’altra figlia Loredana, Enrico Di Grusa, e da Giuseppe Porto ”tra coloro – come scrive il gip – che portarono la bara di Mangano” nel 2000.

”Noi non dobbiamo dimostrare niente, non abbiamo bisogno di presentazioni”, diceva intercettata la Mangano. E questo perché, come spiegava il gip, bastava ”l’autorevolezza del nome” Mangano per esercitare ”l’intimidazione” mafiosa e non c’era bisogno della ”violenza fisica” perché’ le vittime – tra loro tanti ”imprenditori lombardi” – sapevano ”bene chi sono e cosa rappresentano Pino Porto, Cinzia la figlia di Vittorio” e il genero. A ciò, secondo gli inquirenti, si dovevano aggiungere i rapporti stretti con la ‘ndrangheta dei Morabito, da decenni ormai stanziata a Milano. Tanto che, scriveva il gip, Alberto Chillà, uno degli arrestati, ”non parla delle sue societa’ o di quelle di Pino Porto” ma, intercettato, usa l’espressione la ”nostra roba” coinvolgendo negli affari ”anche Salvatore Morabito”.

Inoltre, ”pur non essendovi tra gli scopi contestati all’associazione” mafiosa anche il voto di scambio, osservava il gip, ”sono emersi rapporti tra Pino Porto e diversi soggetti che, in vista delle elezioni, a lui si rivolgono per ottenere un aiuto nelle imminenti consultazioni elettorali”. Relazioni che, secondo il gip, sono ”una sorta di investimento che porterà l’esponente politico a essere riconoscente per l’aiuto richiesto e ottenuto”. Così erano saltati fuori i contatti tra Porto e Gianni Lastella, ex finanziere, candidato consigliere Pdl per il Comune di Milano nel 2011 (non eletto) e ex consulente per il Ministero per l’attuazione del programma di Governo. Poi il ”sostegno” anche a Domenico Zambetti nelle regionali lombarde del 2010: Zambetti che diventerà assessore alla Casa nella Giunta Formigoni e sarà arrestato in un’altra inchiesta per voto di scambio con la ‘ndrangheta e concorso esterno in associazione mafiosa è stato rinviato a giudizio. Porto in pratica, secondo il gip, nelle ”elezioni ragionali del 2010” avrebbe svolto proprio la ”funzione di collettore” e ”procacciatore” di voti.

(fonte)

L’ex assessore Zambetti va a processo

zambetti_manifesto-anteprima-600x529-781792Processo per Domenico Zambetti, l’ex assessore regionale della Lombardia accusato di aver ricevuto voti dalla ‘ndrangheta. Il gup di Milano Andrea Ghinetti ha rinviato a giudizio l’ex politico con delega alla casa della giunta guidata da Roberto Formigoni e altre 8 persone nell’ambito delle indagini sull’infiltrazione della ‘ndrangheta in Lombardia. Il processo partirà il prossimo 8 maggio davanti alla prima corte d’assise.
Tra i rinviati a giudizio ci sono Eugenio Costantino, il presunto boss ritenuto dagli inquirenti uno dei principali referenti dell’ex assessore, l’ex sindaco di Sedriano, il comune dell’hinterland milanese sciolto per mafia, Alfredo Celeste, il chirurgo Marco Silvio Scalambra e Ambrogio Crespi, il fratello di Luigi, l’ex sondaggista di Silvio Berlusconi.

Il giudice ha inoltre condannato con rito abbreviato 12 imputati a pene che vanno dai 14 anni e 8 mesi ai 2 anni e 8 mesi di carcere. Inoltre ha accolto la richiesta di patteggiamento di un altro imputato a 2 anni e 8 mesi di reclusione, e ha assolto una persona e ha stralciato alcune posizioni dichiarandosi incompetente e trasmettendo gli atti al tribunale di Cremona.

I reati contestati a vario titolo sono associazione per delinquere di stampo mafiosoestorsione esequestro di persona. Zambetti è accusato di voto di scambio con i boss.  L’assessore avrebbe pagato 50 euro a voto i “pacchetti” di preferenze offerti dalla criminalità organizzata calabrese nella regione del Nord. Alle elezioni regionali del 2010, Zambetti aveva conquistato oltre 11mila consensi, risultando così tra i più votati. Ma per ottenere il risultato si sarebbe rivolto a ‘portavoce’ dei clan calabresi, pagandogli in varie rate circa 200mila euro.

E se in Lombardia sciogliessero un comune per mafia?

La notizia era nell’aria da qualche giorno e la batosta sarebbe di quelle inimmaginabili. Certo che una regione che sembra avere già dimenticato l’affare Zambetti (un assessore arrestato con l’accusa di avere comprato voti dalla ‘ndrangheta, per dire) potrebbe benissimo fingere indifferenza anche se il Ministro Alfano decidesse di seguire il consiglio scritto nella relazione del Prefetto di Milano di sciogliere l’amministrazione comunale di Sedriano per infiltrazioni mafiose.

Di Sedriano e del suo Sindaco Alfredo Celeste avevamo già avuto modo di scrivere e dire ma ora la questione diventa terribilmente seria. Lo scrive (puntuale come sempre) Davide Milosa:

Tra qualche mese la Lombardia potrebbe ritrovarsi con il primo comune sciolto per infiltrazioni mafiose. Un dato clamoroso se il ministero dell’Interno recepirà in maniera positiva le segnalazioni contenute nella relazione prefettizia inviata al governo  il 10 luglio scorso. Al centro il paese di Sedriano piccolo comune della cerchia a sud di Milano. Dopo sei mesi d’indagine, dunque, la Prefettura segnala al ministro Angelino Alfano serie criticità tali da portare allo scioglimento per mafia.

La commissione, dunque, chiude i lavori iniziati nel febbraio scorso e dopo che nell’ottobre 2012 l’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia ha portato in carcere l’ex assessore regionale del Pdl Domenico Zambetti accusato di concorso esterno e scambio di voti. Al centro i suoi rapporti con la ‘ndrangheta attraverso il faccendiere Eugenio Costantino, che i magistrati ritengono vera e propria cerniera tra le cosche e la pubblica amministrazione. In carcere, allora, finirono gli uomini della cosca Mancuso-Di Grillo e referenti di primo piano del clan Morabito di Africo.

Ma le manette scattarono anche per alcuni politici. Tra questi l’attuale sindaco di Sedriano Alfredo Celeste (poi rimesso in libertà e mai dimesso dalla sua carica politica), di professione insegnante di religione. Secondo gli investigatori, Costantino sarebbe riuscito “ad asservire a fini corruttivi il Sindaco di Sedriano”, ottenendo, in questo modo, “una serie di promesse e di assegnazione di lavori pubblici gestiti dalla sua amministrazione comunale”. Uno scambio che, stando alla tesi dell’accusa, sarebbe stato favorito dal medico Marco Scalambra, marito della capogruppo Pdl a Sedriano.

In questi mesi la commissione prefettizia ha studiato migliaia di carte. In particolare la lente è stata puntata su alcune proprietà catastali legate ad aree a forte espansione contenute nel nuovo Piano di Governo del Territorio.

Dal canto suo Alfredo Celeste ha sempre rivendicato innocenza e trasparenza, tanto da aver messo online gli undici faldoni dell’inchiesta della procura di Milano. Migliaia di pagine dalle quali, secondo i magistrati, emergono, chiare, le ingerenze della ‘ndrangheta nella pubblica amministrazione. Dal comune di Sedriano fino ad arrivare ai piani alti della Regione Lombardia.

Ora, dunque, la palla passa al ministro dell’Interno. Se dovesse arrivare il via libera, anche la Lombardia avrebbe un comune sciolto per mafia. Nel novembre 2010 era stato sciolto il comune di Desio travolto dall’indagine Infinito sulla ‘ndrangheta lombarda. In quel caso, però, non ci fu nessuna commissione d’accesso per infiltrazioni mafiose,  ma perché 17 consiglieri, dopo le notizie di cronache, firmarono le dimissioni.

Rimane da vedere se non sia il caso sul serio di rialzare la voce antimafia anche in faccia al Governo Lombardo che, guarda un po’, dai vecchi potentati ha preso tiepide distanze e ne conserva sotto traccia le alleanze. No?

Zambetti esce

E trova una Lombardia così tanto simile a quella che aveva lasciato:

Al San Raffaele i lavoratori non riescono ad avere risposte e continuano con le occupazioni. Ti aspetteresti che le nuove elezioni abbiano decapitato i vertici della sanità lombarda e invece Mantovani è l’elemento di continuità con il faraone Formigoni.

EXPO continua con i suoi ritardi e continua a chiedere un commissario straordinario che possa, in nome dell’urgenza, saltare la “burocrazia” che è quella bella cosa che serve per garantire controlli e legalità, tra l’altro.

Si continua a parlare di tagli nella sanità senza prendere in considerazione l’ipotesi di cambiare un sistema che è marcio alle radici (anche se va bene a molti in modo bipartisan).

La Lega continua a giocare sulla xenofobia e le paure per racimolare qualche voto basso basso.

E le firme di Formigoni continuano ad essere false.

La ‘ndrangheta? Beh, quella non è mai esistita e in più è stata creata la nuova Commissione Antimafia con tanta buona educazione e i soliti piani di morbidezza dalle nostre parti.

Il tema da non farsi scippare

Un consiglio (umile ma spero utile) agli amici di centrosinistra che in questi giorni stanno “attaccando bottone” in Lombardia per raccontare quanto sarebbe importante cogliere l’occasione di segnare la discontinuità con Umberto Ambrosoli alla guida della regione Lombardia:

  • ricordarsi di ricordare che il Formigoni che è sopravvissuto a tutti gli scandali che uno scrittore di thriller avrebbe potuto immaginare alla fine è caduto sotto i colpi dei presunti contatti con la ‘ndrangheta del suo assessore alla casa Domenico Zambetti. Il tema mafioso è entrato (per la forza della sua gravità) dentro tutte le case dove prima si discuteva di Renzo Bossi e Minetti: potremmo dire che, purtroppo, il tema è diventato popolare.
  • ricordarsi di ricordare che ogni volta è una sfida anche contro una retorica dell’eccellenza: con il Celeste era l’eccellenza sanitaria (nonostante Don Verzè, San Raffaele, Daccò, Santa Rita etc.) ora con Maroni è la retorica dell’antimafia dei fatti (nonostante Dell’Utri, Cosentino, i contatti mafiosi del tesoriere leghista Belsito etc.).
  • ricordarsi di ricordare che il governo Formigoni è stato appoggiato, sostenuto e condiviso dalla Lega Nord. Ricordarsi di ricordare che la Lega ha detto che ormai il PDL era insostenibile per il nuovo corso maroniano. Ricordarsi di ricordare che oggi PDL e Lega sono ancora insieme.
  • ricordarsi di ricordare che l’antimafia è una cosa seria. Che ha bisogno di una preparazione almeno all’altezza della mafia. E che quando diventa slogan la politica ha già perso.
  • ricordarsi di ricordare di stampare questo articolo del Corriere della Sera sui risultati del rapporto «Gli investimenti delle mafie», realizzato dal centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica per il ministero dell’Interno, e tenerselo in tasca discutendone con i colleghi, gli amici, i parenti. Perché sarebbe ora di non farsi scippare il tema. Davvero.

 

grafico_pop_thumb[3]La mafia in Lombardia guadagna 10 milioni al giorno

La presenza di cosche a Milano è pari a Foggia o Trapani. Il mercato lombardo della droga è il più redditizio

Il Pil nero della Lombardia vale 3,7 miliardi di euro. E questo è il valore medio. Perché secondo la stima più elevata i ricavi complessivi dell’economia illegale in regione potrebbero essere superiori ai 5,2 miliardi. Per avere un termine di paragone: il bilancio dell’intera sanità lombarda, capitolo di spesa che assorbe gran parte del bilancio del Pirellone, ammonta a 16 miliardi.

Significa che le organizzazioni criminali italiane e straniere in regione ricavano circa 10 milioni di euro al giorno. Stringendo l’obiettivo, la provincia di Milano è la terza in Italia per numero di aziende confiscate alle mafie, indice significativo delle infiltrazioni criminali nell’economia legale. La radiografia delle penetrazioni mafiose in Lombardia (e in tutta Italia) è contenuta nel rapporto «Gli investimenti delle mafie», realizzato dal centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica per il ministero dell’Interno.
La presenza mafiosa – Il primo capitolo dello studio analizza l’indice di presenza mafiosa nelle province italiane, un indicatore ricavato dall’incrocio di dati su indagini giudiziarie, reati, denunce e confische di beni. Si scopre così che Milano ha un «indice di presenza mafiosa» pari a quello di zone a tradizionale insediamento criminale come Foggia, Brindisi o Trapani, la provincia del capomafia Matteo Messina Denaro. E se in molte altre realtà le infiltrazioni criminali sono più pervasive, Milano è anche l’unica provincia nella quale esiste un contemporaneo e significativo radicamento di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra. E proprio a partire dall’analisi della ricchezza della mafia calabrese si può approfondire il tema degli investimenti: la ‘ndrangheta ricava il 23 per cento dei suoi profitti nella propria regione d’origine, il 21 per cento in Piemonte e il 16 per cento in Lombardia, a conferma del ruolo strategico ricoperto dalle «colonie» del Nord.
La ricchezza criminale – Il mercato lombardo della droga è in assoluto il più redditizio in Italia, con ricavi stimati tra gli 840 milioni e i 2,4 miliardi di euro. Un valore doppio rispetto alla seconda regione in «classifica», la Campania (nonostante i clan che trattano stupefacenti tra le province di Napoli e Caserta siano tra i più potenti al mondo). Incrociando le tabelle messe a punto dai ricercatori di Transcrime si scopre però un dato interessante: soltanto un terzo di quei ricavi in Lombardia finisce alle organizzazioni criminali «tradizionali» (Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta). È la dimostrazione che Milano è un hub della droga per buona parte dell’Italia e del Sud Europa, un luogo di vendita e stoccaggio degli stupefacenti dove operano e guadagnano molto anche gruppi mafiosi stranieri (albanesi, serbi, marocchini).
La Lombardia ha anche il primato dei ricavi collegati alla contraffazione: circa un miliardo di euro l’anno che arrivano dal commercio illegale di attrezzature elettroniche e informatiche, abbigliamento, cosmetici e accessori falsi. Ricavi simili arrivano dallo sfruttamento della prostituzione, «settore» nel quale la Lombardia è seconda soltanto al Lazio.
Infiltrazioni nell’economia – Spiegano i ricercatori di Transcrime: «Interessante notare che nel settore “alberghi e ristoranti” i tassi più alti di concentrazione delle organizzazioni mafiose si registrano nel Nord Italia. Il valore più alto in assoluto a livello nazionale è quello della provincia di Lecco, seguito da Milano». Ovviamente qui si parla soltanto di aziende confiscate, quelle entrate nell’obiettivo della magistratura. Il quadro sconta quindi una «cifra nera» di sommerso che resta sconosciuta. Milano è comunque la terza provincia in Italia per numero assoluto di aziende confiscate. Si legge nell’analisi: «Al Nord la maggior parte delle aziende mafiose si concentra in Lombardia, dove le province di Lecco (7,3 confiscate ogni 10 mila registrate), Milano (3,4) e Brescia (2,7) mostrano tassi anche superiori a quelle di altre aree del Sud, testimoniando il grado di infiltrazione e di diffusione delle organizzazioni mafiose anche nell’economia del Nord». E mentre nelle zone d’origine non esistono commistioni, in Lombardia le mafie sperimentano infiltrazioni attraverso «joint venture» tra diverse organizzazioni criminali o sfruttando la disponibilità delle imprese legali.

Gianni Santucci