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donald trump

Esportano la democrazia con la “madre di tutte le bombe”

Ecco qui:

Gli Usa del presidente Donald Trump hanno sganciato la più potente bomba convenzionale (non nucleare) mai usata nella storia. Il rilascio dell’ordigno è avvenuto in Afghanistan alle 19 ora locale. L’obiettivo è un tunnel usato dalla filiera locale di Isis nella provincia di Achin nella regione di Nangarhar. Lo riferisce la Cnn citando fonti del pentagono. L’ordigno è una ‘Gbu-43/B Massime Ordnance Air Blast (Moab, conosciuta come “la madre di tutte le bombe”) ed è la prima volta che vien impiegato. La , sviluppata nella guerra in Iraq del 2003 ma mai utilizzata, è lunga 9,17 metri ed ha un diametro di 1,02 metri.

Guidata da un sistema Gps sull’obiettivo, pesa 8,5 tonnellate di esplosivo H-6 ad altissimo potenziale e la sua deflagrazione equivale all’esplosione di 11 tonnellate di tritolo. La detonazione avviene poco prima che tocchi il suolo (non è un ordigno penetratore, usato per distruggere bunker in profondità) ed ha un effetto distruttivo totale per qualsiasi cosa si trovi sulla superficie per diverse centinaia di metri di diametro dal punto di impatto. A firmare l’autorizzazione per l’uso dell’ordigno è stato il comandante delle forze americane in Afghanistan, il generale John Nicholson.

(fonte: neXt)

 

Poi vennero a prendere noi, in Vespa, al di là del muro

Poi succede che la paura riduca la percezione degli spazi. Deve essere la mancanza di qualche vitamina oppure un brutto mal di gola o peggio la cattiva abitudine di tenere le finestre sempre chiuse per non farci entrare l’inquinamento morale e risolverlo lasciandolo marcire là fuori.

Arriva qualcuno che promette di sigillarci il cortile, di piantonare la portineria, di abbaiare per noi e ci convinciamo che non facciamo del male a nessuno, che si tratta di una difesa legittima, che non facciamo del male nessuno.

Poi ci promette la deratizzazione. E noi tutti contenti. È questione di igiene. Di pulizia. Sono ratti, del resto. E noi non siamo mica ratti.

Poi ci dice che ci libererà dai rumorosi. Che soddisfazione: la tranquillità è un bene e noi non abbiamo più figli piccoli. Lavorano già, i nostri.

Poi il mastino ci dice che terrà fuori i messicani e noi non siamo nemmeno messicani. E dopo gli islamici perché in parrocchia ci hanno raccontato di un islamico che bestemmia e se bestemmia  lui, che conosciamo solo quello, figurati gli altri. Ci convinciamo di non fare mica male a nessuno, che è solo per l’ordine in difesa delle bestemmie.

Poi ci raccontano che c’è stato, dall’altra parte del quartiere, un problema con qualcuno che ha il nome che inizia per “m” e forse conviene tenerli fuori quello che iniziano per “m”; mica per razzismo, solo per prevenzione. E noi per “m” non abbiamo nemmeno uno straccio di cugino di secondo grado. E ci va bene così.

Poi quelli con i mocassini, poi i lentigginosi, poi quelli che mangiano troppo gelato e subito dopo quelli che ne mangiano troppo poco. E noi sempre più sicuri. Che bello, che meraviglia.

(continua su Left)

E intanto continua la protesta dei Sioux contro l’oleodotto

«Stiamo combattendo contro un sistema e abbiamo bisogno di farlo insieme. Dobbiamo ribellarci tutti insieme». Con queste parole Dallas Gooldtooth, uno degli organizzatori della campagna Indigenous Environmental Network, ha fatto un appello alle persone di tutto il mondo per lottare contro l’abrogazione dei diritti indigeni e per una grande mobilitazione di massa a Standing Rock in Nord Dakota, dove è prevista la costruzione di un oleodotto vicino la riserva dei Sioux.

Martedì scorso, i tecnici del Genio dell’esercito statunitense hanno annunciato l’imminente approvazione della fase finale della costruzione dell’oleodotto Dakota Access. In una lettera indirizzata al Congresso, il segretario dell’esercito Robert Speer ha comunicato che lo studio di impatto ambientale dell’oleodotto, previsto dalla precedente amministrazione, sarà annullato, concedendo un passaggio che permetterà alla compagnia Energy Transfer Partners (società nella quale Donald Trump ha investito, in passato, e il cui amministratore delegato ha finanziato la campagna elettorale dell’attuale presidente statunitense) di trivellare sotto il lago Oahe, lungo il fiume Missouri.

L’esercito ha, inoltre, aggiunto di aver intenzione di sospendere il consueto periodo di attesa di 14 giorni previsto prima che l’ordinanza diventi operativa, consentendo, di fatto, l’inizio immediato dei lavori di trivellazione. La decisione è arrivata dopo che lo scorso 24 gennaio il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva firmato un ordine esecutivo con cui ha dato il via alla ripresa dei lavori per gli oleodotti Dakota Access e Keystone XL, in netta controtendenza con le decisioni assunte dal suo predecessore Barack Obama.

(ne scrive Valigia Blu qui)

Un po’ di chiarezza: perché il provvedimento di Trump non c’entra nulla con quello di Obama

Se ne scrive su Gli Stati Generali:

1) L’ordine restrittivo di Obama del 2011 interessava i rifugiati che provenivano da un solo Paese, l’Iraq, in presenza di una minaccia precisa e circostanziata. Quello di Trump riguarda 7 Paesi senza che nessuna fonte di intelligence abbia dato conto di alcuna minaccia particolare.

2) L’ordine di Obama si applicava ai rifugiati e a chi richiedeva un nuovo tipo di visto (lo Special Immigrant Visa). L’ordine di Trump si applica non solo ai rifugiati ma a tutti (134 milioni di persone), inclusi i possessori di altri tipi di visto. Nella giornata di oggi, lunedi’, dopo il contrasto con il DHS (Department of Homeland Security) pare si sia sbloccata la questione relativa ai possessori di Immigrant Visa (Green Card per i giornalisti italiani). Ma restano ancora fuori i possessori di tutte le altre decine di visti, regolarmente pagati ed ottenuti, che al momento non possono tornare negli Stati Uniti dai loro affetti e dalle loro proprietà. Inoltre, al momento e per 3 o 4 mesi e’ impossibile per chiunque si trovi in questi Paesi chiedere qualunque tipo di visto per gli Usa – cosa mai accaduta con Obama.

3) L’ordine di Obama, nel 2015, prevedeva un emendamento al “Visa Waiver Program” ovvero alla lista dei Paesi i cui cittadini possono entrare negli Stati Uniti senza visto (come per esempio l’Italia, i cui cittadini entrano in America tramite la procedura ESTA). In virtu’ di tale emendamento, 7 Paesi sono stati spostati dalla lista degli Stati i cui cittadini non necessitavano di visto a quelli che invece lo necessitano. Dal 2015 al 2016, comunque, fatti i dovuti controlli numerosi visti sono stati concessi ai cittadini di questi 7 Paesi ed e’ bene ricordare che sul suolo americano, da quando Obama e’ in carica, non e’ mai stata compiuta alcuna azione terroristica da nessun cittadino proveniente da uno di quei Paesi. L’ordine di Trump invece blocca la concessione di visti in modo indiscriminato e come gia’ detto sospende anche i visti gia’ emessi.

4) L’ordine di Obama non comportava la sospensione del visto e dell’accoglienza dei rifugiati, ma una stretta sul “vetting process” -ovvero le procedure dei controlli. Tale stretta era dettagliata nei modi e, fatti i laboriosi controlli, i rifugiati iracheni erano liberi di entrare nel Paese, come accaduto in decine e decine di casi. L’ordine di Trump invece comporta una sospensione automatica, a priori, di tutti i tipi di visto (escluso l’Immigrant Visa, ovvero la Green Card) per 3 e 4 mesi e non dettaglia in che modo verranno fatti i controlli.

5) L’ordine di Obama era stato preceduto da numerosi incontri ufficiali e scritto dettagliatamente. L’ordine di Trump e’ un guazzabuglio giuridico scritto senza avvertire nessuna agenzia governativa, che ha causato una situazione di chaos in cui tutto e’ lasciato alla discrezionalità dei singoli ufficiali, che e’ gia’ stato emendato per quanto riguarda gli Immigrant Visa e che con ogni probabilità verra’ demolito dai ricorsi gia’ presentati dagli avvocati.

(l’articolo completo è qui)

Ann M. Donnelly, la donna che ha schiaffeggiato Trump (e il suo Muslim ban)

(il ritratto di Giulia Belardelli per HP)

Arriva da una donna il primo sonoro schiaffone a Donald Trump: si tratta di Ann M. Donnelly, 57 anni, la giudice federale che con una decisione storica ha bloccato il cosiddetto Muslim ban, l’ordinanza firmata ieri dal neo presidente che impedisce l’accesso negli Usa agli immigrati provenienti da sette paesi a maggioranza islamica (Siria, Iraq, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen).

Spiazzando la Casa Bianca, la giudice Donnelly ha ordinato alle autorità di non procedere alle deportazioni dei cittadini provenienti dai sette paesi musulmani in questione e muniti di visto d’ingresso negli Stati Uniti. La giudice ha accolto la richiesta di una procedura d’urgenza dell’Aclu (l’American Civil Liberties Union) e ha ascoltato la richiesta di fermare le espulsioni di alcuni cittadini stranieri detenuti, in particolare di un siriano che rischiava l’espulsione “entro un’ora nonostante avesse documenti regolari”, come recitava la richiesta dell’Aclu, in quanto la sua incolumità non poteva essere garantita al suo ritorno a Damasco. Il punto – secondo la Donnelly – è che le persone arrestate, fermate e rispedite a casa o bloccate alla partenza erano già state controllate e autorizzate a un visto di soggiorno. Motivo per cui la giudice ha reputato illegittimi i fermi e le deportazioni.

“Vittoria!!!”, ha twittato l’Unione americana per le libertà civili subito dopo la decisione della giudice. “Le nostre corti di giustizia oggi si sono comportate come un baluardo contro gli abusi del governo e gli ordini incostituzionali”, ha aggiunto la potente organizzazione non governativa di difesa dei diritti civili e delle libertà individuali. Anche se la questione è tutt’altro che risolta e nuove udienze dovrebbero tenersi a febbraio, “la cosa più importante oggi era che nessuno fosse messo su un aereo”, ha detto l’avvocato dell’Aclu Lee Gelernt.

Da Washington a San Francisco, dove sono sorte proteste spontanee contro l’ordine esecutivo di Trump, si moltiplicano i ringraziamenti alla Donnelly, che anche su Twitter viene dipinta come la donna che ha dato una bella lezione a The Donald.

Ann, 57 anni, sposata e madre di due figlie, è stata nominata giudice federale da Barack Obama nell’ottobre del 2015. A suggerire il suo nome al presidente Obama era stato il senatore democratico dello Stato di New York Chuck Schumer. Per 25 anni ha lavorato nell’ufficio del procuratore distrettuale di Manhattan Robert Morgenthau. “La sua reputazione è leggendaria”, ha detto Schumer a proposito della Donnelly. “Era una delle persone più ammirate nello staff di Morgenthau”. Nata a Royal Oak, in Michigan, nel 1959, Donnelly si è laureata all’università del Michigan per poi specializzarsi in legge alla Ohio State University.

Dal 1984 al 2009 è stata procuratore aggiunto presso l’ufficio del procuratore distrettuale di New York. Dal 1997 al 2005 è stata consulente senior per i processi e dal 2005 al 2009 ha assunto la direzione del Bureau sulla violenza famigliare e gli abusi sui minori. In qualità di assistente del procuratore distrettuale, Donnelly ha contribuito all’azione legale contro Dennis Kozlowski, ex ceo di Tyco International, condannato tra le altre cose per frode e furto aggravato. Dal 2009 al 2015 ha servito come giudice della Court of Claims di New York, lavorando anche per la Corte Suprema di New York nel Bronx, a Brooklyn e a Manhattan. Poi il passaggio, voluto da Barack Obama, a livello federale.

Con la sentenza che ha fermato temporaneamente il Muslim ban, Donnelly è diventata l’eroina del movimento anti Trump. Un movimento che sta risvegliando la coscienza civica di moltissimi americani, pronti a scendere in strada per manifestare contro provvedimenti ritenuti discriminatori e contrari ai valori che hanno fatto grandi gli Stati Uniti. Nelle prossime ore proteste, scioperi e cortei sono previsti in diverse città americane sotto lo slogan “NO Muslim Ban”, già diventato topic trend su Twitter. A Washington come ad Atlanta, a Chicago come a Seattle, decine di migliaia di persone sono determinate a far capire a Trump che questa volta ha davvero esagerato.

Qui l’ordinanza firmata da Ann M. Donnelly destinata a fare storia:

 

Eccolo, Trump

Ne scrive Il Post:

L’ultimo ordine esecutivo firmato dal presidente americano Donald Trump, che inasprisce i criteri per entrare negli Stati Uniti per i rifugiati o i cittadini di sette paesi a maggioranza islamica, sta creando disagi e proteste in varie città degli Stati Uniti. L’ordine esecutivo, firmato venerdì sera, blocca l’accoglienza dei richiedenti asilo di qualsiasi nazionalità per 120 giorni, e impedisce temporaneamente l’accesso al territorio americano dei cittadini di Iraq, Siria, Iran, Sudan, Libia, Somalia e Yemen, anche se in possesso di regolare permesso di soggiorno. Potenzialmente, l’ordine interessa migliaia di persone già atterrate o in arrivo negli Stati Uniti. L’unico documento che esclude i cittadini di queste nazioni è una cittadinanza statunitense. L’ordine esecutivo vieta anche l’ingresso ai cittadini di quei paesi in possesso di una doppia cittadinanza: per esempio quelli con cittadinanza libica e canadese. In più, l’ingresso dei rifugiati siriani negli Stati Uniti è stato bloccato a tempo indeterminato: non solo per 120 giorni.

I giornali americani stanno documentando diversi casi di richiedenti asilo e semplici cittadini a cui viene impedito di imbarcarsi per gli Stati Uniti oppure che vengono arrestati al loro arrivo (questi ultimi, secondo una stima citata dal New York Times, sono fra i 100 e 200).

L’ordine esecutivo di Trump è probabilmente illegale, ma la legge impone di rispettarlo finché non viene sospeso da un tribunale. Nelle ultime ore due giudici americani sono riusciti a sospendere parzialmente alcune misure contenute nel decreto e hanno permesso che alcune persone arrestate una volta arrivate negli Stati Uniti fossero rilasciate, ma il corpo principale della legge è tuttora in vigore. Una volta che gli effetti dell’ordine esecutivo hanno iniziato a concretizzarsi, sono iniziate anche le proteste organizzate tenute negli aeroporti delle principali città, fra cui New York, Dallas, Chicago e Los Angeles. In particolare, la New York Taxi Workers Alliance (un sindacato di tassisti di New York) ha deciso di non andare a prendere i passeggeri dei voli atterrati a New York, in solidarietà con chi protestava contro Trump.

(continua qui)

Intanto, di là negli USA, la squadra di Trump

(l’AGI sul suo sito mette in fila il governo Trump in formazione)

Ecco chi ha già detto Sì

​Stephen Bannon, 62 anni, ex banchiere di Goldman Sachs, ex patron del sito ultraconservatore e populista Breitbart News, ha guidato negli ultimi mesi la campagna elettorale di Trump, contribuendo a rintuzzare gli attacchi di chi, come lo Speaker della Camera, Paul Ryan, guardava con sospetto la stella nascente. Ma per anni è stato l’uomo, che dalla piattaforma di Breitbart News, ha soffiato sul fuoco dei movimenti più estremi nel panorama politico americano e ferocemente ostile ad Hillary Clinton e allo stesso establishment repubblicano. Sarà lo stratega della linea politica, l’uomo di fiducia del Presidente per le grandi questioni americane e internazionali. La sua prima intervista dopo la nomina ha fatto scalpore: citando Satana e Dart Fener, Bannon ha affermato che “il potere è oscurità”

Reince Priebus – capo dello staff del Presidente
Presidente del partito repubblicano, Reince Priebus, 44 anni, il 20 gennaio diventerà capo dello staff. Laureato in legge alla University of Miami, ha lavorato come avvocato in Wisconsin, dove la sua famiglia si era trasferita dal New Jersey quando aveva 7 anni. Dopo aver perso nel 2004 un’elezione al Senato del Wisconsin, nel 2007 è stato eletto presidente del partito repubblicano dello Stato, il più giovane nella storia. Sin dalla prima ora tra i pochissimi esponenti del Grand Old Party (Gop) non ostili a Trump. La nomina a Chief of staff, ruolo che di fatto gestisce la Casa Bianca, l’accesso al presidente e i rapporti col resto dell’amministrazione e con il Congresso, avrà effetto da mezzogiorno del 20 gennaio 2017 quando Trump si insedierà alla Casa Bianca come 45esimo presidente degli Stati Uniti. Priebus è stato per Trump un ponte con l’establishment e il partito, quando si era creata una frattura tra i vertici Gop e la sua campagna elettorale. Fu lui a organizzare l’incontro pacificatore con lo Speaker della Camera, Paul Ryan.

Jeff Sessions – ministro della Giustizia
Jeff Sessions, 69enne dell’Alabama, ha ricoperto lo stesso incarico a livello statale ed è stato il primissimo sostenitore di Trump alla Camera alta del Congresso, quando ancora il controverso candidato repubblicano era guardato dall’alto in basso dai maggiorenti del partito. Presto è diventato uno dei più ascoltati consiglieri di Trump. E’ un conservatore molto radicale ma rispettato da compagni di partito e avversari per la sua competenza giuridica e la sua integrità. Convinto antiabortista, vuole combattere contro l’immigrazione clandestina e la parità tra coppie etero e omosessuali. Inoltre è favorevole al taglio della spesa pubblica e a una lotta senza quartiere alla criminalità.

Elaine Chao – ministro dei Trasporti
Elaine Chao, 63 anni, è immigrata da Taipei (Taiwan) negli Usa quando aveva 8 anni. La sua famiglia era fuggita dalla Cina dopo l’avvento al potere dei comunisti nel ’49. Repubblicana, nel 1989 viene scelta dal presidente George H. W. Bush come vice ministro dei Trasporti: è la prima volta che una donna, e per di più di origine asiatica, ricopre un incarico del genere. Nel 2001 è nominata dal presidente George Bush Jr ministro del Lavoro. Nel comunicato del team di transizione, si spiega che Chao è stata scelta alla guida dei Trasporti perché “porta con sé esperienza senza pari e comprensione del ruolo”. Il dipartimento dei Trasporti sarà centrale per il massiccio piano di investimenti per la ricostruzione delle infrastrutture annunciato da Trump in campagna elettorale.

Tom Price – ministro della Salute
Deputato repubblicano della Georgia, 62 anni, Tom Price è stato uno dei grandi oppositori della riforma sanitaria di Barack Obama. E’ dunque, come spiegato nel comunicato del team di transizione, “eccezionalmente qualificato per gestire il nostro impegno ad abrogare e sostituire Obamacare, e offrire un’assistenza sanitaria a buon mercato e accessibile per ogni americano”. Chirurgo ortopedico, eletto al Congresso nel 2004, Price è contrario all’aborto e al controllo delle armi ed è presidente della commissione Budget della Camera. Si è schierato a favore dell’estensione del Patriot Act, la legge contro il terrorismo arrivata in risposta all’11 settembre (che violava la privacy dei cittadini e che è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema nel 2007).

Mike Pompeo – direttore della Cia
Mike Pompeo, 52 anni, eletto in Kansas ma nativo della California, chiare origini italiane (i suoi antenati venivano dalla Campania), ha lavorato in uno studio legale e ha fondato una società aerospaziale di successo. Ha avuto un avvicinamento più tortuoso al presidente eletto: diede l’endorsement a Trump senza troppa enfasi dopo aver appoggiato alle primarie Marco Rubio. Più che con il magnate, ha uno stretto rapporto con il suo vice, Mike Pence. E’ favorevole all’abolizione del trattato nucleare con l’Iran, “tanto disastroso con il principale Stato sostenitore del terrorismo al mondo”.

Michael Flynn – consigliere per la Sicurezza nazionale
Il 57enne Michael Flynn è stato advisor di Trump durante la campagna elettorale, dimostrandosi un “perfetto surrogato” – per usare un’espressione del Politico – contro la democratica Hillary Clinton, attaccata per aver messo a rischio informazioni classificate con l’utilizzo di un server di posta privato quando era segretario di Stato. I democratici lo accusano di essere islamofobo e simpatizzante del presidente russo Vladimir Putin. Registrato tra gli elettori democratici, vanta 33 anni di carriera militare, con posizioni di primo piano, dalla guida di missioni Nato in Afghanistan e in Iraq fino alla direzione della Dia (Defence Intelligence Agency) dal 2012 al 2014, quando è stato licenziato dal presidente Barack Obama.

Kathleen T. McFarland – vice-consigliere per la Sicurezza nazionale
Kathleen T. McFarland, nata a Madinson, nel Wisconsin, 65 anni fa, ha mosso i primi passi sotto Richard Nixon, come collaboratrice di Henry Kissinger, per poi fare carriera durante l’amministrazione di Ronald Reagan. Esperta di politica estera e di difesa, fiera oppositrice del presidente Barack Obama, è un volto noto della Fox News, emittente conservatrice, dove ha tra l’altro condotto il programma DefCon3. Nel 2013, dopo l’accordo tra Washington e Mosca che indusse il presidente siriano, Bashar al-Assad, ad accettare di smantellare il suo arsenale chimico, proclamò che Vladimir Putin meritava il Premio Nobel per la Pace.

Nikki Haley – ambasciatore Usa all’Onu
Nikki Haley è il nuovo ambasciatore Usa alle Nazioni Unite. Governatore della Carolina del Sud, 44 anni, di origini indiane e di famiglia sikh immigrata dal Punjab, è la prima donna ad assumere un ruolo di rilievo nella nuova amministrazione del presidente eletto Donald Trump, in fase di formazione. Sposata, con due figli, dal 2010 governatore del South Carolina, sarebbe sponsorizzata dal genero di Trump, l’influente Jared Kushner. La Haley viene indicata come un’esponente dell’ala più intransigente e conservatrice del Partito repubblicano ed era stata inserita anche in una ristretta rosa.di candidati per il ruolo di segretario di Stato.

Steven Mnuchin – ministro del Tesoro
Steven Mnuchin, 53 anni, laureato a Yale, fa parte di una delle famiglie di origine ebraica più in vista della finanza newyorkese. Ex banchiere di Goldman Sachs, oggi numero uno della finanziaria Dune Capital e presidente finanziario della campagna elettorale di Trump. Mnuchin, dopo aver accumulato milioni di dollari con Goldman Sachs si è dato alla produzione di film e ha fondato una società che ha finanziato, tra l’altro, la produzione di successi del botteghino come ‘Avatar’ e ‘American Sniper’.

Wilbur Ross – segretario al Commercio
Trump sceglie il miliardario Wilbur Ross per la poltrona chiave dell’economia Usa, quella di segretario al Commercio. Il settore è tra i più delicati visto il rivoluzionario piano di Trump per scardinare il libero scambio, eliminando alcuni dei principali trattati, tra cui il Nafta e il Tpp. Wilbur Ross (del New Jersey, 79 anni, patrimonio personale di 2,9 miliardi di dollari creato ristrutturando imprese dell’acciaio, del carbone, delle telecomunicazioni) è noto col soprannome di “Re della bancarotta”, perché si è arrichito ristrutturando e rivendendo le compagnie in difficoltà usando le leggi sul fallimento.

James Mattis – capo del Pentagono
James Mattis, soprannominato “Mad Dog”, cane pazzo, il generale in pensione ha sempre detto di vedere nell’Iran una minaccia e di non condividere l’accordo del luglio 2015 sul suo programma nucleare, proprio come Trump. Mattis gode della stima dell’intero corpo dei Marines, di cui ha fatto parte per 44 anni, spesso guidando le truppe in guerra come nel sud dell’Afghanistan nel 2001 e in Iraq dal 2003, dove si distinse nella durissima battaglia di Falluja dell’anno dopo. Nel 2010 approdò alla guida del Central Command, posto da cui controllava tutte le forze americane in Medio Oriente. Da uomo di prima linea, però, il generale a quattro stelle ha usato a volte un linguaggio fin troppo diretto, in stile George Smith Patton: nel 2005 a una conferenza a San Diego affermò che “è un gran divertimento sparare a uomini che schiaffeggiano le loro donne per cinque anni perché non portano il velo”, come in Afghanistan. Nel 2003 alle sue truppe impegnate in Iraq aveva detto: “Siate gentili, siate professionali ma dovete avere un piano per uccidere chiunque incontriate”.

Ben Carson – ministro dell’Edilizia e dello Sviluppo Urbano
Il 65enne Ben Carson, originario di Detroit, è il primo nero a entrare nell’amministrazione di Trump. Medico in pensione, è stato direttore di Neurochirurgia Pediatrica al Johns Hopkins Hospital dal 1977 al 2013. E’ famoso per aver separato nel 1987 una coppia di gemelli siamesi con un intervento chirurgico entrato nella storia della medicina. E’ autore di tre bestseller, fra cui l’autobiografia ‘Mani Miracolose’. Già candidato alle primarie repubblicane, seguace della chiesa avventista, Carson aspirava al ministero dell’Istruzione per poter realizzare le sue idee creazioniste, che mettono in discussione la teoria evolutiva. La sua nomina all’edilizia è stata duramente criticata dai democratici per la mancanza di esperienza nel settore: dovrà gestire l’agenzia da 48 miliardi che sovraintende all’edilizia pubblica, compreso il delicato dossier delle case popolari.

Linda McMahon per le piccole e medie imprese
L’ex amministratore delegato della World Wrestling Administration (Wwa) Linda McMahon scelta come capo della Small Business Administration, ovvero come ministro per la piccola e media impresa. “Linda ha un incredibile background ed è ampiamente riconosciuta come una delle più importanti executive e consulente d’affari a livello globale”, ha dichiarato Trump in una nota, ricordando come la futura ministra abbia trasformato un piccola azienda in un’impresa con 800 dipendenti in uffici nel mondo. La McMahon è cofondatrice, insieme al marito Vince McMahon, del franchise di wrestling Wwe. Ha lasciato la guida della società nel 2009, per tentare senza successo due corse al Senato, nel 2010 e nel 2012.

Al Lavoro Andrew Pudzer
Il ministro del Lavoro sarà Andrew Puzder, Ad della colosso dei fast-food ‘CKE Restaurant’. Puzder è uno dei maggiori finanziatori e sostenitori della prima ora di Trump ma soprattutto è tra i maggiori critici dell’innalzamento a livello federale della retribuzione minima dell’orario di lavoro a 15 dollari. Puzder, che nella sua catena di fast-food, tra i marchi più noti Hardee’s e Carl’s Jr, paga i suoi dipendenti 7,25 dollari l’ora, ritiene che alzare la paga minima a 15 dollari farà aumentare i costi delle società, quindi a ricaduta per i consumatori e alla fine questo porterà al taglio di posti di lavoro perché meno gente sarà disposta a pagare di più per lo stesso panino.

​Seema Verma, neo amministratore dei Centers for Medicare and Medicaid Services, l’agenzia federale che gestisce la salute pubblica.

RUOLI IN VIA DI DEFINIZIONE

L’ad della Exxon, Rex Tillerson, Segretario di Stato​
Il 64enne texano Rex Tillerson è a un passo dalla poltrona di Segretario di Stato. Presidente e ceo del colosso petrolifero Exxon, è considerato molto vicino a Vladimir Putin. Nel 2011, come riferisce il Wall Street Journal, il petroliere concluse un accordo del valore potenziale di 500 miliardi di dollari tra Exxon e la compagnia petrolifera statale russa, OAO Rosneft ma tutto saltò per le sanzioni inflitte dall’amministrazione Obama a causa dell’annessione nell’aprile del 2014 della Crimea da parte di Mosca.Putin fu comunque così riconoscente da conferire a Tillerson l’Ordine dell’Amicizia, la più alta onorificenza russa che può essere conferita ad un cittadino straniero che ha contribuito a migliorare i rapporti tra Mosca ed un’entita’ o stato straniero

Ex ambasciatore Usa all’Onu John Bolton
Il falco John Bolton, 67 anni, ex ambasciatore all’Onu, neo-conservatore, ha ricoperto vari incarichi nell’amministrazione Reagan e sotto i due presidenti Bush padre e Bush figlio. Acceso sostenitore dell’invasione dell’Iraq nel 2003, nel 2005 fu nominato ambasciatore all’Onu. Durò solo un anno, poi il Congresso non convalidò il secondo mandato. Negli ultimi anni ha svolto attività di lobbista nell’area iper conservatrice e su posizioni fortemente filo-israeliane.

Il petroliere Harold Hamm favorito per il ministero dell’Energia
Al dicastero dell’Energia, snodo strategico per l’annunciato ritorno agli idrocarburi e al carbone, dovrebbe andare Harold Hamm, 70 anni, Ceo di Continental Resources. un miliardario del petrolio dell’Oklahoma, ex consigliere per l’energia di Mitt Romey durante la campagna presidenziale del 2012. Secondo Forbes il suo patrimonio nel 2016 ammonta a 13,1 miliardi di dollari. È fra i principali responsabili dell’affermazione dello shale gas, grazie al quale ha fatto fortuna in North Dakota e ha rivoluzionato l’economia del Paese. Inoltre è uno strenuo oppositore dell’oleodotto Keystone, che dovrebbe pompare greggio attraverso il Nord America, dai giacimenti dell’Alberta, in Canada, alle raffinerie del Texas.

Joe Arpaio favorito per la carica di ministro dell’Interno
Joseph Michael ‘Joe’ Arpaio, sceriffo di Maricopa County in Arizona, 84 anni, deciso a utilizzare il pugno di ferro contro l’immigrazione illegale. Famoso per le proposte-choc e le inchieste sul certificato di nascita di Barack Obama, appare il favorito alla carica di capo dell’Homeland Security. Unico ostacolo sembra essere la sua età.

Parla Bernie Sanders: «Trump? Addolorato ma non sorpreso»

(di Bernie Sanders)

Milioni di americani martedì scorso hanno espresso un voto di protesta, ribellandosi a un sistema economico e sociale che antepone ai loro interessi quelli dei ricchi e delle grandi imprese. Ho dato forte appoggio alla campagna elettorale di Hillary Clinton, convinto che fosse giusto votare per lei. Ma Donald J. Trump ha conquistato la Casa Bianca perché la sua campagna ha saputo parlare a una rabbia molto concreta e giustificata, quella di tanti elettori tradizionalmente democratici. L’esito elettorale mi addolora, ma non mi sorprende. Non mi sconvolge il fatto che milioni di persone abbiano votato Trump perché sono nauseate e stanche dello status quo economico, politico e mediatico.

Le famiglie lavoratrici vedono che i politici si fanno finanziare le campagne da miliardari e dai grandi interessi per poi ignorare i bisogni della gente comune. Da trent’anni a questa parte troppi americani sono stati traditi dai vertici delle aziende. L’orario di lavoro è aumentato e gli stipendi diminuiti, i lavori pagati dignitosamente si spostano in Cina o in Messico. Queste persone sono stufe di avere capi che guadagnano 300 volte più di loro, e che il 52 per cento di tutti i nuovi proventi vada all’un percento della popolazione. Molte delle città rurali, un tempo belle, sono ormai spopolate, i negozi in centro chiusi e i giovani vanno via da casa perché non c’è lavoro – tutto questo mentre tutta la ricchezza delle comunità va a rimpinzare i conti delle grandi imprese nei paradisi fiscali. I lavoratori americani non possono permettersi servizi per l’infanzia decorosi e di buon livello. Troppe famiglie sono in condizioni disperate e sempre più spesso la vita si accorcia per colpa della droga, dell’alcol e dei suicidi.

Trump ha ragione: gli americani vogliono il cambiamento. Ma mi chiedo che tipo di cambiamento gli offrirà. Avrà il coraggio di opporsi ai potenti di questo paese, i responsabili delle difficoltà economiche patite da tante famiglie o dirotterà invece la rabbia della maggioranza sulle minoranze, sugli immigrati, i poveri e gli indifesi? Avrà il coraggio di opporsi a Wall Street, di adoperarsi per sciogliere le istituzioni finanziarie “troppo grandi per fallire” e imporre alle grandi banche di investire nella piccola impresa e creare posti di lavoro?
Sarò aperto a riflettere sulle idee proposte da Trump e su come si possa lavorare assieme. Però, siccome il voto popolare nazionale lo ha visto sconfitto, farà bene a dare ascolto alle opinioni dei progressisti. Ricostruiamo le nostre infrastrutture fatiscenti e creiamo milioni di posti di lavoro ben pagati. Portiamo il salario minimo a un livello dignitoso, aiutiamo gli studenti a sostenere i costi dell’università, garantiamo il congedo parentale e per malattia e incrementiamo la sicurezza sociale. Riformiamo il sistema economico che permette a miliardari come Trump di non pagare un centesimo di tasse federali. E non permettiamo più che i ricchi finanziatori delle campagne elettorali comprino le elezioni.
Nei prossimi giorni proporrò anche una serie di riforme per ridare slancio al Partito Democratico. Sono profondamente convinto che il partito debba liberarsi dai vincoli che lo legano all’establishment e torni a essere un partito di base della gente che lavora, degli anziani e dei poveri. Dobbiamo aprire le porte del partito all’idealismo e all’energia dei giovani e di tutti gli americani che lottano per la giustizia economica, sociale, razziale e ambientale. Dobbiamo avere il coraggio di sfidare l’avidità e il potere di Wall Street, delle case farmaceutiche, delle compagnie assicurative e dell’industria dei combustibili fossili.
Allo stop della mia campagna elettorale ho promesso ai miei sostenitori che la rivoluzione politica sarebbe andata avanti. E questo è più che mai il momento giusto. Siamo la nazione più ricca della storia del mondo. Se restiamo uniti senza permettere che la demagogia ci divida per razza, genere o origine nazionale, non c’è nulla che non possiamo realizzare. Dobbiamo andare avanti, non tornare indietro.
Traduzione di Emilia Benghi The New York Times Company

«La paura e la democrazia diffida del potere»

(di Michele Ainis un pezzo che vale la pena leggere e ritagliare)

LE ISTITUZIONI sono come il corpo umano: per animarle, serve uno spirito che ci soffi dentro. Ma lo Zeitgeist, lo spiritello che governa il nostro tempo, ha il fiato grosso, l’alito cattivo. Succede, quando ti monta in gola la paura. Quando il presente ti sgomenta, il futuro ti spaventa. E quando gli altri, tutti gli altri, t’appaiono come una minaccia, un esercito invasore.

Da qui Brexit, Trump, nonché gli altri sconquassi che si profilano sul nostro orizzonte collettivo. Ma da qui inoltre una domanda, che investe i destini stessi della democrazia. Quali istituzioni nell’epoca dell’insicurezza? E c’è ancora spazio per libertà e diritti mentre prevale la paura?

Non che la democrazia sia una creatura ingenua, senza sospetti né timori. Al contrario: diffida degli uomini, e perciò diffida del potere. Sa che è inevitabile, giacché in ogni società c’è sempre stato chi governa e chi viene governato. Ma al tempo stesso sa che i governanti abuserebbero della propria autorità, se non avessero redini sul collo. L’uomo è un diavolo, non un santo. Sicché occorre una regola che imbrachi il potere, che gli tagli le unghie, che gli impedisca di farci troppo male.
La democrazia nacque così, nella Grecia di 25 secoli fa. Nacque con il sorteggio e con il voto popolare, con la rotazione delle cariche, con i limiti alla loro durata. E nel Settecento fu poi rinverdita dalla teoria di Montesquieu: «che il potere arresti il potere», altrimenti nessuno potrà mai dirsi libero. Come affermava, nel modo più solenne, l’articolo 16 della Déclaration, vergata dai rivoluzionari francesi nel 1789: «Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione».

Insomma, la democrazia si fonda su una promessa di diritti. E i diritti, a loro volta, hanno una doppia vocazione. Sono indivisibili, nel senso che spettano a ciascun individuo, perché in caso contrario si trasformerebbero in altrettanti privilegi. Sono universali, nel senso che tendono a superare le frontiere, come mostrano le innumerevoli Carte dei diritti siglate in ambito internazionale. Da qui il tratto forse più essenziale dei sistemi democratici: l’accettazione dell’altro, l’apertura verso lo straniero. Secondo l’antico rituale greco della xenia, l’accoglienza tributata agli ospiti.

Ma adesso questa prospettiva viene revocata in dubbio, spesso rovesciata nel suo opposto. Le istituzioni modellate dai nuovi sentimenti di paura si ripiegano in se stesse, si rinchiudono in atteggiamenti puramente difensivi. Alzano muri, come in Ungheria e in Bulgaria. Erigono barriere alla circolazione delle persone e delle merci, come ha auspicato Donald Trump durante la sua campagna elettorale, rispetto all’immigrazione messicana e ai trattati commerciali con la Cina o con l’Europa. Sono nazionaliste, isolazioniste, xenofobe. Hanno in sospetto il pluralismo delle identità culturali e religiose. Odiano le procedure cui la democrazia affidava la tutela dei diritti, perché quando ti senti minacciato vuoi dal governo una reazione rapida, efficace. E vuoi un governo forte, senza troppi contrappesi. Come negli Usa: Trump ha dalla sua tutto il Congresso, non succedeva ai repubblicani dal 1928.

Tuttavia c’è un paradosso in questa nuova condizione. Perché la democrazia della paura si regge anch’essa su un’attesa di diritti, pur negando diritti agli stranieri. Dice, in sostanza: sono stati loro a toglierci il lavoro, la prosperità, la sicurezza. Dunque ricacciamoli indietro, respingiamoli al di là delle nostre frontiere, se necessario con le maniere spicce; dopo di che ci impadroniremo dei nostri vecchi diritti. Ma allora la domanda è un’altra: può esistere un’entità politica antidemocratica verso l’esterno, che si conservi democratica al suo interno? La storia non ci offre precedenti. Abbiamo conosciuto invece, e molte volte, l’esperienza inversa: per esempio nell’Atene del V secolo, dopo la sconfitta militare nella guerra del Peloponneso.

Ma dopotutto è la democrazia medesima a costituire un’eccezione, una scheggia della storia. A osservare la corsa dei millenni, i regimi teocratici e dispotici esprimono di gran lunga la regola, come la guerra rispetto al tempo di pace. Forse non si tratta che di questo, forse la regola sta riconquistando il suo primato sull’eccezione.

(La Repubblica, 11 novembre 2016)

Si sbellicavano per Berlusconi. E ora hanno Trump.

“Italia: spaghetti, pizza, mamma, Berlusconi”. Come ridevano gli americani negli anni d’oro del berlusconismo. “Ma come fate con Berlusconi?”, “perché Berlusconi?”, ogni volta con Berlusconi pronunciato con la erre che cadeva e quattro elle polposissime. Gli Usa non si sono mai risparmiati quando c’era da fare ironia sulle gaffe internazionali di Silvio Berlusconi mentre era in carica alla Presidenza del Consiglio italiana e anche le testate giornalistiche (video e della carta stampata) hanno prodotto moltissimo materiale così è normale che oggi, con Trump diventato Presidente, Silvio ricompaia.

“Pensate che Trump sia un disastro? Chiedete di Berlusconi agli italiani”, titolava il primo agosto di quest’anno il quotidiano The Local: nel suo articolo il giornalista John Henderson analizzava “la storia che si ripete” per “mettere in guardia tutti quelli che hanno intenzione di votare Donald Trump”. Sempre con l’obiettivo di mettere in guardia gli elettori americani aveva scritto, quest’estate, anche Eric J. Lyman, firma di peso di USA Today, che in Italia ha vissuto e lavorato per alcuni anni proprio a cavallo del periodo d’oro del berlusconismo: “gli italiani – scriveva Lyman il 3 luglio 2016 – offrono un avvertimento a tutti i cittadini americani ì: pensateci due volte prima di votare Trump”. “I due hanno molto in comune. – scrive USA Today – Sono entrambi miliardari arricchitisi nel settore immobiliare che si sono presentati in politica incarnando il senso del “nuovo” e promettendo di mettere al servizio del Paese il proprio fiuto per gli affari per rivitalizzarne l’economia. Entrambi sono sfacciati e sicuri di sé, con una reputazione di grandi donnaioli. Entrambi vedono nell’immigrazione la colpa dei mali dei propri Paesi e si dimostrano impermeabili alle gaffe che avrebbero sicuramente affondato un politico comune.” “Hanno anche una preoccupazione in comune: – ironizza Lyman – entrambi sono ossessionati dai propri capelli”.

Ancora più pesante è Washington Post che in un pezzo di Rula Jebreal (dal titolo eloquente “Donald Trump è l’America di Silvio Berlusconi”) costruisce parallelismi: “Basterebbero lezioni di storia recente della politica italiana – scriveva il WP il 21 settembre scorso – per preoccupare gli elettori americani sulla possibilità di una vittoria di Donald Trump”. E poi: “chiedete agli elettori italiani che hanno trascorso ben nove anni governati da Silvio Berlusconi che è stato il più longevo primo ministro d’Italia. Ha iniziato come un demagogo ricco sull’orlo del fallimento, la sua celebrità – come per Trump – si è costruita nel campo immobiliare e dell’intrattenimento popolare. Berlusconi si è presentato come uomo forte ma con l’atteggiamento del pacchista, vendendo false promesse di ricchezze e grandezza per tutti. Come Trump Berlusconi si è presentato da estraneo della politica promettendo di riportare il Paese agli standard internazionali che gli competono. «Io sono il Gesù Cristo della politica. Mi sacrifico per tutti» diceva Berlusconi e così Trump ci promette di diventare «il più grande presidente degli USA che sia mai sabato creato»”. Il pezzo non si limita alla cronaca ma lancia anche un appello: “È urgente che l’America impari la lezione italiana. Quando l’Italia ha sottovalutato Berlusconi ritenendolo solo un buffone ignorante, una figura comica inadatta a guidare un Paese alla fine non riuscì comunque a fermarlo”.

(il mio editoriale per Fanpage continua qui)