“Siamo la regione con più morti di mafia e non li sappiamo nemmeno contare”, ma sappiamo contare 100 passi, e tutto quello che Giulio Cavalli racconta nel suo spettacolo “Duomo d’onore – A cento passi dal Duomo”, da ieri per 7 sere in prima nazionale al Teatro della Cooperativa. Lea Garofalo, “morta ammazzata”, raccontata fino alle ultimi recenti notizie del ritrovamento del corpo, l’operazione “Crimine-Infinito” con gli intrecci “tutti casuali”, Loreno il paninaro di Città Studi, e le patetiche, se non ridicole amnesie dei suoi colleghi davanti ai giudici, Expo, e tutti gli interessi lì nascosti, “ma neanche troppo nascosti”. “Anche a Milano c’è l’irraccontabile, ma fa meno paura se ci parli su” e l’attore, consigliere regionale uscente di Sel, “l’unico ad esser ascoltato dal Gip senza essere stato arrestato” – togliendosi sassolini dalle scarpe e senza tralasciare nomi e particolari -, ieri sera è partito con il suo viaggio aprendo il sipario di via Hermada. Nella valigia, invisibile, di cartone, come l’essenziale scenografia, tante storie raccolte con l’aiuto del gip di Milano Giuseppe Gennari e diversi giornalisti (Gianni Barbacetto, Cesare Giuzzi, Davide Milosa, Mario Portanova, Biagio Simonetta e Giovanni Tizian) . Date, numeri, nomi che hanno fatto titolo nei Tg, forse per qualche ora, a teatro, nel secondo capitolo di “A cento passi dal Duomo”, prendono forma e diventano organici se spiegati con la mimica e la grinta di Cavalli, accompagnato dal fisarmonicista Guido Baldoni in scena con lui, ad eseguire musiche appositamente composte e da improvvisare seguendo flash back e divagazioni appassionate Come l’ultima storia, che arriva perfino dopo i ringraziamenti, concessa ad un pubblico che non ha fiatato “ed è venuto ad ascoltare queste cose, il martedì sera, in un teatro di periferia, pure” scherza attore. L’appendice fuori programma dello spettacolo ha il rumore dei 14 spari, 3 a segno, arrivati all’altezza del secondo lampione della passeggiata domenicale con il cane, che uccisero il magistrato Bruno Caccia, il 26 giugno 1983, a Torino. Cavalli, dopo il successo del primo capitolo, risalente alla stagione 2009-2010, torna a raccontare, aggiorna, riprende il filo del discorso lombardo, a pochi mesi dalla questione Zambetti, immancabile: “e con 50 euro a voto, si è fatto anche fregare sul prezzo”. Suscitando anche risate, risate consapevoli, risveglia tutti dal torpore, un torpore meno torpore di quelli in cui irruppe in scena con il capitolo primo, ma non manca di sottolineare che a Milano “di queste cose non si parla” con l’ironia che sa ben dosare punzecchiando senza offendere. “Sono fantasie, illazioni, supposizioni”. Intanto, attorno al palco, al pubblico, a cento passi da lì, ci sono “case a forma di case che sono soldi vestiti da case, invendute. Soldi, a forma di capannoni e di bar. Mafia a forma di bar, in centro, con consumazione obbligatoria. Strade, asfalto. E sotto: merda. Pensioni buttate in videopoker. E in ipermercati ogni 5 km”. C’è altrettanta potenza, ma meno spensieratezza, di due anni fa, ammette lui stesso, a sipario che sta per chiudersi, mentre ringrazia la sapiente regia di Renato Sarti: “ci sono state evoluzioni e rivoluzioni, e c’è scappata anche qualche involuzione, scusate”. In ogni caso ieri il suo viaggio è cominciato, ricominciato, dal capitolo due, senza perdere il segno, e neanche la voglia di raccontare quel binomio ‘ndrangheta-Lombardia sempre più forte ma anche sempre più noto.
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