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egitto

Rimangono solo l’asinello e il bue

Sono andati a messa, i senatori assenti che hanno affossato lo Ius soli, si sono fatti accarezzare dal loro parroco e hanno pregato a mani giunte in bella mostra con tutta la giunzione che ci si aspetta da un Natale che precede di pochi mesi le prossime elezioni. Staranno inscenando tutta la bontà di cui sono capaci, protagonisti del pranzo in cui loro, da esimi senatori, danno lezioni di mondo come si addice a una classe dirigente sempre diligente alla proiezione che vogliono dare di se stessi.

Faranno foto tutto il giorno stando bene attenti a non inquadrare regali troppo costosi per non inimicarsi “la base”, con qualche spruzzata di qualche nonno ché la vecchiaia ha sempre il suo bell’effetto di tenerezza e, sicuro, inonderanno i propri social con mielose frasi di pace rubate da qualche sito di aforismi trovato grazie a google.

Poi, immancabile, ci sarà il presepe, che di questi tempi è l’olio di ricino a forma di statuette.

Fotograferanno, ignoranti, quell’immagine che rappresenta la nascita di un bambino palestinese rifugiato in Egitto, i tre Magi (un uzbeko, un somalo e un siriano), i pastori pieni di cenci e portatori di malattie, quella madre e quel padre che da irresponsabili hanno pensato bene di avere un figlio senza nemmeno avere una casa e nemmeno un lavoro e in più fotograferanno le pessime condizioni igieniche in cui sono abituati a vivere perché è “la loro cultura”.

Poi racconteranno ai figli e ai nipotini di Babbo Natale, di minoranza etnica lappone che vorrebbe fingersi finlandese.

E alla fine rimangono solo il bue e l’asinello. E l’ipocrisia, a fiumi, insieme al prosecco.

Buon Natale.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2017/12/25/rimangono-solo-lasinello-e-il-bue/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

Renzi trova coraggio su Regeni. E sbaglia verso.

Dunque Matteo Renzi, il Matteo Renzi che è stato sempre così docile con Al Sisi e l’Egitto ha trovato il coraggio. Sarà la campagna elettorale.

Ma non conta solo l’inglese maccheronico con cui scrive il tweet («For Giulio Regeni we demand only the truth. Are the Prof of Cambridge hiding something? ») ma conta soprattutto il fatto che trova contro Cambridge il coraggio che non ha avuto con Al Sisi.

Uno scempio. Uno scempio di paraculaggine.

Perché, di certo, non è stata Cambridge a torturare Giulio. Sicuro.

Ecco come l’amico Al Sisi sta trattando l’avvocato dei Regeni: in cella nudo e torturato

(un articolo importante di TPI)

Il 13 settembre era stata confermata la decisione dell’Egypt’s State Security Prosecution (SSP), il tribunale di sicurezza nazionale legato al ministero dell’Interno egiziano, di tenere prigioniero per  giorni Ibrahim Metwally, avvocato del team legale della famiglia Regeni al Cairo.

Mohammed Lotfy, responsabile della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (ECRF), ha dichiarato a TPI che oggi è stata deciso il rinnovo della detenzione per altri 15 giorni.

“Metwally ha raccontato ai nostri avvocati di aver subito torture durante il suo periodo di detenzione nella sezione di massima sicurezza Scorpion, del carcere di Tora, a sud del Cairo”, ha detto Lotfly.

“Gli sono stati tolti tutti i vestiti e il suo corpo è stato sottoposto a scosse elettriche. È in isolamento, senza energia elettrica, e la cella è piena di spazzatura”.

Inoltre, secondo quanto riporta Lotfy, un comitato delle autorità per gli investimenti, accompagnato da responsabili della sicurezza statale e dalla polizia, ha fatto irruzione nel suo ufficio di ECRF.

“Hanno annunciato di voler chiudere la società e porla sotto sigilli. L’avvocato che era presente al momento dell’irruzione ha spiegato loro che si tratta di un studio legale e solo per questo motivo al momento hanno desistito”.

Lotfy, che ha collaborato e tuttora collabora con Ibrahim Metwally al caso di Giulio Regeni, ha spiegato che il comitato ha annunciato l’intenzione di tornare la prossima settimana.

Lo stesso comitato aveva ispezionato gli uffici di ECRF a ottobre del 2016, pubblicando una relazione nella quale si rilevava nello studio la presenza di volumi sui diritti umani e sulle sparizioni in Egitto, attività dai contorni politici e pertanto distante da quella prevista per uno studio legale.

“Questa notte o domani verrà pubblicata una dichiarazione del comitato”, ha concluso Lotfy.

Metwally è accusato di avere stabilito un canale di comunicazione con non meglio precisate entità straniere, allo scopo di mettere in pericolo la sicurezza dell’Egitto. L’avvocato è rinchiuso a Tora dal 10 settembre, giorno di cui si erano perse le tracce dell’uomo.

Gli amici egiziani: è “scomparso” uno degli avvocati della famiglia Regeni

Bloccato all’aeroporto del Cairo mentre andava a Ginevra per intervenire a un’assemblea delle Nazioni Unite per parlare di diritti umani. Non si hanno più notizie dal 10 settembre di uno degli avvocati egiziani della famiglia RegeniIbrahim Metwaly. Dalle prima informazioni sembra che sia stato fermato proprio mentre stava per imbarcarsi sull’aereo diretto in Svizzera.

Solo il 5 settembre scorso, il sito web della Egyptian commission for rights and freedom, l‘organizzazione che rappresenta legalmente la famiglia del ricercatore, è stato oscurato. “Il regime sta iniziando la vendetta contro di noi”, aveva detto a ilfattoquotidiano.it il presidente Ahmed Abdallah. Lunedì scorso, il ministro degli Esteri Angelino Alfano aveva annunciato davanti alle commissioni degli Esteri riunite di Camera e Senato il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo. “L’Egitto è un partner ineludibile”, si era giustificato.

Il 12 settembre il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, sarà ascoltato alle 15 in audizione al Copasir. Il premier, che ha mantenuto per sé la delega all’intelligence, riferirà su tutti aspetti che riguardano le minacce alla sicurezza nazionale e l’organizzazione dei servizi e, nel corso dell’audizione, il deputato grillino Angelo Tofalo ha annunciato che chiederà chiarimenti sulla vicenda Regeni e sugli accordi con la Libia che hanno determinato un netto freno ai flussi migratori. “Sarà”, ha scritto Tofalo su Facebook, “l’ultimissima possibilità per raccontare la verità sull’atroce morte di Giulio Regeni e cosa il nostro Governo realmente sapeva fin da quel primo tragico giorno del ritrovamento del corpo di Giulio e forse anche prima. Risposte chiare bisognerà darle anche e soprattutto sul fronte Libia dopo la relazione dell’Associated Press relativa agli accordi italiani con contrabbandieri e trafficanti”.

(fonte)

Su Regeni e sulle ragioni della giustizia

(da minima&moralia)

I diciannove mesi che ci separano dalla sparizione forzata di Giulio Regeni e dal ritrovamento del suo corpo, reso quasi irriconoscibile dalla tortura, hanno visto una mobilitazione inedita da parte della società civile italiana.

L’Italia intera, dal basso, si è stretta solidale attorno alla famiglia Regeni che, a sua volta, ha assunto con coraggio e generosità l’onere di dare voce al dolore, alla rabbia ed allo sdegno degli amici e dei colleghi del loro figlio, inclusi coloro cui una morte prematura, violenta e insensata non ha concesso di incontrarlo in vita, ma che con lui hanno condiviso, a distanza, un’esperienza intellettuale e una visione umanistica del mondo.

Di fronte a questa mobilitazione capillare, immediata e spontanea, che ha coinvolto i grandi comuni e i piccoli centri, il mondo dell’arte, dello sport, della cultura, le università, le società professionali, le scuole, e le tante famiglie che hanno i figli che studiano o lavorano all’estero, il governo italiano e quello egiziano sono stati costretti a permettere alla procura di Roma di indagare sul caso, smantellando uno a uno i tanti depistaggi e i tentativi di diffamazione del ricercatore italiano. Anche una certa stampa, per troppo tempo allineata su tesi complottistiche, alla ricerca dello scoop, dovrebbe arrendersi all’evidenza schiacciante dei fatti.

Come scrisse Andrea Teti – uno degli autori di questo testo e della lettera al Guardian del 6 febbraio 2016, firmata da migliaia di professori in tutto il mondo: “È questa sua normalità l’aspetto più difficile da comprendere del caso di Giulio Regeni: normale la ricerca, normali i metodi, normali le analisi.” Quello che non è normale è il suo assassinio. La società civile lo ha capito fin dal primo giorno.

Non sorprende, dunque, che questa società civile abbia accolto con molto sgomento l’annuncio del governo italiano, alla vigilia di Ferragosto, del ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo, che di fatto ufficializzerebbe la normalizzazione dei rapporti tra i due paesi.

In quanto esperti di politica internazionale e ricercatori con forte esperienza sul campo in Egitto, esprimiamo i nostri profondi dubbi intellettuali, morali e politici sulle spiegazioni offerte dal governo italiano per il ritorno dell’ambasciatore al Cairo. Non crediamo che il ritorno dell’ambasciatore italiano – sia pure una figura autorevole come Cantini – possa contribuire a un cambiamento di atteggiamento da parte del governo egiziano per far luce sulla straziante vicenda di Giulio Regeni. La scelta di far rientrare il nostro rappresentante diplomatico, senza aver ottenuto una reale collaborazione nella ricerca della verità, non solo significa quasi sicuramente abbandonare le ultime speranze di fare giustizia per Giulio, ma tradisce anche una profonda incomprensione dell’efferato operato del regime egiziano. Inoltre essa mina il tentativo – supposto – di raggiungere obiettivi di stabilità e sicurezza per il nostro Paese.

La decisione del governo è altamente discutibile sia nei modi che nei contenuti. Nei contenuti, perché la ragione data dal Ministro Alfano per il ritorno dell’ambasciatore – l’opportunità di seguire e agire più da vicino la vicenda – è quanto meno poco credibile: la presenza al Cairo del precedente ambasciatore Massari, nonostante la sua esperienza sul campo, la sua credibilità e la sua dedizione, non è certo servita a ritrovare salvo Giulio né a fare chiarezza. Ma la decisione è anche molto discutibile nei modi, sia in quanto rilasciata a ferragosto, sperando evidentemente nella distrazione del pubblico, sia in quanto coincide con il quarto anniversario del massacro di Raba’a al-Adaweyya, in cui centinaia di oppositori alla destituzione del Presidente Morsi vennero massacrati in pieno centro al Cairo. In quel massacro – la strage più violenta nella storia moderna egiziana – vennero uccisi non solo Fratelli Musulmani, ma anche membri della società civile democratica e secolare.

Inoltre, la normalizzazione dei rapporti diplomatici in questo modo ed a queste condizioni è quasi impossibile che ottenga i risultati positivi che i suoi sostenitori pretendono di volere. Al contrario, a nostro avviso, si rischia di indebolire notevolmente la posizione dell’Italia sotto vari punti di vista:

Primo, la reputazione dell’Italia: Il rientro dell’ambasciatore manda un chiarissimo messaggio al popolo ed alla società civile egiziani, e cioè che l’Italia non è disposta a perseguire una seria politica di difesa dei suoi cittadini e dei loro diritti umani, né tantomeno di quelli degli egiziani. Questo inevitabilmente danneggia la reputazione sia dell’Italia che dell’Unione Europea, che si fregiano di essere difensori di diritti umani e valori democratici. Dall’Egitto la società civile segue con attenzione questa vicenda, ben consapevole che essa mette alla prova i princìpi, la coerenza e la credibilità della politica estera italiana.

Secondo, la sicurezza di cittadini e ricercatori italiani in Egitto, nonché della società civile egiziana: Se, come sembra, la scelta del governo segnala una resa nei confronti della vicenda di Giulio Regeni, essa mette direttamente in pericolo sia i ricercatori italiani, sia la comunità italiana in Egitto, che la società civile egiziana. Gli attivisti egiziani, ricordiamo, si sono prodigati e continuano ad esporsi in prima persona per cercare giustizia per Giulio. Quando Giulio venne ritrovato, in Egitto vigeva già una legge che vieta le manifestazioni – eppure, decine di giovani si raccolsero di fronte all’ambasciata italiana per una veglia in memoria di Giulio. Facendo questo, hanno rischiato l’arresto e gli abusi della polizia. Hanno scritto: “È morto come un egiziano”. La madre di Khaled Said, martoriato anche lui dalle forze dell’ordine anni prima, per aver cercato di denunciare poliziotti corrotti ed icona della rivoluzione del 2011, parlò di Giulio come fosse figlio anche suo. Il 25 gennaio di quest’anno – anniversario della scomparsa di Giulio, ma anche della rivoluzione egiziana del 2011 – la memoria di Giulio circolava nei network egiziani, attraverso i social media. Il portale di informazione indipendente, Mada Masr, ha dedicato diversi articoli coraggiosi a Giulio, esponendosi di nuovo a notevoli rischi. Ad una conferenza alla Camera dei Deputati il 3 Febbraio di quest’anno, anniversario del ritrovamento del corpo martoriato di Giulio, la giornalista egiziana Lina Attalah, caporedattrice e fondatrice di Mada Masr e alumna del Collegio del Mondo Unito di Duino, proprio come Giulio, ha affermato: “L’atrocità di questa morte è un grido per tutti noi. Ci urla in faccia, così come ci interpellava il senso di affinità che tutta la sua vita e la sua opera di ricercatore dimostravano a persone come me che si adoperano per i diritti dei detenuti in Egitto. In qualità di giornalisti avevamo il dovere di far luce su quanto era accaduto a Giulio, ma anche far luce su un contesto più ampio e sulle condizioni che hanno portato a questo esito.” Troviamo inaccettabile che tutte queste persone, che con noi e con Giulio condividono una visione del mondo, siano messe in pericolo dall’indifferenza del governo italiano e dell’Unione Europea.

Terzo, la Ragion di Stato: I sostenitori della decisione del governo asseriscono che, per quanto moralmente spiacevole, la vicenda di una singola persona non può avere priorità sugli interessi nazionali. Ma è importante sottolineare che l’interesse nazionale non viene servito da questa decisione, ne viene anzi danneggiato. Questa scelta a nostro avviso non raggiunge e non può raggiungere gli obiettivi di sicurezza posti dal governo e dall’Unione Europea. Come hanno dimostrato le rivoluzioni arabe del 2010-11, la sicurezza senza giustizia sociale e politica è inevitabilmente precaria ed instabile, e destinata a creare pericoli ancora maggiori. Anche la convinzione che il ritorno dell’ambasciatore possa consolidare la posizione geopolitica italiana – in Libia come nei rapporti commerciali con l’Egitto – pare dettata più da ottimistiche speranze che dalla realtà dei fatti. Al contrario, questa normalizzazione diplomatica assume le dimensioni di una controproducente ostinazione a compiacere il regime egiziano sulla base di erronee valutazioni del nostro interesse nazionale.

Quarto, il governo italiano vuole davvero ottenere la verità su Giulio Regeni?: Il dubbio che il governo abbia avuto da sempre poco interesse a premere sull’Egitto per fare luce sulla vicenda c’era sin dall’inizio: tranne il doveroso ritiro della delegazione commerciale che si trovava al Cairo quando venne ritrovato il corpo martoriato di Giulio, il governo si è mosso solo dopo il successo della campagna di mobilitazione della famiglia e della società civile. Lo Stato italiano ha sostanzialmente fatto due soli passi a sostegno della causa di Giulio: primo, sospendere temporaneamente le forniture di parti per gli F-16 egiziani, cosa fatta dal parlamento; e, secondo, ritirare l’ambasciatore, che fino all’annuncio di ieri rimaneva l’unica pressione esercitata dall’esecutivo. Il nostro Paese è il primo partner commerciale europeo dell’Egitto, eppure sanzioni economiche non sono state prese in considerazione. L’ENI è il maggiore produttore di idrocarburi in Libia, ed ha in concessione il grosso giacimento egiziano Zohr, eppure nemmeno questa leva è stata usata. Infine, nessun serio tentativo è stato fatto per portare la questione a livello europeo. I sostenitori della decisione del governo dicono che non avere un ambasciatore era diventata ormai una “pistola scarica” – ma è difficile non trarre la conclusione che il governo quella pistola non l’abbia mai caricata.

Il governo ci ha messi di fronte al fatto compiuto del ritorno dell’ambasciatore al Cairo, asserendo che questa azione fa parte di una strategia sincera per arrivare alla verità. Noi ci auguriamo che sia così, ma come tutte le forze che hanno sostenuto la ricerca di verità e giustizia per Giulio e la sua famiglia, ci riserviamo di osservare da vicino il comportamento del governo nei prossimi mesi. Ci aspettiamo, ad esempio che la presenza dell’ambasciatore ottenga una reale collaborazione dalle istituzioni egiziane. Ci aspettiamo concreti passi in avanti nelle indagini, quali l’invio delle registrazioni video delle stazioni della metropolitana della sera del 25 gennaio, i nomi degli agenti di sicurezza coinvolti nella sorveglianza di Giulio, e l’accesso diretto e rapido a tutti i testimoni che la procura di Roma riterrà opportuno ascoltare.

Stabilità e sicurezza non possono prescindere da verità e giustizia: fare luce sulla vicenda di Giulio non è solo un atto dovuto alla sua famiglia, ma anche una presa di responsabilità internazionale, che contribuirebbe a ripristinare la giustizia e lo stato di diritto in Egitto, aiutando quindi a stabilizzare il Mediterraneo. Del resto, l’ambasciatore Cantini, pur essendo stato nominato dal governo, ha il compito di rappresentare gli interessi del popolo sovrano.

Ci rammarica che tutte le indicazioni fino a questo punto siano andate in senso contrario, suscitando in noi pesanti dubbi. Sarebbe confortante essere smentiti.

In chiusura ricordiamo le parole del nostro collega. Nel 2006, quando aveva appena 19 anni, Giulio rilasciò un’intervista in cui, alla domanda: “Che cos’è la libertà?” rispose: “La possibilità di esprimere te stesso a livello intellettuale all’interno di un sistema sociale capace di supportarti nelle tue scelte”. Proprio questo obiettivo – che era poi l’obiettivo delle rivolte arabe – dovrebbe essere la priorità per il nostro Paese: libertà e giustizia sociale. Questi non soltanto ideali, ma sono anche obiettivi politici nel nostro interesse nazionale. Per questo ci aspettiamo che la richiesta di giustizia e verità per Giulio Regeni e la solidarietà alla sua famiglia si traducano in azioni concrete da parte del governo. A volte può essere vero che la ragion di stato e gli interessi nazionali siano contrari alle vicende dei singoli e della giustizia.

Questo però non è uno di quei casi.

Il 18 agosto 2017,
Roma, Berlino, Sydney, Aberdeen

Lucia Sorbera
Andrea Teti
Gennaro Gervasio
Enrico De Angelis

 

“Nelle carte egiziane ci saranno soltanto bugie“: parla l’avvocato della famiglia Regeni

(da Il Fatto Quotidiano)

“Nelle carte egiziane ci saranno soltanto bugie“. Sono le parole di Ahmed Abdallah, avvocato della famiglia Regeni, dopo l’annuncio del governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo, tra le proteste della famiglia, in seguito ai nuovi atti che l’Egitto ha inviato alla procura di Roma. Intervistato dal Corriere della Sera, Abdallah è intervenuto anche sulla clamorosa rivelazione del New York Times Magazine di “prove esplosive raccolte dall’amministrazione Obama e girate al governo Renzi” sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso in Egitto nel febbraio del 2016: “Mi aspettavo che ci fosse stata una comunicazione tra Roma e Washington, ma adesso vogliamo sapere la verità da entrambi i governi, americano e italiano”. In merito, la fonte del quotidiano americano afferma di non avere “dubbio alcuno che dai documenti che trasmettemmo all’Italia si potesse capire quello di cui eravamo fortemente convinti: che i servizi di sicurezza egiziani fossero responsabili del rapimento e dell’omicidio di Giulio Regeni”, come ha rivelato in un’intervista a Repubblica.

Da una parte i nuovi atti che l’Egitto ha inviato alla procura di Roma, dall’altra le informazioni girate dagli 007 statunitensi a Palazzo Chigi. Gli sviluppi nel caso di Giulio Regeni non convincono Abdallah, presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, ong che offre consulenza ai legali della famiglia del ricercatore ucciso. Così, mentre i giornali egiziani festeggiano il ritorno dell’ambasciatore italiano, l’avvocato avverte: “Non c’è nessuna cooperazione tra gli inquirenti”. “Il procuratore generale Nabil Ahmed Sadek, che dovrebbe garantire la giustizia in Egitto, ha rifiutato finora di consegnarci il fascicolo sull’uccisione di Giulio e ha bloccato ogni tentativo legale di ottenerlo. La famiglia non ha avuto nessuno degli atti”, ha spiegato al Corriere.

“Non sappiamo nemmeno se quelli inviati agli inquirenti italiani siano un riassuntodell’inchiesta oppure gli originali – ha aggiunto Abdallah – sulla base di quello che abbiamo visto sinora, mi aspetto che il fascicolo sia pieno di bugie”. “Abbiamo diversi nomi”, ha spiegato il legale, arrestato il 25 aprile 2016 e rimasto quattro mesi e mezzo in carcere. “Il primo è quello di Sharif Magdi Abdlaal, il capitano della sicurezza di Stato che diede la telecamera per monitorare Regeni al capo del sindacato dei venditori ambulanti. Abdlaal è la stessa persona che ordinò il mio arresto e falsificò le prove contro di me”. Poi c’è il colonnello Mahmoud al Hendy, “che mise i documenti di Giulio nella casa del presunto capo dei gangster accusati di aver rapito il ragazzo”, ha detto nell’intervista al quotidiano di via Solferino. “Entrambi sono potenti e non sono stati incriminati né sottoposti a indagini serie: possono manipolare le prove e minacciare chiunque sia pronto a dire la verità”, ha poi concluso Abdallah.

Verità che l’avvocato della famiglia Regeni chiede anche sui documenti passati dagli Usa al governo Renzi. A far scoppiare il caso, rivelandolo al Nyt, è stato un alto funzionario dell’amministrazione Obama, rimasto anonimo, che ora ha confermato a Repubblica: “Chiedemmo di passare agli italiani quante più informazioni possibili”. E’ una delle persone che ha seguito fin dal primo momento il caso Regeni, “perché ci aveva sconvolto e temevamo che la stessa cosa potesse accadere a un americano”. Gli 007 statunitensi non aprirono un’inchiesta specifica, ha spiegato la fonte, ma raccolsero molto materiale. “Concludemmo che la responsabilità era dei servizi di sicurezza egiziani – ha rivelato – so per certo che le informazioni furono trasmesse via servizi segreti, non per canali diplomatici, e che lo scambio avvenne in diverse occasioni, non in una sola volta. Tutto questo accadde nelle settimane successive al ritrovamento del corpo di Regeni”.

Cosa contenessero esattamente i documenti arrivati a Roma non è dato saperlo. L’alto funzionare ha spiegato a Repubblica della necessità di “proteggere le fonti”. “Per questo non so dire se fu rivelata l’identità dell’unità specifica responsabile della morte di Giulio”. “Ma non ho dubbio alcuno – ha aggiunto – che dai documenti che trasmettemmo all’Italia si potesse capire quello di cui eravamo fortemente convinti: che i servizi di sicurezza egiziani fossero responsabili del rapimento e dell’omicidio di Giulio Regeni. E che quello che era accaduto fosse noto ai livelli più alti dello Stato egiziano”.

Intanto i rapporti tra Egitto e Italia si normalizzano. Alla faccia di Giulio Regeni. E l’Eni gode.

Al-Masry Al-Youm, quotidiano egiziano, ha pubblicato il 25 dicembre scorso la notizia, appresa da fonti della Farnesina, che Giampaolo Cantini, nominato da Matteo Renzi a maggio scorso ambasciatore d’Italia in Egitto, arriverà a gennaio al Cairo prendendo il posto lasciato vacante, dall’aprile scorso, dall’ambasciatore Maurizio Massari, assegnato a Bruxelles. Rapporti in distensione, come ha fatto capire il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni durante la conferenza stampa di fine anno che ha spiegato che la linea del governo in questi mesi è stata improntata “alla fermezza e alla richiesta di collaborazione verso le autorità egiziane” e “dopo i depistaggi iniziali, abbiamo visto una collaborazione molto utile“.

Progressi sul piano politico ma anche in quello economico. L’Eni infatti ha annunciato di aver firmato due nuovi accordi di concessione per i blocchi offshore di North El Hammad e North Ras El Esh, situati nelle acque convenzionali dell’offshore egiziano del Mediterraneo, che la società si era aggiudicati nell’ambito del Bid Round Internazionale competitivo Egas 2015. Eni, informa una nota, è operatore del blocco North El Hammad con la quota del 37,5% in compartecipazione con Bp, con il 37,5%, e Total, con il 25%. Il blocco, che ricopre un’area di 1.927 Km quadrati, è situato a ovest delle aree di sviluppo di Abu Madi West e Baltim-Baltim Sud, dove recentemente Eni ha effettuato le importanti scoperte di Nooros, in produzione da agosto 2015 e Baltim South West. Eni possiede anche una quota del 50% nel blocco North Ras El Esh in compartecipazione paritetica con Bp, operatore. Il blocco è ubicato a sud-ovest delle aree di sviluppo di Temsah e Port Fouad. Queste nuove assegnazioni, che seguono quelle recenti del blocco onshore Southwest Meleiha, nel deserto occidentale, e Shorouk, Karawan e North Leil, situati nelle acque profonde dell’offshore egiziano del Mediterraneo, consolidano ulteriormente il portafoglio titoli e la posizione di Eni in Egitto, paese di importanza storica e strategica per la società, e confermano la determinazione nel perseguire l’attività esplorativa del paese, dopo le importantissime scoperte di Nooros, Zohr and Baltim South West, effettuate nel 2015 e nel 2016.

(fonte)

Giulio Regeni, tutte le bugie di Mohamed Abdallah

(B. Maarad per l’Espresso)

Il suo nome è stato presente fin dall’inizio. Mohamed Abdallah ha sempre fatto parte del caso Regeni. E’ stato uno dei primi testimoni a farsi avanti. Ha fornito però versioni contrastanti. Cambiavano in base all’andamento delle indagini. Dalla sua totale estraneità al suo pieno coinvolgimento. E oggi Mohamed Abdallah, il capo del sindacato autonomo degli ambulanti, continua a nascondere la verità.

Il nome di Abdallah spunta la prima volta in una dettagliata ricostruzione del caso fatta dal quotidiano Almasry Alyoum il 26 febbraio, un mese dopo la sparizione di Giulio. Il sindacalista si è presentato alla redazione del giornale a raccontare la sua versione dei fatti accompagnato da un collega. “L’ho incontrato più di dieci volte”, ha raccontato. “Sono andato con lui al mercato di Ahmed Hilmy, dove abbiamo incontrato alcuni ambulanti, e poi l’ho accompagnato a New Cairo dove ne abbiamo conosciuti altri”.

In questa versione Abdallah dice di aver visto Giulio Regeni più di dieci volte, nelle future diventeranno solo sei. Ma non è questo il punto debole di questa prima testimonianza. Mentre infatti il suo collega, Rabie Yamani, esprime la sua vicinanza a Regeni, mostrando anche un sms con cui avevano concordato un appuntamento per il 17 gennaio che poi Giulio avrebbe annullato, Adallah si tiene distante. “Prima che ripartisse per le vacanze di Natale mi aveva proposto di partecipare a un bando promosso da una fondazione inglese. Da quel momento non mi sono più sentito tranquillo e ho quindi cominciato ad allontanarmi da lui”.

In realtà, già nel servizio pubblicato da Almasry, veniva citata la testimonianza dell’amico di Giulio, Amrou Asaad, che riferiva il tutto in modo completamente diverso: “Prima di partire, Giulio aveva proposto agli ambulanti di partecipare a questo bando per una somma di circa 10mila sterline. Dopo il suo ritorno però ha ignorato l’argomento perché, mi ha spiegato, era rimasto deluso da uno dei responsabili del sindacato che ne voleva approfittare”. Non è tutto. Abdallah, nonostante avesse espresso questa sua sensazione negativa, ha assicurato ai cronisti di non essersi rivolto alla polizia: “Non sono una spia. Anche se dovessimo trovare un cadavere, ci gireremmo dall’altra parte”. E’ un modo egiziano per dire “ci facciamo i fatti nostri”.

Ha voluto però andare oltre, forse nel tentativo di distogliere l’attenzione: “Giulio parlava e scherzava con tutti. Magari qualcun altro ha avuto la mia sensazione. La metà degli ambulanti sono informatori della polizia”. La prima smentita è già nelle righe successive. Ci pensano gli agenti di polizia che controllano il mercato dove Abdallah ha detto di essersi recato con Giulio più volte: “Impossible, se fosse venuto qua l’avremmo visto. Inoltre abbiamo le telecamere che registrano tutto, non lo possiamo nascondere”. Abdallah ha mentito più volte già nella sua prima dichiarazione. E’ emblematico il commento pubblicato da un lettore: “Ho la sensazione che quello che si fa chiamare Mohamed Abdallah abbia qualche collegamento diretto con l’omicidio di Regeni. Il movente c’è sicuramente. Nessuno può indagare meglio con questa persona?”.

Le indagini vanno avanti (o comunque si finge) senza considerare il ruolo di Abdallah. C’è maggiore impegno a inscenare lo scontro a fuoco con la banda di quelli che sarebbero poi stati indicati come i responsabili del sequestro del ricercatore italiano. Il tentativo di depistaggio fallisce il 24 marzo. Una settimana dopo, l’8 aprile, fallisce anche il primo vertice a Roma tra gli inquirenti italiani e quelli egiziani.

Il nostro Governo decide di richiamare l’ambasciatore italiano al Cairo. I rapporti diplomatici si fanno sempre più deboli. Un mese dopo torna alla ribalta il nome di Abdallah. La prima settimana di maggio la procura italiana riceve infatti i tabulati della chiamate di cinque utenze, tra queste quella del sindacalista. Anche in questo caso lui si dice completamente estraneo ai fatti. “Non so nulla riguardo alle intercettazioni, non so nemmeno se sia legale il fatto che l’Egitto le abbia consegnate all’Italia”.

La prima vera svolta arriva con il vertice in Italia del 9 settembre. Emergono due aspetti fondamentali: la polizia egiziana aveva indagato Giulio e, soprattutto, lo aveva fatto a seguito di un esposto del 7 gennaio firmato da Mohamed Abdallah. Da tenere presente le tempistiche, Regeni ha lasciato il Cairo il 20 dicembre, con la proposta del bando, e ci è tornato il 2 gennaio, con la bocciatura del finanziamento da 10mila sterline. Cinque giorni dopo scatta la denuncia. In ogni caso, Abdallah smentisce categoricamente. L’11 settembre giura sulle pagine di ‘Shorouk e Tahrir’ di “non aver firmato alcun esposto o fatto telefonate o inviato messaggi”.

Dice però di più: “Mi sono pentito di non averlo fatto, perché la ricerca di Giulio non era sugli ambulanti ma sul loro rapporto con la polizia”. E si dice addirittura “disponibile a sacrificarsi per il bene del Paese”. Insomma “se la procura ha deciso che io ho fatto quell’esposto, mi prendo la responsabilità. Non voglio che sia incolpata la polizia per un omicidio che non ha commesso. Sono pronto a essere una vittima per l’Egitto se questo servirà a chiudere il caso e a ristabilire i rapporti con l’Italia”.

Qualche giorno dopo, in nuove versioni, Mohamed Abdallah conferma di aver denunciato Regeni per “amor di patria”. O magari semplicemente ha dato il via al suo sacrificio. Il tutto viene confermato nelle dichiarazioni rilasciate all’ Huffington post arabo martedì sera.

Giulio Regeni, quali sono le novità

(Ne scrive Bianconi per il Corriere della Sera)

Negli ultimi due mesi di vita, Giulio Regeni è stato «monitorato» dalla polizia egiziana o dai suoi informatori fino alla vigilia del sequestro. Fotografato e filmato. I contatti tra le forze di sicurezza e il capo del sindacato dei venditori ambulanti (nonché confidente degli investigatori) Mohamed Abdallah, con cui Giulio aveva stretto rapporti, sono andati avanti fino al 22 gennaio scorso: tre giorni dopo il ricercatore friulano è stato sequestrato, torturato, ammazzato e abbandonato sul ciglio di una strada del Cairo.

È stato lo stesso Abdallah, interrogato dai magistrati egiziani, a spiegare che «la polizia sembrava intenzionata a proseguire il monitoraggio di Regeni per vedere che comportamento avrebbe tenuto nei giorni intorno al 25 gennaio»: era l’anniversario della rivolta di piazza Tahir, una data simbolica e temuta dal regime del generale Al Sisi. Sembra una giustificazione offerta dal sindacalista per spiegare le notizie fornite su Giulio, anche dopo che la polizia e i servizi segreti avevano concluso che non era una persona pericolosa per la «sicurezza nazionale».

Il nuovo tassello di un difficile e ancora largamente incompleto mosaico è stato fornito dal procuratore generale della Repubblica egiziana Nabil Sadek nell’ incontro con il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco. Terminato con un comunicato congiunto, nel quale si assicura che «la collaborazione continuerà attraverso lo scambio di atti d’ indagine fino a quando non sarà raggiunta la verità in ordine a tutte le circostanze che hanno portato alla morte di Giulio Regeni».

In realtà le novità svelate ieri erano conosciute da tempo dagli inquirenti egiziani, anche prima del precedente «faccia a faccia» di settembre, ma evidentemente non è facile indagare sugli apparati di sicurezza; in ogni caso la Procura di Roma non può che insistere, con la determinazione mostrata fin qui, per conoscere il più possibile dell’ inchiesta in corso, valutarne le mosse, fornire suggerimenti e svolgere accertamenti in proprio laddove è possibile.

Al momento la pista innescata dalle denunce di Abdallah resta la più concreta e consistente, visto che la polizia gli chiese di realizzare un video dei suoi colloqui con Giulio, consegnato all’ inizio del 2016 subito dopo il rientro di Giulio dalle vacanze di Natale. Ufficialmente l’ interesse della polizia per il ragazzo italiano cessa il 14 gennaio, ma dopo quella data Abdallah ha continuato a chiamare esponenti dei servizi segreti locali, fino al 22; ricostruzioni divergenti che si potranno spiegare – forse – una volta acquisiti gli interrogatori degli investigatori egiziani.

Altrettanto importante sarà conoscere le versioni dei poliziotti coinvolti nella sparatoria in cui furono uccisi i presunti rapitori, e quelli che hanno trovato i documenti di Regeni, vicenda che «suscita interrogativi», come ribadisce il comunicato congiunto. Ma ci vorrà a tempo. Si procede a piccoli passi, nella speranza che non ci si fermi o addirittura non si torni indietro.

È la richiesta dei genitori di Giulio che martedì hanno incontrato il procuratore generale Sadek, al quale hanno mostrato alcune foto del figlio ritratto in momenti di felicità.

«Perché sappiate di chi vi state occupando», hanno sottolineato. «Vi chiedo di non fermarvi a qualche anello intermedio della catena», ha detto il padre, Claudio Regeni, al magistrato venuto dal Cairo.

Che ha promesso verifiche «senza escludere nessuna direzione» per dare giustizia a «un ragazzo esemplare», non più considerato spia o spacciatore, bensì un «portatore di pace». L’ avvocato della famiglia, Alessandra Ballerini, ha chiesto di poter accedere al fascicolo dell’ indagine attraverso i suoi colleghi egiziani, e che ciò possa avvenire senza rischi per la loro sicurezza. Le hanno risposto di sì. Se sarà vero si vedrà.

L’Egitto alla guida dei diritti umani dell’Onu. Alla faccia di Giulio Regeni.

Va bene che la politica ha le sue regole. Ci diranno, ancora una volta, che la cortesia internazionale prevede che si accettino le decisioni degli altri. Ma c’è un limite di decenza, un limite di dignità e soprattutto una misura minima del rispetto a Giulio. Se qualcuno pensava che questo silenzio intorno a Giulio fosse insopportabile ora si deve ricredere. L’Egitto che ha maciullato Giulio è nel Consiglio Onu per i Diritti Umani. Leggere per credere:

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