Vai al contenuto

espiatori

Chi sono gli scafisti, i capri espiatori di procure e politica

Quante volte li abbiamo sentiti nominare, perfino dai politici più cauti che in questi ultimi anni hanno provato a fingere (male) di essere i “buoni” e di non avercela con gli immigrati ma almeno di potercela avere con gli “scafisti”.

Gli scafisti, come molte altre cose nel mondo dell’immigrazione, sono diventati un’etichetta che si appiccica su tutto senza dover fare troppo caso alla complessità. Arrestare gli scafisti è diventato il gesto minimo per non apparire buonisti e per dare una parvenza di “legalità” (quella legalità che fa rima sempre con repressione) e di controllo: arrestare lo scafista è il modo semplice per offrire alla folla un presunto responsabile degli sbarchi, anzi molto spesso l’unico responsabile secondo la semplicistica narrazione.

Il circolo Arci Porco Rosso, che si trova nel multietnico quartiere di Ballarò a Palermo, e Alarm Phone (un progetto gestito dall’8 ottobre 2014 da volontari europei, tunisini e marocchini, che si impegna nel soccorso in mare dei rifugiati) hanno deciso di provare a vederci chiaro con un rapporto («Dal mare al carcere») che denuncia la criminalizzazione dei cosiddetti scafisti incrociando i dati delle forze dell’ordine, delle testimonianze dirette raccolte dalle due associazioni e dagli articoli di stampa. «L’Italia, l’Ue e l’Onu – spiegano gli autori del report – hanno sempre sostenuto che arrestare gli scafisti fosse un modo per combattere il traffico di esseri umani, al fine di prevenire le morti in mare. Ma questo report dimostra che la criminalizzazione degli scafisti ha effettivamente contribuito ad alcuni dei peggiori disastri marittimi della storia recente». Si parte dall’analisi del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (l’art. 12 del Testo Unico Immigrazione previsto dall’ordinamento italiano al fine di scoraggiare, punire, reprimere gli ingressi in violazione delle norme che regolano l’ingresso regolare in Italia e, in tal modo, proteggere i confini dello Stato) che «punisce non solo chi promuove, dirige, organizza, finanzia il traffico di esseri umani, ma anche chi materialmente trasporta migranti sprovvisti di visto di ingresso, e, in generale, chiunque con il proprio comportamento faciliti l’ingresso illegale di stranieri in Italia o in altro Stato europeo».

Ne consegue che viene posto sullo stesso piano della presunta organizzazione «il membro dell’organizzazione di trafficanti e colui che guida l’imbarcazione, o tiene la rotta, a prescindere dalle circostanze e delle modalità che lo hanno spinto a “contribuire” all’ingresso dei migranti nel territorio italiano». Si capisce così come quello che interessa allo Stato italiano è far di tutto per evitare che persone senza visto di ingresso entrino in Italia e lo fa punendo chiunque contribuisca, volontariamente o no, al viaggio dei migranti verso il suo territorio. Nel report si scopre quindi che lo scafista può essere un “migrante- capitano forzato” «spesso svolto da persone con pochissime, o quasi inesistenti, conoscenze del mare, costrette poco dopo la partenza a guidare l’imbarcazione», come si legge nel report, attraverso la minaccia o l’esercizio di violenza: «i timonieri ci mostrano le cicatrici della violenza subita sulla spiaggia o sulla barca, oppure ci raccontano della violenza a cui hanno assistito quando altri passeggeri hanno rifiutato di svolgere quei ruoli». C’è poi il “migrante-capitano per necessità” che «ha dovuto gestire l’imbarcazione durante momenti di difficoltà e trauma collettivo» oppure «ha dovuto prendere il timone durante i momenti più difficili della traversata, motivo per il quale è poi stato fermato dopo il soccorso».

C’è poi il “migrante-capitano retribuito” che viene pagato (in solido o in natura) per il limitato compito di guidare la barca senza avere a che fare con l’organizzazione del viaggio e con il sospetto “business” della migrazione: «nei campi in Libia, – si legge nel report – prima della partenza, ci sono momenti di prova in cui i candidati per il ruolo devono dimostrare di avere le necessarie competenze, usando il motore allestito in un barile. Spesso la prova viene effettuata davanti agli altri passeggeri, una forma di auto-controllo sulla professionalità del capitano. Infine, notiamo che tutti questi capitani sono loro stessi migranti: il loro ruolo è parte del loro stesso progetto migratorio». Tutte figure molto più complesse dello scafista integrato nell’organizzazione eppure spesso parificati con una colpevole semplificazione da parte delle istituzioni. Il report denuncia anche i «processi politicamente condizionati» a cui questi cosiddetti scafisti vengono sottoposti: «nella caccia allo scafista, capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità, le garanzie processuali vengono meno e quei principi su cui dovrebbe fondarsi ogni procedimento penale vengono con leggerezza violati».

«Per dare un’idea di quello che spesso diventa un accanimento della Procura contro i presunti scafisti – dice il report – un’avvocatessa ha paragonato questi processi a una guerra che richiede una lucidità estrema perché di fronte si ha un avversario, la Procura, che non concederà niente, che chiederà il massimo possibile della pena e cercherà in tutti i modi di ottenerla». Ci si scontra anche con il paradosso per cui adottare una linea difensiva forte, volta a contrastare le false accuse rivolte nei confronti dei capitani spesso porta ad un prolungato periodo di detenzione cautelare in attesa di un giudizio definitivo. Un altro problema che si pone è quello che per un capitano, e in generale per tutti i detenuti stranieri, la fine della pena non significa necessariamente riappropriarsi della propria libertà. Una mediatrice di Medu infatti spiega: «Ricordo un detenuto che aspettava la fine della condanna per prendere un caffè al bar di fronte al carcere. Durante gli anni dietro le sbarre ce l’ha messa tutta per essere una persona migliore una volta uscito dal carcere. Ha perfino conseguito l’attestato di licenza media. “Fuori ci vuole l’attestato”, diceva. Poi il giorno tanto atteso, camicia stirata, barba fatta e un sorriso sul viso. Ma ad attenderlo non c’era una seconda possibilità, ma una volante che lo accompagnava a un centro per il rimpatrio».

Guardando i numeri si scopre che dal 2013 oltre 2500 persone sono state arrestate con l’accusa di essere appunto i famigerati scafisti e la criminalizzazione dei conducenti di barche di migranti in Italia è aumentata costantemente negli ultimi 25 anni, soprattutto dal 2015 e che le conseguenze dell’arresto come scafista hanno un grave impatto sulla vita delle persone, anche se le accuse vengono ritirate. Del resto concentrare le attenzioni sugli scafisti è il modo più semplice per assolvere le vere responsabilità politiche che causano i fenomeni migratori. Trovare “un colpevole” che sia immediatamente riconoscibile (anche se innocente) è il modo migliore per fingere un’idea di sicurezza. Anche se, come dice l’attivista di Alarm Phone Sara Traylor, «mandare le persone in prigione non fermerà la migrazione né la renderà più sicura».

L’articolo Chi sono gli scafisti, i capri espiatori di procure e politica proviene da Il Riformista.

Fonte